Il presidente della Repubblica popolare è concentrato sulla grande sfida che attende la Cina e si gioca tutto sulla "common prosperity policy". Obiettivo: ridurre le disuguaglianze. Ma chi è, e da dove arriva, l'uomo che guida la Cina?
Ben prima della sua ascesa e consacrazione politica, Xi Jinping è un uomo della sua generazione. Ovvero un uomo che dal Partito venne spedito nelle campagne, circostanza che lo ha reso molto pragmatico, nelle decisioni e nelle azioni. Con l'ex presidente Usa Donald Trump ha parlato negli anni di spionaggio cibernetico, cambiamenti climatici, questione nucleare nordcoreana. Ma quello che tenta di fare è affermare la sua Cina come potenza pari agli Stati Uniti nello scenario finanziario globale. Intanto promette di giocare sul terreno dell'economia globale con le stesse regole, ma bisogna vedere fino a che punto queste dichiarazioni si tradurranno in provvedimenti concreti.
L'ascesa e la consacrazione
Di certo Xi ne ha fatta di strada. A Pechino oggi non c'è Mao ma lui, iscritto al Partito comunista cinese dal 1974 e arrivato agli incarichi governativi nelle province dello Shaanxi, dell'Hebei, del Fujian e dello Zhejiang. Il passaggio più importante la guida della municipalità di Shanghai, quando questa era nel pieno boom economico, e l'ingresso nel Comitato centrale, che lo incorona esponente di spicco della quinta generazione dei massimi dirigenti del Partito: Mao, Deng Xiao Ping (che avviò le riforme relative all'apertura economica cinese), Jiang Zemin e Hu Jintao.
Xi Jinping è membro di un'élite che ha studiato nelle scuole più prestigiose. Non deve però illudere che ami i film occidentali, che la figlia abbia studiato ad Harvard, che suo suocero sia un diplomatico di lungo corso e che, nel lontano 1985, guidando una delegazione di dirigenti dell'Hebei rimase fortemente affascinato dall'industria agricola dell'Iowa. Xi, e torno all'incipit, è rimasto quell'uomo che da giovane venne spedito nelle campagne cinesi. Un uomo pragmatico, e deciso a primeggiare.
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Lo sguardo verso l'interno
Quello che interessa al nuovo Xi in salsa Mao è il suo popolo. Non gli importa cosa pensa di lui la comunità internazionale, ma punta a evitare disordini sociali. Non lo chiamano Nuovo Mao a caso. Da quando una riforma costituzionale votata dall'Assemblea Nazionale del Popolo ha cancellato il limite massimo dei due mandati presidenziali, la definizione è arrivata in modo naturale. E come segretario del Partito comunista cinese e capo della Commissione militare centrale possiede davvero lo scettro del potere. Punta a essere rispettato dai cinesi e ha fatto sua la lotta contro la corruzione. Le disuguaglianze in Cina galoppano e la stretta nei confronti delle corrotte società statali e di quelle tecnologiche va letta proprio in tal senso: ridurre il gap tra i (pochi) ricchissimi e i (molti) poverissimi.
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Peccato che l'approccio contro le disuguaglianze stoni con quanto stia accadendo a Hong Kong, da quando quest'ultima è tornata ufficialmente in mani cinesi. La Repubblica popolare è proprio qui che mostra quanto non sia democratica: lo dimostrano le leggi imposte e che, per esempio, hanno portato alla chiusura degli uffici di Amnesty International; la repressione violenta delle manifestazioni; l'arresto dei dissidenti. Un recente episodio racconta meglio di tutti la deriva dell'ex penisola britannica: l'università di Hong Kong ha ordinato la rimozione della statua in ricordo della repressione di Tienanmen. Un avvocato, che preferisce restare anonimo, afferma: "Non è cambiato nulla qui per i professionisti, purché non ci si lamenti e non si partecipi a manifestazioni contro la Cina". E Pechino esercita una presa sempre maggiore anche su Taiwan, con esercitazioni continue che hanno il sapore della provocazione. Proprio recentemente otto aerei dell'aviazione cinese sono entrati nella zona di identificazione della difesa aerea taiwanese. Questo tema è un ulteriore terreno di scontro con gli Stati Uniti: il presidente Biden non ha usato mezzi termini affermando che gli Usa difenderanno Taiwan in caso di attacco da parte di Pechino.
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La via della Seta e il Covid
La "Nuova Via della Seta", il colossale piano infrastrutturale e di investimenti che coinvolge Asia, Europa e Africa disegnata e sostenuta da lui nel 2013, ha subìto un brusco stop a causa della pandemia, che ha reso la Cina invisa a molti. Eppure, nelle sue intenzioni, era destinata a cambiare gli equilibri economici del commercio mondiale. Ma sbaglia chi crede che il Covid-19 abbia interrotto tutto, soprattutto se si guarda al continente euroasiatico, all'Africa e all'America del Sud dove i cinesi avanzano galoppando. Offrendo denaro in contanti su un vassoio d'argento, la Cina offre soluzioni rapide - costruendo infrastrutture - a Paesi che del suo appoggio hanno bisogno, e in questo modo, con il suo approccio in Europa stile "divide et impera" prova ad andare avanti, corteggiando l'Ungheria per esempio, Paese che dovrebbe rispondere a regole europee ma che con i cinesi continua ad avere un rapporto one to one.
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La questione materie prime
Il mercato delle materie prime è stato mosso dalla pandemia, certo, ma un ruolo importantissimo anche in questo caso ce l'ha Pechino. È la prima consumatrice al mondo di petrolio e da sola riesce a muoverne i prezzi, contribuendo al loro rialzo. Banalmente, quando l'economia cinese cresce sopra le aspettative degli analisti, il prezzo sale perché si ritiene che farà ancora più incetta di petrolio, la cui produzione però resta ferma. Quello che c'è deve bastare a tutti e se la Cina ne vuole di più è un problema. Anche i prezzi di rame, acciaio e alluminio, usati soprattutto nell'industria, sono saliti in maniera significativa - l'acciaio, per dire, che a metà 2020 veleggiava sui 380 euro quest'anno ha visto i 1100 euro a tonnellata. Anche in questo caso la domanda della Cina contribuisce sul mercato al rialzo dei prezzi.
Va detto però che in questo momento rallenta anche il continente cinese, quindi non è detto che questa spirale inflazionistica causata anche dalla domanda cinese resti tale a lungo. Di certo l'approvvigionamento di materie prime da parte di Pechino ha rotto gli equilibri creatisi negli ultimi cinque anni. Solo nel 2020 la Cina ha assorbito quattro milioni di tonnellate di rame dal mercato internazionale - le attese erano pari a 200mila tonnellate.
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La guerra non è più solo commerciale
Ma non c'è solo l'economia. L'altro fattore chiave è quello relativo alla sicurezza. Pechino sta investendo per fare in modo di avere in casa sistemi operativi all'avanguardia, che possano gareggiare con quelli americani, e con i suoi semiconduttori. Per gli esperti però è troppo presto, e la verità è che la Cina dipende ancora tanto dalla tecnologia Usa. Ma ciò che preoccupa maggiormente Xi è la questione della Cybersecurity, tanto che l'autorità nazionale della sicurezza informatica a breve avrà compiti di coordinamento di tutte le altre autorità di controllo per analizzare quanto viene prodotto in Cina e trasferito all'estero e i cosiddetti storage e apparecchiature certificate in house.
Spesso accusata di cyber hacking e di creare caos informatici in tutto il mondo, Pechino ha sempre risposto che sono accuse che vanno provate e il portavoce del ministero degli Affari esteri cinese lo ha fatto senza usare mezzi termini: "Combattiamo fermamente gli attacchi cyber. I campioni, in questo campo, sono gli Usa". Di certo la guerra tra Cina e Usa non è più di dazi ma di dati. Non è un caso che ci si sfidi a colpi di chiusura di consolati, come accaduto poco prima dello scoppio della pandemia. Gli Stati Uniti hanno anche rafforzato la lista nera di aziende cinesi in odore di legami con la Difesa, imponendo ai capitali americani di disinvestire entro l'anno. Pechino risponde impedendo alle sue migliori aziende di sbarcare sul listino di New York.
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L'odi et amo con l'Occidente
Il rapporto tra Xi e l'Occidente è forgiato, come abbiamo visto anche dal paragrafo precedente, dal rapporto bilaterale tra Usa e Cina, definito dall'amministrazione Trump e proseguito da quella Biden, un rapporto che né dazi né strette di mano risolveranno, un rapporto definito dalla fiducia - o dalla sua assenza. A differenza della guerra fredda tra Mosca e Washington, Stati Uniti e Cina hanno un rapporto contraddittorio, un odi et amo catulliano. Da una parte sono inestricabilmente legati. Non foss'altro che Pechino è importante detentore del debito americano. "Made in China" poi, è quello che gli americani comprano. Inoltre, i cinesi sono attratti dall'"American Dream", capaci di restare tutta la notte in fila di fronte ai negozi Apple di Pechino e Shanghai pur di accaparrarsi il nuovo modello di cellulare. Ma la verità è che il problema resta: soprattutto ai più alti livelli manca la fiducia in entrambi i sensi. Di strada ne è stata fatta dal 1972, quando lo storico viaggio del presidente Nixon in Cina ebbe perfino una nota esotica, quasi stesse andando su Marte.