La 18enne è stata uccisa a Macerata il 30 gennaio 2018. Unico accusato per lo stupro e l’assassinio della ragazza è un pusher nigeriano che si dichiara innocente e ha ammesso solo di aver fatto a pezzi il cadavere. Nel febbraio 2019 è iniziato il processo a suo carico. Il 29 maggio la condanna all'ergastolo. Il 16 ottobre 2020 anche la Corte d'Assise d'appello di Ancona ha confermato la condanna
Il 30 gennaio 2018, in un appartamento di via Spalato a Macerata, la 18enne romana Pamela Mastropietro viene uccisa. Accusato del suo omicidio è Innocent Oseghale, un nigeriano di 30 anni. Il processo contro di lui è iniziato il 13 febbraio 2019: l’uomo deve rispondere davanti ai giudici della corte d’Assise di Macerata di omicidio, violenza sessuale, vilipendio, distruzione, occultamento di cadavere ai danni di una persona in condizioni di inferiorità psichica o fisica. Il procedimento, molto lungo e complesso, coinvolge circa 90 testimoni tra accusa e difesa. La sentenza è arrivata il 29 maggio 2019: per Oseghale condanna all'ergastolo con isolamento diurno per 18 mesi per omicidio e occultamento di cadavere.
Condanna confermata anche in appello
Il 16 ottobre 2020 la Corte d'Assise d'appello di Ancona, dopo 5 ore e mezzo di camera di consiglio, ha confermato la condanna all'ergastolo con isolamento diurno di 18 mesi per Oseghale, con le accuse di omicidio volontario aggravato della violenza sessuale, vilipendio, distruzione e occultamento di cadavere.
Dalla fuga all’omicidio
Il 29 gennaio 2018 Pamela scappa dalla comunità di recupero Pars, che la ospitava a Corridonia, grazie al passaggio offertole da un uomo di Mogliano fino alla stazione di Piediripa. Quella notte la passa a casa di un tassista e il giorno successivo un altro tassista la vede ai giardini Diaz, piazza di spaccio di Macerata. Qui, secondo quanto Oseghale avrebbe riferito in seguito al compagno di cella, la ragazza compra una dose di droga da Desmond Lucky (amico di Oseghale, inizialmente coinvolto e poi uscito dall'inchiesta principale), pagandola con una catenina d'argento, dono della mamma. Secondo gli inquirenti, a questo punto Oseghale avrebbe convinto Pamela a salire nel suo appartamento di via Spalato: qui, forse in cambio di una dose di eroina, l'avrebbe violentata e poi uccisa, accoltellandola al fegato in un raptus di rabbia, perché lei voleva chiamare i carabinieri.
Il corpo fatto a pezzi
Successivamente, dall'autopsia emergeranno dettagli raccapriccianti: il corpo di Pamela è stato lavato con la varechina, per cancellare ogni traccia, e fatto a pezzi "in modo scientifico", come ha scritto il medico legale Mariano Cingolani. Oseghale ha infatti deciso di sbarazzarsene chiudendo i resti di Pamela in due trolley e, la sera del 30 gennaio, si è fatto accompagnare da un amico tassista alla periferia di Pollenza, dove ha abbandonato le valigie. Quando verrà arrestato, il nigeriano negherà la violenza e si difenderà dicendo che Pamela sarebbe morta per un'overdose di eroina.
Le indagini e gli altri indagati
Oseghale viene arrestato pochi giorni dopo l’omicidio, individuato grazie alle immagini di una sistema di sorveglianza all'esterno di una farmacia a Macerata che lo immortalano mentre segue la ragazza. A casa dell’uomo, poi, saranno ritrovati i vestiti di Pamela e alcune tracce di sangue. Quando gli inquirenti arrivano a lui, il nigeriano prova a dare più versioni fino all’estate 2018, quando di fronte al procuratore Giovanni Giorgio ammette di aver fatto a pezzi il corpo della ragazza morta, nella sua versione, di overdose, e nega di averla violentata. Nel corso delle indagini, i sospetti degli inquirenti si concentrano anche su altre tre persone: si tratta di pusher nigeriani, tra cui l’amico di Oseghale, Desmond Lucky. Quest’ultimo e Lucky Awelima verranno accusati di omicidio, vilipendio e occultamento di cadavere, insieme a Oseghale, e posti in carcere. Una quarta persona è indagata a piede libero. Ma le accuse nei confronti dei pusher cadranno nel corso degli accertamenti: alcune perizie eseguite dal Ris e telefoniche escludono la presenza di Awelima e Lucky nell'appartamento di via Spalato 124 dove Pamela è stata uccisa.
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Le accuse di stupro e omicidio
Dopo diversi esami scientifici sul corpo della ragazza, necessari per chiarire alcuni dubbi circa la sua fine, la polizia stabilisce che fatali sarebbero stati due colpi di arma da punta e da taglio "penetrati alla base del torace a destra quando la vittima era ancora in vita". La ragazza, dunque, non sarebbe morta per overdose, ma uccisa mentre era ancora viva. Prima ancora, secondo gli inquirenti, Oseghale avrebbe abusato di lei mentre era in condizioni fisiche deteriorate per via dell'assunzione di eroina. Circostanza che troverebbe riscontri anche in alcune frasi intercettate dagli inquirenti nel carcere di Ancona, tra Lucky Awelima e Desmond Lucky, quando erano ancora detenuti: i due avrebbero parlato del fatto che Oseghale li ha invitati a casa sua a “stuprare una ragazza che dormiva”. Le indagini a carico del nigeriano si chiudono nel giugno 2018.
L'inizio del processo di primo grado
Il 13 febbraio 2019 Oseghale compare davanti ai giudici con un processo ordinario, dopo che il gip ha respinto la richiesta di rito abbreviato presentata dalla difesa. Nel novembre 2018 l'imputato, che continua a dire di non aver ucciso Pamela, chiede scusa ai familiari della 18enne leggendo una lettera durante l'udienza. "Le sue scuse per me sono una presa in giro", risponde la madre della ragazza, Alessandra Verni. Per la procura di Macerata, Oseghale è sempre stato un "acrobata della menzogna", avendo cambiato più volte la sua versione di quanto accaduto il 30 gennaio in via Spalato. Lui ha ammesso solo che, quella notte, fece a pezzi il corpo di Pamela ma ha sempre negato lo stupro e l'omicidio, di cui lo accusano il capo della procura maceratese, Giovanni Giorgio, e il suo sostituto, Stefania Ciccioli.
La testimonianza del compagno di cella
A marzo 2019, durante il processo vengono esaminate le rivelazioni del pentito e compagno di cella del pusher nigeriano nel carcere di Marino del Tronto e della moglie. Vincenzo Marino, ex 'ndranghetista e collaboratore di giustizia, diventa il supertestimone dell'accusa quando riporta le confidenze ricevute da Oseghale circa i fatti della sera del 30 gennaio. Stando a quanto riferito, il nigeriano incontrò Pamela ai Giardini Diaz di Macerata, la portò nella mansarda di Via Spalato per consumare una dose di eroina e qui, approfittando dell'effetto della droga, ebbe con lei un rapporto sessuale; quindi la colluttazione e le coltellate, temendo la reazione di Pamela dopo la violenza subita. "Innocent mi disse che, quando iniziò a tagliare il suo corpo, la ragazza ebbe un fremito, fece un movimento", testimonia l'ex pentito crotonese, intendendo che Pamela sarebbe stata ancora in vita quando ricevette la seconda coltellata. Un racconto "inattendibile" secondo i difensori del nigeriano, Simone Matraxia e Umberto Gramenzi, ma sotto le unghie della 18enne romana venne trovato il dna proprio di Oseghale, inchiodato anche dalla testimonianza dell'altro nigeriano, Lucky Awelima, che riferì agli inquirenti di aver fatto una telefonata all'amico e di aver sentito il pianto e i lamenti di una ragazza.
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La versione di Oseghale
"Non ho ucciso io Pamela, lo dico davanti ai suoi familiari", sono state le parole pronunciate il 3 aprile 2019 dal nigeriano. "Pamela è morta quando ero fuori casa per vendere una dose di marijuana a un amico che mi aveva contattato". Nel racconto del pusher, la ragazza si sarebbe sentita male "perchè si era iniettata una dose di eroina" e successivamente, stordita, sarebbe caduta a terra. A quel punto Oseghale l'avrebbe aiutata a rinvenire e solo allora sarebbe uscito dall'appartamento di Via Spalato. "Quando sono rientrato non respirava più, era già morta - sono state le sue conclusioni -. Voglio pagare per quello che ho fatto veramente". "Pamela è morta dissanguata, non ricevendo alcun tipo di soccorso e Oseghale ha cercato di nascondere le prove della sua responsabilità in vari modi, eliminando tutto il sangue e lavando tutto con la varechina", sottolinea invece in aula il sostituto Stefania Ciccioli, nella requisitoria dell'8 maggio.
Il confronto medico-legale
Nell'aprile 2019, infine, nell'aula di tribunale si confrontano i consulenti medico-legali e tossicologici di accusa e difesa. Mostrando le immagini choc delle autopsie sul corpo di Pamela, il tossicologo Rino Froldi e il medico-legale Mariano Cingolani sostengono la tesi dell'accusa secondo cui a uccidere la ragazza sarebbero state due coltellate al fegato inferte dal nigeriano. Dall'altra parte, gli omologhi della difesa, Paola Melai e Mauro Bassi, sostengono che la morte sia avvenuta per un'overdose. Un confronto che è bastato ai giudici per stabilire una sentenza dal momento che la corte d'assise ha deciso di non disporre ulteriori esami sulle ferite inferte a Pamela.
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La condanna all'ergastolo per Oseghale
Il 29 maggio è arrivata la sentenza della Corte d'Assise di Macerata: Oseghale viene condannato all'ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere, mentre la violenza sessuale è stata assorbita dalle aggravanti. La pena prevede anche l'isolamento diurno per 18 mesi. La condanna ricalca in pieno la richiesta dell'accusa, che anche nella replica del giorno della sentenza ha chiesto per Oseghale il massimo della pena. Il 16 ottobre 2020 la condanna all'ergastolo è stata confermata anche nel processo di appello.
Traini e il raid razzista
Ma la vicenda di Pamela viene ricordata anche per un altro episodio. Il 3 febbraio 2018, pochi giorni dopo l’omicidio della ragazza, a Macerata si scatena il panico: il 28enne Luca Traini dalla propria auto in corsa, spara all’impazzata per le vie della città marchigiana contro alcune persone di colore. Lo fa, racconterà dopo la cattura, per vendicare la morte della 18enne. Dopo aver ferito sei persone, l’uomo viene arrestato. Traini sceglie di essere giudicato con il rito abbreviato e il 3 ottobre 2018, a otto mesi esatti dalla sua sparatoria, viene condannato dalla corte di Assise di Macerata a 12 anni di reclusione per strage aggravata dall'odio razziale e porto abusivo d'arma. Si dice pentito per il gesto compiuto e chiede scusa: “Non provo nessun odio razziale, volevo fare giustizia contro i pusher per il bombardamento di notizie sullo spaccio diffuso anche a causa dell'immigrazione”.