"Lettere dall'Ucraina", il reportage di Sky TG24

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Jacopo Arbarello

Dopo quanto è accaduto nel 2014, gli ucraini sembrano non fidarsi e intanto si preparano al peggio. Il Parlamento ha approvato una legge voluta dal presidente Volodymyr Zelens'kyj che migliora la capacità difensiva del Paese tramite il rapido arruolamento di civili. Il racconto del nostro inviato

Sono giorni di grandi tensioni fra Russia e Ucraina. Dopo quello che è successo nel 2014, gli ucraini sembrano non fidarsi e intanto si preparano al peggio. In "Lettere dall'Ucraina" il racconto del nostro inviato.

Giorno 1, i campi di addestramento dei volontari (VIDEO)

In un clima insolitamente caldo per la stagione, solo 0 gradi al risveglio, Kiev prosegue nella sua quotidiana dicotomia tra normale capitale europea e città minacciata da una eventuale guerra prossima ventura. Il presidente Volodymyr Zelens'kyj ammonisce gli occidentali e Joe Biden a non diffondere il panico e adesso getta acqua su un fuoco che ha quantomeno contribuito ad attizzare quando l’anno scorso ha lanciato l’allarme per l’ammassamento di truppe russe subito oltre il confine. Che Zelens'kyj fosse preoccupato lo dimostra la legge da lui voluta e appena approvata dalla Rada (il parlamento ucraino) allo scopo di migliorare la capacità difensiva del paese e di rafforzare le forze dell’esercito e a tramite il rapido arruolamento di civili in una forza di riservisti armarti chiamata “Difesa territoriale”. Siamo andati a vedere questi campi di addestramento e chi vi partecipa sembra prendere la cosa molto sul serio. Non solo, in giro per la città sono diverse le iniziative volte a preparare la popolazione ad un possibile attacco. In tutto questo la città continua la sua vita regolare, tra bar e ristoranti aperti e affollati, mentre la diplomazia vola ben alta sopra il cielo di Kiev: il generale americano Mark Milley descrive come terrificante la prospettiva di un attacco russo, i leader si augurano tutti una de-escalation, a partire dalla Russia che nega di voler attaccare l’Ucraina. Nessuno sembra volere la guerra, ma dopo quanto successo nel 2014 gli ucraini sembrano non fidarsi e intanto si preparano al peggio.

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Giorno 2, a Kiev regna una calma apparente (VIDEO)

È una domenica normale, quella di Kiev, tra mercati aperti, centri commerciali e passeggiate delle famiglie in centro. I venti di guerra soffiano lontano dalla gente della capitale, nelle dichiarazioni dei ministri degli Esteri o della Nato. Nel frattempo bisogna continuare a vivere. A convivere con la  guerra gli ucraini sono abituati fin dal 2014, quando la Russia prese la Crimea e i ribelli filorussi il Donbass. Da allora, a bassa intensità, il conflitto non è mai finito. E tutti qui sanno di avere la guerra in casa. Ma hanno imparato a non farci troppo caso. Sembra essere così anche per la minaccia dell'invasione russa. Grandi titoli sui giornali e sulle TV di tutto il mondo, ma pochi effetti pratici nella vita di tutti i giorni. In molti si stanno preparando, questo si, iscrivendosi tra i riservisti o facendo corsi di sopravvivenza. Ma senza pensare troppo al futuro. Meglio vivere l'angoscia solo quando il pericolo arriva veramente. Nel frattempo, che la vita scorra come deve.

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Foto di Jacopo Arbarello, inviato in Ucraina

Giorno 3, lungo la strada che da Kiev porta al confine Nord (VIDEO)

La strada che da Kiev porta al confine Nord, tra Russia, Bielorussia e Ucraina, è lunga più di 200 chilometri e in questa stagione è una lunga e ininterrotta pianura innevata, costellata di piccoli villaggi. Il posto di confine vede una fila ininterrotta di camion aspettare l’ingresso nei due Paesi. I militari che presidiano la dogana sono rilassati e gentili, ma non ci lasciano passare. Servono permessi speciali per vedere come l’Ucraina protegge i propri confini.
L’ultimo villaggio prima della frontiera, Senkivka, è quasi disabitato. In tutto 63 abitanti, di cui solo 8 bambini, troppi pochi per avere ancora una scuola aperta. Qui si campa di agricoltura, e ai tempi dell’Unione sovietica, ci raccontano alcuni anziani del paese, la vita era molto più florida, la casa della cultura aperta, e la vita migliore. Qui si vagheggiano ancora i bei tempi passati, che forse però sono così belli perché coincidono anche con la giovinezza di questi signori.
Poco più in là, ad Horodnia, che non è un villaggio ma una cittadina, la musica cambia radicalmente. Qui essere ucraini diventa improvvisamente un valore, anche se quasi tutti sono russofoni, come in tutta la regione, dove almeno l’80% è madrelingua russo. Le due cose non sono incompatibili, ci spiega Andrei, avvocato e reduce della guerra in Donbass, perché il russo è un patrimonio culturale che non appartiene in esclusiva alla Russia. “Questa è la nostra terra – ci dice – e solo difendendola realizzi che puoi morire per lei”. “Sono certo – aggiunge – che Putin non ci attaccherà, perché l’Ucraina per lui è solo lo strumento per ricattare l’Europa e fare i suoi affari. E quanto accaduto in Donbass nel 2014, con i filorussi che hanno conquistato una porzione della nostra terra: la dimostrazione che i Paesi occidentali sono stati incapaci di proteggerci”.
Poi Andrei ci spiega che secondo lui la Russia non attaccherà anche perché le conseguenze sarebbero drammatiche: gli ucraini infatti adesso hanno un esercito molto più forte, mentre nel 2014 erano completamente impreparati, e si difenderanno. E poi, attaccare l’Ucraina significherebbe uccidere tantissimi ucraini che parlano russo.

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Giorno 4, donne sull’orlo della guerra (VIDEO)

Il seminario per le donne che vogliono prepararsi a possibili situazioni di emergenza è organizzato da una Ong che si chiama Guardia delle donne ucraine, che insieme ad altre associazioni, ci spiega Olena, la direttrice dell’Ong, ha finora formato almeno 30 mila donne. Il corso va quasi sempre esaurito, a riempire la sala solo donne, che ascoltano con attenzione quello che gli istruttori insegnano loro sulla difesa personale. Prendono appunti e girano dei video. Poi c’è la parte teorica, 6 ore in tutto. “E’ un training di sopravvivenza urbana per donne in guerra e in diverse situazioni di crisi” dice uno degli insegnanti. L’allieva gli fa eco, e ci dice, tra il sereno e il preoccupato che lei non ha alcuna informazione su come comportarsi se ci dovesse essere una situazione di pericolo: “Vogliamo solo essere preparate nell’eventualità di una invasione russa o di una estensione della guerra in Donbass. Vogliamo essere pronte e non andare nel panico, sapere cosa fare e come reagire per proteggere noi stesse, i nostri bambini e le nostre famiglie. Più sei pronta, meno ti può accadere qualcosa di male”.  

A gestire il seminario, con tanto di pistole e coltelli fasulli per fare le prove di aggressione e difesa personale, oltre alla direttrice ci sono un reduce della guerra in Donbass e un militare che ha combattuto addirittura in Afghanistan con i sovietici nel 1979 e che adesso fa l’istruttore di arti marziali. Anche loro non credono, come quasi tutte le partecipanti, che l’invasione russa sia una prospettiva vicina. Ma tutti gli ucraini dopo il 2014 hanno imparato a non fidarsi. Da allora hanno perso la Crimea e convivono con la guerra nell’Est del paese. “Il problema del 2014 è che quello che è accaduto era completamente inaspettato – conclude Olena – e allora lo stato era debole e l’esercito minuscolo”.  

Quindi, molto meglio farsi trovare preparate a qualsiasi eventualità. Lo pensa lei, lo pensano le migliaia di donne che in Ucraina frequentano questi corsi di sopravvivenza e primo soccorso.  

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Giorno 5, i reduci della guerra del Donbass (VIDEO)

I reduci della guerra del Donbass sono 460.000, quasi mezzo milione, e sono pronti a tornare a combattere se la Russia dovesse attaccare. Quella dei veterani è una ferita viva nella società ucraina, perché chi ha combattuto fatica a riabituarsi alla vita civile, non riesce a dimenticare, ha bisogno di aiuto. E non sempre è facile darglielo. Lo Stato in teoria dovrebbe provvedere all’assistenza psicologica e al reinserimento nel mondo del lavoro. Ma in realtà molto del lavoro lo fanno le associazioni e le Ong che provvedono all’assistenza legale dei reduci, fornendo avvocati e consulenti che li aiutano nelle pratiche per chiedere i sussidi di cui hanno bisogno, nella ricerca del lavoro, per nulla scontata dopo anni di battaglie, e nella terapia psichiatrica, senza la quale non si esce dal vortice della angoscia creata da anni di combattimenti.
“Dimenticare è difficile – ci dice Vasyl Antoniak – all’inizio i commilitoni provavano ad aiutarmi dicendomi di cancellare tutto dalla mia testa, ma non funzionava. Ho passato anni di depressione e di insonnia, con attacchi di panico. Poi finalmente mi sono deciso a farmi aiutare, e la terapia mi ha salvato, insieme allo sport”. Adesso Vasyl, che ci è passato, aiuta i reduci andando in giro con la macchina insieme a un legale e a un esperto del lavoro per dare sostegno a chi non riesce ad arrivare nella sede della sua associazione a Kiev, Veteran Hub. Al ventesimo piano di un grigio palazzo sovietico, Veteran Hub ha finora assistito 30mila reduci, e ne accoglie a migliaia ogni mese nei suoi locali. Servizi gratuiti per dare sostegno a chi ha combattuto per difendere l’Ucraina in Donbass. Tutti qui si dicono pronti a riprendere le armi se i russi dovessero invadere il Paese. Sono riservisti, e sanno bene come combattere. L’esercito, che già vanta 250mila effettivi, può contare su di loro. La Russia è avvertita.

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La sede di Veteran Hub a Kiev, una dell Ong che aiuta i reduci della guerra in Donbass - Jacopo Arbarello

Giorno 6, i tatari di Crimea (VIDEO)

“I russi sono degli aggressori, e da quando hanno occupato la Crimea il nostro popolo è represso e perseguitato” questo virgolettato, parola in più parola in meno, potrebbe essere attribuito più o meno a quasi tutti i tatari di Crimea che negli ultimi anni sono riparati a Kiev e nel resto dell’Ucraina. Un esodo che arriva alle 25-30 mila unità.  Ma perché i tatari scappano dalla Crimea? La storia è lunga di secoli, e si origina dalle persecuzioni russe nei confronti di quelli che venivano percepiti come gli eredi dei mongoli di Gengis Khan. A partire dal Pietro il Grande le deportazioni si sono susseguite fino all’ultima, la più sanguinosa, quella di Stalin. Oltre 200 mila tatari musulmani furono deportati dalla Crimea, e non gli fu permesso di tornare fino al 1989, alla vigilia della caduta del muro di Berlino. Dopo anni in cui, sotto la repubblica Ucraina, stavano provando a ricostruire la comunità tatara nella loro madre patria, che è la Crimea, nel 2014, con l’annessione alla Russia, i tatari ripiombano nell’incubo.  “Dei 120 prigionieri politici in Crimea, 90 sono tatari. Subiscono torture, punizioni e multe perché rivendicano la libertà di parola”  ci dice Refat Chubarov, il Presidente del parlamento del popolo tataro di Crimea. Un parlamento in esilio perché è stato chiuso e dichiarato illegale in Crimea per attività estremiste e sovversive. Lo stesso presidente, insieme a una miriade di altre persone, è stato dichiarato persona non grata in Russia. Sono anni che i tatari di Crimea denunciano soprusi e violazioni dei propri diritti, nel silenzio più o meno unanime della comunità internazionale.  Non stupisce dunque che quando andiamo a trovare il mufti dei musulmani di Ucraina, tataro del Donbass, ci ricordi come i tatari abbiano già riempito le fila dell’esercito ucraino per combattere i ribelli filorussi, con un proprio bilancio di morti e feriti. E anche alcuni ragazzi venuti a pregare sembrano concordare: se la Russia dovesse attaccare l’Ucraina, anche i tatari di Crimea sarebbero in prima fila a difenderla. Per loro la Russia è il nemico centinaia di anni. 

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I tatari di Crimea in preghiera davanti al mufti - Jacopo Arbarello

Giorno 7, la povertà in Ucraina (VIDEO)

Perché l’Ucraina? Perché tanto interesse da parte della Russia? La domanda sorge spontanea a guardare quanta povertà c’è nel paese, e non solo nelle campagne abbandonate lontano dalla capitale, ma anche subito fuori dal centro di Kiev. L’Ucraina, dopo la Moldova, è infatti largamente il paese più povero del continente europeo, con un reddito pro capite poco superiore a quello dell’India. Una povertà dovuta a tanti fattori, di cui senz’altro il principale è la guerra che i ribelli filorussi hanno portato nel paese nel 2014 sottraendo il Donbass al governo di Kiev. La guerra ha infatti da una parte sottratto al paese la parte più ricca di materie prime, come carbone e gas, e le industrie più fiorenti, che si trovavano tutte nell’area di Donetsk. D’altra parte ha indotto alla fuga più di un milione di persone, e proprio questi profughi interni sono adesso tra quelli che più comunemente precipitano nelle condizioni di povertà più estrema. Tanto che nella periferia di Kiev, costellata di palazzoni dormitorio di epoca sovietica, si vedono scene come quella di una signora che ha aperto un negozio per acquistare le bottiglie vuote, la plastica, il cartone e il metallo. I suoi clienti sono tutti quelli che non hanno un lavoro, che non hanno una casa o che hanno stipendi e pensioni troppo basse per arrivare a fine mese.  Alla casa delle misericordia di Kiev, poco distante, aiutano i senzatetto a rifarsi una vita. Li ospitano, li nutrono e li supportano nella richiesta dei documenti necessari per provare a trovare un nuovo lavoro. Sono decine le strutture di questo genere, ma la richiesta supera sempre l’offerta. Lì gli operatori sociali ci spiegano che certo, tra i fattori della povertà c’è la corruzione e una economia che non riesce a ripartire, ma la guerra ha drenato le principali risorse del governo negli ultimi anni. E poi, sempre nel 2014, la Russia ha sottratto all’Ucraina la Crimea, la penisola sul Mar Nero che era fino ad allora la principale attrazione turistica del paese dopo Kiev. Adesso queste rinnovate tensioni internazionali e lo schieramento di 100 mila soldati al confine hanno messo nuovamente in fuga gli investimenti stranieri e i turisti, e dunque il danno economico è già certo e notevole. Se non fosse per l’orgoglio nazionalista e per la voglia di resistere a tutti i costi ad una eventuale invasione russa, l’Ucraina potrebbe essere già considerata un paese in ginocchio. 

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L'ingresso fatiscente di uno dei tanti palazzoni-dormitorio della periferia di Kiev - Jacopo Arbarello

Giorno 8, Chernobyl (VIDEO)

Visitare Chernobyl è un viaggio nel nostro passato. L’esplosione nucleare del 1986, la grande paura che si diffonde in tutta Europa. La zona è ancora off limits. Una prima area di sicurezza di 60 chilometri di diametro e poi una exclusion zone di 20 chilometri di diametro, all’interno della quale non si può pernottare. Per entrare ci sono controlli doganali e di polizia. Si viene forniti di un rilevatore di radioattività e si entra solo accompagnati da una guida.  Il primo villaggio che incontriamo è Zalissya, prima della fuga qui abitavano 3 mila persone, adesso il bosco ha avvolto le case, le vie, anche l’imponente palazzo della cultura sovietica. Dopo l’evacuazione alcuni residenti sono tornati a vivere qui tra queste case distrutte, isolati, e ci sono rimasti fino alla morte nei primi anni 2000. Dalle finestre si vedono ancora i resti della vita che fu.  Proseguendo verso la centrale nucleare ci fanno fare una deviazione per andare ad ammirare forse il più impressionante dei relitti industriali sovietici sopravvissuti fino ai nostri giorni. Le altre installazioni di questo genere sono infatti tutte state smantellate, questa no perché è nella zona di Chernobyl, all’interno della quale non si può toccare nulla. Si tratta di una enorme installazione di radar, costruiti negli anni ’70 con l’obiettivo di intercettare i missili balistici americani prima che potessero colpire obiettivi sovietici. Alti 150 metri, questi radar si estendono per centinaia di metri.  Avvicinandosi ulteriormente si iniziano a vedere i segni della radioattività. Nel villaggio di Kopachi la maggior parte delle case sono state distrutte e seppellite sotto terra, avvolte dalla plastica. A ricordarle sono una collinetta e i cartelli gialli che invitano a stare lontano.  Ed ecco finalmente la centrale, con i suoi quattro reattori, più il quinto mai ultimato. Qui davanti i turisti si fanno la foto ricordo. Dentro, a lavorare, sono ancora in 2.300. Devono mantenere in vita la centrale affinché non faccia ulteriori danni. Solo questo costa alle disastrate casse del governo ucraino 60 milioni all’anno. Mentre per costruire l’ultima calotta al reattore 4, quello che esplose, ci sono voluti oltre 2 miliardi di euro. L’Ucraina non li aveva, li ha dovuti chiedere a un consorzio di 40 paese stranieri che l’hanno aiutata, anche perché le conseguenze delle scorie radioattive della centrale si estendono ben oltre i confini ucraini. Ad esempio, quasi la metà della zona interdetta è in territorio bielorusso.  Accanto alla centrale c’è il cuore della visita, la città di Prypiat, i cui 49 mila abitanti sono stati rapidamente evacuati a meno di due giorni dalla tragedia. Prypiat era una città modello per l’Unione sovietica. Chi vi abitava aveva assegnata una casa con tante stanze quanti erano i figli della famiglia, c’erano i migliori ingegneri del mondo comunista, ristoranti, teatri, 15 asili e scuole per ragazzi e il primo supermercato dell’universo sovietico. Tutto abbandonato in poche ore, compreso lo stadio mai utilizzato e il parco giochi più fotografato del mondo, con la grande ruota mai entrata in funzione, simbolo mondiale di questa tragedia.  

Adesso Chernobyl e Prypiat sono una meta turistica importante per l’Ucraina, prima del Covid gli ingressi annuali erano almeno 100mila. Eppure l’esercito continua a compiere le sue esercitazioni tra queste strade, chiudendo l’accesso al pubblico per diversi giorni al mese. Una pratica che incontra le critiche e la preoccupazione delle guide e dei cittadini, perché le esplosioni e gli spari rischiano di sollevare materiale radioattivo sepolto sotto terra nel corso degli anni con il duro lavoro di 680 mila persone che si sono prestate, negli anni, a ripulire l’area dalle scorie radioattive. Non solo, questi luoghi, spettrali ma estremamente affascinanti, sono qui a futura memoria di una tragedia nazionale e internazionale. Gli Ucraini vogliono che diventino siti Unesco, e odiano vederli distrutti dai militari, anche se i soldati si esercitano per difendere il paese da una possibile invasione russa.  

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La ruota panoramica, mai entrata in funzione - Foto di Jacopo Arbarello

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