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“Vite - L’arte del possibile”, l’intervista a Jovanotti

Cronaca

Lorenzo Cherubini si racconta a Giuseppe De Bellis: è lui il protagonista del nuovo ciclo di interviste dedicate al successo e alla capacità di raggiungerlo. “La tristezza di mia mamma è stata forse il motivo più forte per il quale ho sentito il richiamo dell’attitudine a portare allegria”, svela l’artista. E ancora: “Ho fatto fare un ‘mate’ per Papa Francesco, spero di poterglielo dare”. Non mancano dichiarazioni d’amore per Roma e Milano

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Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, è il protagonista del nuovo ciclo di “Vite - L’arte del possibile”. L’artista si racconta a Giuseppe De Bellis in un luogo da lui molto amato, casa degli Atellani, la vigna di Leonardo da Vinci a Milano. “Una meraviglia, uno dei posti più belli del mondo, ed è anche piuttosto sconosciuto, perché io stesso l’ho scoperto per caso”, ha spiegato l’artista al suo interlocutore (LE ALTRE PUNTATE: BRUNELLO CUCINELLI - DIEGO DELLA VALLE - ALESSANDRO BARICCO - FEDERICO MARCHETTI - FABIOLA GIANOTTI - AMALIA ERCOLI-FINZI - MICHELE DE LUCCHI - RENZO ROSSO - ANDREA ILLY - BEATRICE VENEZI - LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO - REMO RUFFINI - ROBERTO BAGGIO).

Intv Jovanotti esterna

 

Senti, guardando questo luogo che ci ha accolti mi viene in mente una domanda sul tuo rapporto con la bellezza, perché tu la citi spessissimo, parli spesso di bellezza, ma il tuo feeling con la bellezza qual è?

La mia sensazione è di esserci un po’ nato dentro, mio malgrado. Nel senso che io sono nato tra Cortona e Roma, la mia formazione sentimentale ed estetica è avvenuta in due luoghi di una bellezza diversa ma strepitosa. Forse il luogo che più mi ha segnato da bambino è proprio il Vaticano… quelle stanze lì, quella meraviglia, i Musei Vaticani… Tu immagina un bambino che visita i Musei Vaticani da solo, quando sono chiusi, la Cappella Sistina fuori dall’orario d’apertura, che impatto può avere nella testa di un bimbo. Che poi [tutto questo] non si è tradotto in realtà in un’estetica di quello che faccio, perché poi in realtà io vivo nel caos, mi nutro del caos e mi piace il caos e mi piace anche ciò che non è canonicamente bello.

 

Ecco, ma il processo creativo che ti porta ad una creazione parte da una visione che ha a che fare con un oggetto, che ha a che fare con un’opera d’arte, oppure è frutto del caso?

È frutto del confrontarmi con il caso e quindi del mettermi in relazione con le cose che accadono cercando di trovare il punto in cui mi sento risuonare, sento che accade qualcosa dentro di me per cui mi sembra che la cosa che sta accadendo sia giusta. È molto difficile dare una definizione di questo, perché io faccio canzoni pop, non c’è niente di più misterioso e di più aleatorio e di indefinibile di questa parola, “pop”. Quindi è molto difficile perché il pop non è necessariamente bello, non risponde a nessun tipo di canone, anzi funziona quando ha dentro un elemento di innovazione contemporaneamente ad un elemento di riconoscibilità. Quando queste due cose stanno assieme si scatena l’effetto del pop.

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Intv Jovanotti seduta

 

Lorenzo Jovanotti, benvenuto a Vite.

 

Grazie, fa molto piacere essere qui.

 

Grazie davvero, siamo in un posto meraviglioso.

 

Eh sì è veramente fantastico.

 

Siamo a Milano, qui accanto c’è la villa di Leonardo, che è un posto che hai scelto tu, perché è un posto che ti piace.

 

Beh è una meraviglia, un posto bellissimo, uno dei posti più belli del mondo, ed è anche piuttosto sconosciuto, perché io stesso l’ho scoperto per caso, perché i primi anni che ero qui a Milano una mattina dissi: “Io sono a Milano, non posso non andare a vedere il Cenacolo”. E quindi venni a vedere il Cenacolo e uscendo vidi questa facciata così bella di questo palazzo e dissi: “Cos’è?”. E poi ho scoperto anche la storia meravigliosa, si pensa che qui ci abitasse Leonardo Da Vinci e che avesse anche una piccola vigna dalla quale faceva il suo vino.

 

Mi concentro proprio su questo, sul tuo periodo milanese, sul tuo rapporto con Milano. Tu hai tre luoghi che sono Roma, dove sei nato, Milano, dove hai cominciato il tuo percorso professionale, e poi il posto che ami di più credo che sia la tua Cortona.

 

Ma non è tanto il posto che amo di più quanto il posto dove vivo, dove sono cresciuto da bambino nelle vacanze dai nonni, però non posso dire che è un posto che amo più di Roma o Milano. In realtà non è un posto più speciale degli altri, sono tutti e tre luoghi importanti.

 

Milano che cos’è nella tua vita, cos’ha rappresentato e cosa rappresenta oggi.

Milano per me è stata un po’ l’America, nel senso che io quando sono arrivato a Milano avevo appena compiuto 19 anni e avevo fatto un provino per DJ Television che era il programma di Italia 1, facevo già il DJ a Roma nei locali e nelle radio private, e arrivare qui per me voleva dire andare via di casa, l’indipendenza, il lavoro, una città nuova e diversa, molto diversa da Roma, più europea mi sembrava, più affacciata verso un mondo che mi attraeva, dal quale mi sentivo più attratto. Per cui io sono venuto via da Roma una notte e non sono più tornato per anni poi.

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Il tuo rapporto con Roma? Tu sei nato sulla soglia del Vaticano.

 

Sì proprio fuori dalle mura! Io vedevo dalla finestra della camera che dividevo con i miei fratelli proprio la cupola di San Pietro davanti e quella è l’immagine più forte che ho. Io amo Roma, Roma è Roma, la città più bella del mondo, la città più incredibile, più stratificata, più pazza. Io ho un problema rispetto ai miei colleghi: spesso i cantanti hanno un luogo che li identifica fortemente. Io invidio molto gli artisti, i miei colleghi che hanno Napoli e cantano Napoli, o Carbone che canta Bologna come Dalla, oppure non so Venditti che fa la canzone su Roma. Io non ce l’ho un posto dal quale vengo. Sono un po’ sradicato, no? Infatti quando ero a Roma ero quello toscano, quando andavo a Cortona ero il romano. Milano in questo senso è una città che accoglie, come New York. Diventi subito milanese perché non è una città di milanesi. Incontri quasi solamente gente che arriva da altre parti, per cui questa cosa qua rende Milano forse la città più moderna d’Italia, proprio per questa sua mancanza di un’identità forte. Che poi se la vai a cercare c’è, c’è Gaber, Celentano, c’è tutto un mondo. Però Celentano per esempio è pugliese, [Milano] è comunque una città di immigrati.

 

La tua infanzia a Roma, com’è stata? Tu ne hai parlato in diverse occasioni. La ricordi come un momento felice o hai qualche piccolo dubbio?

 

La mia infanzia è stata molto felice e piena d’amore. Una famiglia numerosa, quattro figli, mio babbo faceva l’impiegato in Vaticano. Semplice, senza settimane bianche a Capodanno, senza nessun lusso, diciamo così. I miei compagni di scuola andavano in settimana bianca e io non ci andavo, oppure si rinunciava a qualche gita. Però non mi è mai mancato nulla e in più era una famiglia dove c’era molto caos in casa, le porte aperte. Mio babbo pur abitando in centro a Roma sosteneva questa sua tesi che lasciare la porta aperta era un modo perché i ladri stessero lontani, perché almeno vedono che non abbiamo paura. Io veramente sono cresciuto al primo piano di un palazzo del Vaticano in via Porta Cavalleggeri con la porta aperta sempre e questo però voleva dire che entrava gente, entravano i miei amici, entravano gli amici dei miei fratelli. Era una casa piuttosto rumorosa. C’è un filo nella mia infanzia che è quello di una tristezza della mia mamma, che per me è sempre stato forse il motivo più forte per il quale ho sentito il richiamo dell’attitudine a portare allegria. Perché è come se venissi investito da questo ruolo in casa, dal ruolo del terzo figlio che avesse un po’ la capacità di farla sorridere. E poi crescendo ti rendi conto che ci sono tutte delle cose che motivano questo, mia mamma madre di quattro figli, casalinga, spesso sola, venuta da un paese piccolo, era quasi laureata in biologia poi aveva dovuto interrompere perché suo padre aveva avuto dei problemi economici. Tutte delle cose messe in fila che forse a un certo punto l’hanno portata verso una vita che forse non era una vita che lei desiderava nel profondo. Però era un’altra generazione e quindi ci si adattava. È stata una mamma fantastica, è stata presente, generosa, amorevole, intelligente, mi ha sempre sostenuto in tutte le cose. Però, quando io la guardavo da sola e non era osservata, coglievo in lei un po’ di tristezza. Una vena di tristezza che probabilmente mi ha guidato verso questo ruolo di figlio clown in casa.

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È vero che hai regalato a un certo punto un mate a Papa Francesco?

In realtà ce l’ho ancora  lì.

 

Allora c’è un disallineamento rispetto alla notizia che avevo ricevuto.

 

Sì non so chi te l’ha data però è vero, mi stai dicendo una cosa che non sa nessuno! Ho fatto realizzare da un artista di Buenos Aires che realizza dei mate artigianali molto belli un mate per Papa Francesco e ce l’ho lì, incartato. Ad un certo punto ho scritto una lettera a chi si occupa delle udienze private del Papa, raccontandogli la mia storia, dicendo “io sono figlio di un dipendente del Vaticano, sono cresciuto in Vaticano, sono un cattolico romano, per quanto non ortodosso, però mi riconosco in questa famiglia”. Siccome era da poco guarita mia figlia da una malattia, mi piacerebbe incontrare… Quindi ho questo mate e spero di darglielo, perché lui mi ha risposto, dicendo “io conoscevo tuo padre”. Perché mio padre in Vaticano lo conoscevano tutti, perché era un tipo simpatico. Poi lui per arrotondare lo stipendio da impiegato faceva un po’ di altri lavoretti, per cui dava una mano al cardinale, gli andava a fare la spesa, faceva un po’ di cose e quindi lo conoscevano tutti. Poi il Vaticano è un mondo piccolo, è un paesino, un paesello.

 

Ti porto alla strettissima attualità, il tuo ultimo disco. Disco del sole in un momento in cui abbiamo bisogno di sole. Il sole è una cosa che ricorre tantissimo nei tuoi titoli, nelle parole.

 

Fin troppo ricorre, a volte mi devo frenare perché fosse per me farei solo canzoni che parlano del sole, in realtà è come una presenza sulla quale mi devo trattenere. Mi rendo conto che esagero a volte, però specialmente ultimamente ne ho avuto proprio bisogno.

 

Che cos’è questo momento per il tuo percorso professionale e artistico?

 

Mi rendo conto di aver fatto un sacco di roba, sono più di 40 anni che faccio questo lavoro professionalmente più o meno, e quindi se ci penso sono tante canzoni, sono tanti incontri, tanti concerti, tante cose, poi mi rendo conto che adesso tornano di moda delle cose che io ho vissuto. Sai, quando rivedi delle cose che per mia figlia sono nuove e per te sono la terza volta che ti compaiono davanti cominci a pensare che è passato del tempo. Però allo stesso tempo poi non mi interessa tutto questo passato. Ho affetto, ho gratitudine, però in realtà penso che guardo avanti, perché comunque mi sento molto creativo, anzi mi sento all’inizio della creatività, che è forse la fase magica. Non mi sento neanche tanto creativo, sento desiderio di essere creativo, e il desiderio è la spinta iniziale di tutto.

 

Lorenzo, per preparare questa nostra chiacchierata, sono andato a rileggere “Gratitude”. Tu hai appena citato la gratitudine, quel libro mette a fuoco, racconta i tuoi primi 25 anni con questo approccio anti nostalgico. Sono passati 10 anni dall’uscita di quel libro. Nei 10 anni che sono passati da quel momento a oggi l’atteggiamento tuo è rimasto lo stesso di quel momento di quando hai dovuto mettere nero su bianco quello che avevi fatto e avevi pensato guardando al futuro, o è cambiato qualcosa?

 

Beh sono cambiate tante cose. Sono morti i miei genitori, mia figlia è grande, si è laureata in accademia d’arte, dal punto di vista personale sono cambiate tante cose. Ho fatto il massimo di quello che un cantante può fare in questo Paese. Ho riempito gli stadi, ho riempito le spiagge. Quindi insomma uno potrebbe dire che in Italia ne abbiamo fatte di tutti i colori. Però quella sensazione di gratitudine non è cambiata, infatti il libro l’ho chiamato “Gratitude” proprio perché è un sentimento che io sento sempre molto forte, molto molto forte. Forse di tutti è quello che più mi invade.

 

Poco dopo quel libro qualcuno si è divertito a fare il censimento delle parole delle tue canzoni. Ad un certo punto sono venute fuori in un articolo del Corriere della Sera quattro o cinque parole che ricorrevano dall’inizio della tua carriera fino al 2015. C’era “Now”, c’era “Salto”. Allora io sono andato a vedere quello che è successo negli ultimi otto anni. La cosa è meno scientifica, è più artigianale, ma mi sono reso conto che guardando ci sono quattro parole che ricorrono più spesso. Una è “vita”, l’altra è “ballo” o “ballare”, l’altra è “bambino”, e l’ultima è “sole”. Che cosa hanno queste quattro parole, sono sganciate?

 

Beh, sembra quasi un disegno di un bimbo. Anche se la parola “vita” nei bambini non c’è, se tu dici “vita” un bambino non sa di cosa stai parlando, quindi la parola “vita” prende forma col tempo. La parola “ballo” è forse quella iniziale, è la scintilla che ha mosso tutto. Io amo la musica perché mi fa ballare soprattutto. Ho iniziato ad amare la musica perché mi fa ballare. Il ballo è misterioso perché è irrazionale, perché è una forma primordiale. I bambini se parti come un ritmo ballano. Cos’è che muove questa cosa qua? Gli animali non lo fanno, è una cosa molto legata proprio alla natura dell’essere umano. Gli animali sembra che lo facciano, perché hanno una naturalezza nel muoversi che gli umani invece acquistano solo ballando. Per me il ballo sebbene io sia un ballerino scardinato, primitivo, per me il ballo è un elemento vitale fondamentale, proprio fondamentale, è forse la scintilla creativa più importante. Mi piace fare canzoni da ballo, la musica da ballo mi fa impazzire, è un linguaggio universale in assoluto.

 

Una volta l’hai definito “musica da calci in culo”.

 

Beh sì è vero, perché sai è la musica dei luna park, è quella cosa che l’artista ad un certo punto inizia a sentirsi a disagio a fare musica da luna park, e invece a me piace, a me devo dire che piace se un mio pezzo viene suonato in un luna park o nel calci in culo, per me non è una cosa della quale non andar fiero, anzi è un traguardo. Un giorno uno mi domandò: “Vorresti che ti dedicassero una via?”. Io risposi “No, vorrei che mi dedicassero una sala giochi”. Proprio un luogo dove c’è vita, dove ci si diverte. Ciò non toglie che io ami anche la parte della canzone d’autore. Mi piace mischiare le cose, una canzone che si balla ma dove contemporaneamente riesco ad infilarci dentro un’immagine che abbia qualcosa di vero, di profondo. Una canzone per me funziona quando ha vari strati, per cui tu la guardi e poi la guardi dietro e vedi che prosegue.

 

Ti tengo attaccato al ballo, perché vorrei parlare del Jova Beach Party. È passato qualche mese, riguardando, ripensandoci che cos’è stato questo secondo Jova Beach Party?

 

È stato enorme, da tantissimi punti di vista. È stato una botta di vita, anche perché c’è stato di mezzo il Covid, per cui quando sono uscito per la prima volta a Lignano di nuovo ho visto come se le persone fossero triplicate, sebbene il numero fosse più o meno quello. Erano 50mila ma sembravano 500mila, perché probabilmente c’è stata proprio una riscoperta del corpo, che come strumento di condivisione, di piacere, poi immerso in una spiaggia in costume da bagno, sotto al sole, per una giornata intera, mi rendevo conto che quella cosa lì si poteva solamente vivere. Non si può descrivere, si può amare, si può criticare, se ne può parlare, ma essere lì, in quel momento insieme, era unica. Era più di un concerto, era più di un format tradizionale di un concerto, dove arrivi parcheggi la macchina al tuo posto, sai che alle nove inizia, alle undici finisce. Quello che abbiamo inventato con Jova beach party, che abbiamo costruito insieme al pubblico devo dire, è qualcosa di molto più antico. Mentre lo realizzavamo, mi ero ricollegato a certe tradizioni addirittura mitologiche, come i misteri eleusini. Poi tu sei pugliese, sai cosa significa la musica trance, i ritmi trascinanti che comunque fanno venire fuori il male e ti guariscono. Tutte queste cose qua mi sembrava che avessero a che fare con quello che stavamo facendo. In effetti è stato così, poi come sai essendo giornalista abbiamo sollevato alcuni polveroni.

 

Qualche mese dopo, sempre riguardando indietro. Le polemiche hanno un effetto diverso o si sono esaurite in quel momento? Ne è rimasto qualcosa dentro di te?

 

Le polemiche si sono esaurite in quel momento perché io sapevo quello che stavamo facendo, quindi ero molto a posto, perché avevamo i permessi legali, e in Italia non è semplice. Abbiamo lavorato un anno per avere tutti i permessi. Ma al di là di quello, che è il minimo, poi c’era tutto il resto, che per me era importante, quindi la valorizzazione di quei territori lì, il portare un gran numero di gente in luoghi di provincia, la bonifica di un sacco di spiagge dove siamo stati, che prima che arrivassimo noi in certi casi erano veramente un po’ deturpate, abbandonate. Per cui insomma io mi sentivo tranquillo. Certo, poi sebbene tu ti senta tranquillo e sappia che hai una barca che può superare le tempeste poi la tempesta è la tempesta, per cui quando poi ci passi dentro devi avere a che fare comunque con punti di vista che ti mettono in discussione e dici “forse abbiamo sbagliato qualcosa”. Però no, perché poi in realtà mi rendevo conto che erano pretestuosi, non voglio essere presuntuoso, ma nel 100% dei casi non c’è stata nessuna delle iniziative prese contro Java Beach Party che è andata in porto.

 

Hai citato la barca in un contesto totalmente diverso, ma è una passione per te, il mare e la barca a vela. Vero?

 

Sì, è una passione un po’ distante come dire, perché in realtà la mia formazione emotiva e sentimentale è stata a Cortona, e Cortona è esattamente a metà strada tra due mari, quindi io non sono un uomo di mare. Non sono mai andato al mare da bambino, andavo a Cortona dai nonni, però l’idea del mare è forse una delle più potenti che ho sempre avvertito. Il mare è la metafora, la metafora delle metafore, la navigazione, la scoperta. Siamo in un posto pieno di carte geografiche, l’epopea dei grandi navigatori e delle grandi scoperte, mi accende l’immaginario e mi entusiasma. Poi un giorno sono diventato amico di Giovanni Soldini, che per me era un eroe, uno fantastico, leggevo tutte le sue interviste, leggevo i suoi libri, guardavo i suoi video. Siamo diventati amici, abbiamo la stessa età, e ci siamo trovati una sera a cena a parlare fino all’alba. E lui mi ha detto: “Ma scusa perché non vieni con me una volta, visto che sai tutte queste cose, sai tutti i nomi tecnici, vieni con me!”. Quindi mi ha invitato a una regata nel suo catamarano e quando sono tornato a casa ho detto a mia moglie Francesca: “Ma io sono nato per fare questa cosa, questa è la mia vita, io dovevo fare questo!”. Poi in realtà sono stato un’altra volta con lui, nei mari della Cina abbiamo fatto una regata da Hong Kong fino al Vietnam, fantastico. Però è una passione irrisolta, perché in realtà, come dire “sei appassionato di macchine?”, certo se vai in macchina con un pilota di Formula 1, per cui è facile appassionarsi alla vela se fai un giro con Soldini.

 

Però questa cosa mi richiama altre due cose, che sono la solitudine e l’avventura. Tu sei a tuo agio in mezzo alla folla, come abbiamo visto al Jova Beach Party e ovunque, però ho la sensazione che tu abbia una specie di spinta verso la solitudine. Spesso fai dei viaggi da solo, collegati all’avventura.

 

Beh si, le due cose si nutrono l'una dell’altra, no? Per cui mi piace stare in mezzo al casino, mi piace stare in mezzo alla folla, mi piace soprattutto stare su un palco in mezzo alla folla, ma anche vado ai concerti. Io lavoro per stare a mio agio nel mondo, non mi piace lamentarmi del mondo o delle situazioni in cui mi trovo, per cui in qualsiasi situazione in cui mi trovo cerco di trovare il punto di contatto con quella situazione, e di solito c’è sempre un punto di contatto, siamo esseri umani! Però insomma il caos mi piace il casino mi piace, la folla mi piace, ci sto bene, mi perdo, mi fondo. Però questa cosa si nutre [con la solitudine], forse sono la stessa cosa, perché non c’è un luogo dove sei più solo che sul palcoscenico. Non c’è molta differenza tra un oceano o un deserto e un palco di fronte a 50mila persone, la sensazione ha dei punti di contatto tra le due cose. Forse la situazione nella quale mi sento meno a mio agio è quella di una compagnia ristretta. Lo so che è una cosa che forse un dottore potrebbe dargli un nome, per me è più semplice parlare di una cosa intima a una folla che [parlarne] a una persona. Di fronte ad una folla sono me stesso, non mento, sono sincero. Di fronte a una persona sola potrei montare delle maschere.

 

Hai citato Giovanni [Soldini] come un eroe, ci sono altri eroi nel Pantheon di Jovanotti?

 

Beh sì, un sacco di eroi! Rischio di dire una cosa banale ma quando penso ai miei genitori che han tirato su quattro figli da soli, a Roma, dico “ma pensa te”, questi qui che non si lamentavano mai. Io li considero eroici in quello che hanno fatto con noi in quegli anni lì. Poi ci sono gli sportivi, i grandi artisti, i grandi mistici, i grandi scrittori, i ragazzi! Come si fa a non sentirsi ammirati da sti ragazzi che stanno a Teheran per la strada. A non sentire che si stanno giocando la vita. Non c’è narcisismo. Io sono stato a Teheran per qualche giorno, e quando vedo quelle immagini sento che lì c’è qualcuno che ci sta dicendo qualcosa, ci sta dicendo che la vita va vissuta alla ricerca della libertà, che la libertà non è un bene scontato, che è il grande valore della nostra epoca, e va difesa, e va evidenziata e chiunque lo fa è un eroe.

 

Allora, abbiamo citato gli eroi, viva la libertà, il trittico si completa con gli immortali. Due sono anche titoli di tue canzoni. Chi sono per te oggi gli immortali?

 

Gli immortali sono i mortali. Non mi piacciono le citazioni, ma in questo caso bisogna riconoscerli, perché insomma Borges dice: “Non c’è un mortale che per un attimo nella sua vita non si sia sentito immortale”. Secondo me la musica ti apre questi varchi. Come i bambini, i bambini sono immortali perché non sanno che c’è la morte, e gli artisti lo sono quando sono nel loro momento creativo, perché lì si sospendono i parametri che ci contengono, il tempo e lo spazio. E quand’è che il tempo e lo spazio svaniscono, quando fai l’amore, quando sei molto innamorato, e quando stai facendo qualcosa dentro il quale sei nel tuo elemento. Non parlo solo di cose artistiche, anche a un medico succede, può succedere anche a uno che ha costruito questa sedia. Si può essere creativi in qualsiasi ambito, nel momento in cui riesci proprio ad essere nel flusso di te stesso. Quella cosa lì è magica, in quel momento lì sei immortale perché non pensi alla morte, sei l’espressione della vita.

 

In un’intervista parlando di Gianni Morandi, che è un tuo grande amico, hai detto “Lui è fortunato perché è un interprete, io invece ho la dannazione di dover avere sempre le antenne dritte, perché vivo delle cose che accadono per poi trarre ispirazione per scrivere”. Com’è questa dannazione?

 

È un’ossessione magica, non ci rinuncerei mai. In realtà dici “ne faresti a meno?”, no! Però quando scrivo non penso mai al pubblico, penso sempre a una cosa che mi piaccia e che mi dia soddisfazione e che mi faccia fare un piccolo passo avanti rispetto alla conoscenza anche di me stesso.

“Vite – L’arte del possibile”

Curato e realizzato dal direttore di Sky TG24 Giuseppe De Bellis, “Vite - L’arte del possibile” è un ciclo di interviste dedicate al successo e alla capacità di raggiungerlo. Un ritratto professionale e personale di grandi italiani che si sono distinti nel proprio campo: dall’industria al cinema, dalla scienza allo stile fino all’arte e alla letteratura, divenendo noti in tutto il mondo.  Le interviste entreranno anche a far parte della syndication dell’area news del Gruppo Comcast e potranno essere trasmesse anche da NBC. Le interviste di “Vite - L’arte del possibile” sono disponibili anche tra i podcast di Sky TG24, sul sito skytg24.it

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