
Covid, ecco le persone più a rischio: la risposta è in 13 regioni del DNA. Lo studio
Pubblicato su Nature un maxi studio genetico su scala mondiale basato sui dati di quasi 50mila persone positive al virus e 2 milioni di soggetti sani di controllo: sostiene che la ragione dell’estrema variabilità nella reazione individuale al virus SarsCoV2 è scritta - almeno in parte - in 13 regioni del nostro DNA, che aumentano la suscettibilità all'infezione e il rischio di sviluppare forme gravi di malattia. I risultati frutto di una rete globale di oltre 3mila ricercatori di 25 Paesi

Ogni persona reagisce in modo diverso se entra in contatto col coronavirus. C'è chi non è mai risultato positivo pur convivendo con un malato di Covid. Chi viene contagiato e sviluppa solo un banale raffreddore. Chi invece si trascina sintomi invalidanti per mesi o finisce in terapia intensiva in bilico tra la vita e la morte. Perché? È la domanda a cui ha cercato di rispondere uno studio pubblicato su Nature
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Il risultato a cui lo studio è arrivato è che la ragione di questa estrema variabilità nella reazione individuale al virus SarsCoV2 è scritta - almeno in parte - in 13 regioni del nostro DNA, che aumentano la suscettibilità all'infezione e il rischio di sviluppare forme gravi di malattia
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A dimostrare questa tesi, appunto, è un maxi studio genetico su scala mondiale, il più grande mai realizzato sul Covid-19, basato sui dati di quasi 50mila persone positive al virus e 2 milioni di soggetti sani di controllo
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I risultati, che potranno aprire la strada a nuove terapie, sono frutto della “Covid-19 Host Genomics Initiative”, una rete globale di oltre 3mila ricercatori di 25 Paesi creata nel marzo 2020 dall'italiano Andrea Ganna, ricercatore all'Istituto di medicina molecolare della Finlandia (Fimm) e al Broad Institute di Cambridge, insieme al collega Mark Daly
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Al network ha dato un importante contributo anche l'Italia, attraverso i dati di oltre 8mila pazienti e la partecipazione di numerosi enti, come l'Università di Siena, l'Irccs Humanitas e il Politecnico di Milano
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“Formare questa collaborazione internazionale è stato sorprendentemente facile: è iniziato tutto con un tweet”, ha raccontato Ganna. "Avevamo un network esistente da cui siamo partiti e che si è espanso in maniera molto veloce. Quello che oggi pubblichiamo su Nature è solo la punta dell'iceberg di quanto abbiamo prodotto in questo anno: fin dall'inizio abbiamo deciso di rendere pubblici i nostri risultati ogni tre mesi per metterli a disposizione della comunità scientifica il più rapidamente possibile"
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In questi mesi di pandemia, ha aggiunto il ricercatore, "si è parlato molto del genoma del virus, ma quello dell'ospite umano è altrettanto importante, perché può influire sulla probabilità di contrarre l'infezione e di sviluppare complicanze gravi"
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"In particolare – ha spiegato Ganna – abbiamo trovato quattro regioni del Dna che aumentano il rischio di contrarre l'infezione e nove che invece aumentano la probabilità di sviluppare forme gravi di malattia. Alcune hanno a che fare con la risposta immunitaria, ed erano già note per il loro coinvolgimento in malattie autoimmuni e infiammatorie, mentre altre riguardano la biologia del polmone e hanno a che fare con malattie come la fibrosi e il tumore"

L'estensione a livello globale dello studio ha permesso di individuare anche fattori di rischio genetici che sono specifici delle diverse popolazioni, come quelle di origine asiatica. "Un importante passo avanti, considerato che finora la maggior parte degli studi genetici è stata condotta su persone di origine caucasica", ha sottolineato Ganna

"Le nostre ricerche – ha precisato – stanno ancora andando avanti per includere un numero sempre maggiore di pazienti ed etnie: dai 50mila pazienti positivi dello studio di Nature siamo già saliti a 125mila e le regioni del Dna sotto osservazione sono salite da 13 a 23, anche se questi ultimi dati non sono ancora stati sottoposti a peer review per la pubblicazione”

“Il nostro obiettivo – ha concluso Ganna – è produrre risultati che possano aiutare a individuare target da colpire con lo sviluppo di nuovi farmaci o il riposizionamento di quelli già esistenti. Creare questo livello di collaborazione internazionale ci permetterà in futuro di farci trovare più pronti e preparati nell'affrontare nuove malattie”