Oona Chaplin e Varang: l’ombra che incendia Avatar – Fuoco e Cenere

Cinema
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Con Varang, leader del Popolo della Cenere in Avatar: Fuoco e Cenere, ora al cinema in Italia, Oona Chaplin firma il ruolo più radicale della sua carriera. Figlia di Geraldine Chaplin, nipote del leggendario Charlie Chaplin e pronipote del drammaturgo Eugene O’Neill, l’attrice ha però costruito un percorso autonomo: dalla Talisa Maegyr de Il Trono di Spade alla villain luciferina immaginata da James Cameron, tra corpo, ferita e fuoco

L’ingresso di Varang

Quando Varang appare per la prima volta sullo schermo, lo spettatore capisce immediatamente che qualcosa è cambiato. Non è solo una nuova antagonista all’interno dell’universo di Avatar: è una presenza che interrompe l’equilibrio emotivo della saga. Il suo ingresso segna un prima e un dopo, non solo nella storia, ma nello sguardo con cui Pandora viene raccontata.

Varang entra in scena come una dichiarazione di guerra. Non alza la voce, non cerca consenso, non spiega nulla. Guarda, avanza, comanda. In Avatar: Fuoco e Cenere, ora al cinema in Italia, la leader del Popolo della Cenere interpretata da Oona Chaplin non è semplicemente una nuova villain della saga di James Cameron: è una frattura emotiva e spirituale che sposta l’asse dell’intero racconto, trasformando Pandora in un luogo attraversato dal dolore, dalla rabbia e dalla perdita di fede. È attraverso Varang che Avatar smette definitivamente di essere solo una favola ecologista e diventa un racconto sulla disperazione, sull’abbandono, sul momento in cui l’armonia promessa non basta più. Ed è attraverso Varang che Oona Chaplin compie il passaggio più netto e maturo della sua carriera, mettendo il corpo, la voce e lo sguardo al servizio di un personaggio che non chiede empatia, ma pretende attenzione.

Nulla, in questa interpretazione, è decorativo. Tutto nasce da una traiettoria artistica lunga e coerente, costruita lontano dalle scorciatoie di un cognome ingombrante e fondata su una recitazione fisica, controllata, spesso sottrattiva, capace di lavorare sulle crepe più che sugli effetti.

 

Un’eredità che pesa, ma non protegge

Portare il cognome Chaplin significa convivere con un mito fondativo del cinema. Essere figlia di Geraldine Chaplin, nipote di Charlie Chaplin e pronipote di Eugene O’Neill significa crescere sotto il peso di una genealogia che ha segnato il Novecento, ma che rischia anche di schiacciare ogni tentativo di autonomia. Oona Chaplin, però, ha scelto fin dall’inizio di non trasformare quell’eredità in un rifugio.

Nata a Madrid e cresciuta tra Spagna, Svizzera, Regno Unito e Cuba, Oona Chaplin è un’attrice naturalmente nomade, non solo per biografia ma per attitudine. Prima ancora di studiare recitazione, studia il movimento: danza classica, flamenco, salsa. Il corpo viene prima della parola, e resterà sempre il suo strumento principale. Quando arriva alla Royal Academy of Dramatic Art di Londra, affina la tecnica senza perdere l’istinto, costruendo una presenza scenica che non cerca mai la seduzione facile, ma lavora sulla densità e sulla tensione

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Oona Chaplin nei panni di Talisa Maegyr nella serie Il Trono di Spade

Il Trono di Spade: la ferita che resta

Il grande pubblico la incontra davvero ne Il Trono di Spade, dove interpreta Talisa Maegyr, uno dei personaggi più tragici e, a distanza di anni, più emblematici dell’intera serie. Talisa non appartiene a Westeros: è una straniera, una guaritrice, una figura che porta con sé un’idea di cura e di compassione incompatibile con un mondo governato dal potere, dalla violenza e dalla strategia.

Oona Chaplin costruisce Talisa come una presenza viva, concreta, mai idealizzata. La sua relazione con Robb Stark non è una favola romantica, ma un atto di disallineamento politico ed emotivo. Proprio per questo Talisa deve essere eliminata. La sua morte non è solo uno shock narrativo, ma una rimozione simbolica: Talisa rappresenta ciò che Il Trono di Spade non può permettersi di salvare.

Talisa viene eliminata perché è incompatibile con Westeros; Varang nasce perché è incompatibile con l’idea stessa di armonia.

È uno di quei personaggi che lo spettatore ricorda non tanto per ciò che fa, ma per il vuoto che lascia. E quel vuoto, ancora oggi, è associato al volto di Oona Chaplin. È in quel momento che il pubblico comprende che Oona Chaplin non è un personaggio di passaggio: la sua uscita di scena lascia una ferita che non si rimargina, una sensazione di perdita che continua a risuonare ben oltre l’episodio. Un segno raro, soprattutto in una serie abituata a sacrificare personaggi a ritmo serrato.

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Oona Chaplin nel ruolo di Zilpha Geary nella serie Taboo - ©Webphoto

Un percorso costruito nell’ombra

Dopo Il Trono di Spade, Oona Chaplin prosegue un percorso coerente, scegliendo ruoli segnati da una frattura interna. In The Hour, in Black Mirror e soprattutto in Taboo, dove interpreta Zilpha Geary, la sua recitazione si fa sempre più sotterranea, quasi ipnotica. Zilpha è desiderio represso, colpa, silenzio, ossessione: un personaggio che vive di tensioni irrisolte e che trova nel corpo dell’attrice un veicolo perfetto.

Chaplin non cerca mai il compiacimento dello spettatore. Lavora sulla sottrazione, sulla pausa, su una fisicità che trattiene invece di esplodere. È un cinema dell’ombra, della crepa, della ferita non esibita. Tutti elementi che, col tempo, sembrano condurla inevitabilmente verso l’universo di Avatar.

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Varang: il fuoco come risposta al silenzio

In Avatar: Fuoco e Cenere, terzo capitolo della saga ambientata su Pandora, James Cameron affida a Oona Chaplin uno dei personaggi più radicali dell’intero universo narrativo. Varang è la leader del Popolo della Cenere, i Mangkwan, Na’vi sopravvissuti a una catastrofe naturale che ha distrutto la loro terra e spezzato il loro legame con Eywa.

Non c’è redenzione, in questa storia. C’è solo una risposta estrema al silenzio del sacro. In questo senso Varang non è un’antagonista da sconfiggere, ma una domanda lasciata aperta allo spettatore: cosa resta quando la fede smette di rispondere?

Per Varang, il fuoco non è distruzione fine a se stessa, ma verità. È ciò che resta quando la promessa di armonia fallisce, quando la fede non salva, quando il mondo brucia e nessuno risponde. Oona Chaplin costruisce il personaggio come una figura regale e disperata insieme: una leader venerata e temuta, capace di esercitare dominio senza mai alzare la voce, mantenendo sempre una distanza inquietante dagli altri personaggi.

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Il corpo dentro il digitale

La performance capture di Avatar: Fuoco e Cenere non annulla l’attrice, ma la espone. Ogni gesto di Varang nasce da una scelta fisica precisa: il modo in cui cammina, in cui occupa lo spazio, in cui osserva gli altri senza concedere reciprocità. Il corpo cosparso di cenere, le cicatrici, il rosso scuro che attraversa il suo design non sono ornamenti estetici, ma estensioni emotive di un personaggio che vive nel trauma.

Oona Chaplin non interpreta Varang: la abita. Il digitale amplifica ogni pausa, ogni sguardo, ogni immobilità, trasformando la sua presenza in un punto di attrazione magnetico e disturbante. Varang non chiede di essere amata, né compresa. Chiede di essere guardata.

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Un punto di non ritorno

Con Varang, Oona Chaplin attraversa una soglia. Dopo Avatar: Fuoco e Cenere sarà difficile leggerla ancora come “erede di” o come presenza elegante da cinema d’autore. Questo ruolo la colloca in una zona più pericolosa e affascinante: quella delle figure che destabilizzano il racconto, che mettono in crisi la morale, che trasformano il dolore in potere.

Non è una consacrazione glamour.
È una combustione lenta.

Se fosse un drink

Se Oona Chaplin fosse un drink, oggi, sarebbe un mezcal torbato, bevuto lentamente, con il sapore del fumo che resta in bocca anche dopo aver posato il bicchiere. Non consola, non accarezza, ma lascia una traccia persistente. E forse è per questo che Varang, più di qualsiasi altro personaggio recente della saga, continua a riaffiorare nella mente anche dopo l’uscita dalla sala.

E il cinema, quando funziona davvero, fa esattamente questo.

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