We Are the World, il documentario Netflix che racconta "la notte che ha cambiato il pop"

Cinema
Camilla Sernagiotto

Camilla Sernagiotto

Credits: Netflix

Uscito da pochi giorni sulla piattaforma di streaming (visibile anche su Sky Glass, Sky Q e tramite la app su Now Smart Stick), è già al numero uno dei film più visti. Dopo 39 anni, racconta "la notte che ha cambiato il pop" offrendo un inedito sguardo dietro le quinte alla complessa nascita di un successo straordinario. Ecco tutti i dettagli riguardanti questo capolavoro che racconta la genesi di un altro capolavoro, da guardare assolutamente se si ama la musica ma anche, diciamolo, la Storia (con la S maiuscola)

We are the World: La notte che ha cambiato il pop è il documentario uscito da pochi giorni su Netflix (visibile anche su Sky Glass, Sky Q e tramite la app su Now Smart Stick) e già arrivato al numero uno dei film più visti della piattaforma di streaming.

 

Dopo 39 anni, racconta "la notte che ha cambiato il pop", come appunto spiega il titolo, offrendo un inedito sguardo dietro le quinte alla complessa nascita di un successo straordinario.

Un docu incredibile, commovente ed eccezionale, che per adesso i media americani tacciano di un'unica sola “pecca”: come sottolinea in queste ore la giornalista e attivista statunitense Andrea Grimes su MSNBC, questo film “tralascia il momento più commovente di quella 'Greatest Night’. Due donne etiopi che erano sopravvissute alla carestia nel loro Paese erano nello studio di Los Angeles mentre l'inno di beneficenza veniva registrato. Ma non sono presenti nel nuovo film di Netflix”.

 

Dopo aver iniziato quindi con un accenno su ciò che manca, passiamo ora a tutto quello che invece gronda in quest’opera corale, come corale è appunto l’immensa creazione a cui ha portato, una delle canzoni più famose, emozionanti e indelebili della storia dell’umanità.

 

Nell'ultimo paragrafo, però, torneremo alla questione di questa mancanza, l'assenza delle due donne sopravvissute alla carestia in Etiopia, che non è da sottovalutare...

Bruce Springsteen: “Il progetto era importante e accettai senza sapere chi partecipava”

Uno dei grandi protagonisti di questo progetto corale è Bruce Springsteen, che dice chiaramente quanto segue: “La canzone non era male, ma il progetto era importante e accettai senza sapere chi partecipava”.

 

La sua intervista è presente nel documentario di Netflix, come presenti sono le parole di Lionel Richie, Cyndi Lauper, Smokey Robinson, Dionne Warwick e Huey Lewis, giusto per citare alcuni dei tantissimi nomi coinvolti in questo behind the scene.

 

Il titolo del docu è We Are the World. La notte che ha cambiato il pop. A dirigere c’è Bao Nguyen, che con questo suo documentario ricostruisce l’impresa che il 28 gennaio 1985 portò 46 grandi artisti a incidere in una manciata di ore il singolo benefico per l’Etiopia vessata dalla carestia.

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Tutto ebbe inizio dal cantante Harry Belafonte

Il 23 dicembre 1984 il cantante Harry Belafonte (scomparso il 25 aprile 2023), attivista e icona politica, dopo aver visto l’iniziativa di Band Aid con Do They Know It’s Christmas? pensa: “Ci sono i bianchi che salvano i neri, ma non i neri che salvano la loro gente dalla fame”.

 

Così decide di chiamare Ken Kragen, un produttore che ha tutti i numeri di telefono dell’intero showbiz e che infatti riesce a tirare fuori dal cappello il numero di Lionel Richie. E da qui parte un effetto domino incredibile: Richie chiama Quincy Jones per dirigere l’operazione; Quincy Jones convoca Michael Jackson e Stevie Wonder per scrivere la canzone.

 

Diciamo che le basi per creare una grande cosa ci sono tutte, dato che Belafonte è riuscito a coinvolgere fin da subito i più grandi nomi delle sette note americane (e quindi internazionali, diciamocelo, dato che l'industria musicale parte quasi sempre da lì, eccezion fatta per due mostri sacri come Beatles e Rolling Stones, chiaramente. E Led Zeppelin, e Pink Floyd, e via dicendo).

American singer Harry Belafonte performing in a recording studio, circa 1957.  (Photo by Pictorial Parade/Archive Photos/Getty Images)

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Se Springsteen dice di sì, accetteranno anche Bob Dylan, Ray Charles, Paul Simon eccetera

Tocca allora a Springsteen, che sta per chiudere il tour trionfale di Born in The U.S.A.

E se c’è lui, Bob Dylan non potrà dire di no. La stessa cosa vale per Ray Charles, Paul Simon, Tina Turner, Diana Ross, Willie Nelson e Dan Aykroyd.

 

Pian piano, come una festa a cui gradualmente tutti vogliono prendere parte grazie a un tamtam e un passa parola pazzesco, la lista di partecipanti si allunga, raddoppia: da 20 artisti, si passa a più del doppio.

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Un problema logistico: qual è la data che si può fissare per avere tutti quanti?

Una volta formata l'incredibile squadra di artisti, la produzione si trova di fronte a un problema logistico mica da poco: in quale data si può fissare la registrazione della canzone?

Contando che gli oltre 40 partecipanti non sono certo dei “pantofolai”… Trattandosi delle più grandi star della musica a stelle e strisce, la loro agenda pullula di impegni in ogni angolo del mondo.

 

A quel punto arriva un'idea geniale: approfittare degli American Music Awards, la cerimonia di consegna dei prestigiosi premi statunitensi ai grandi nomi della musica, dove tutto l'Olimpo delle sette note è presente.

 

L'edizione di quell'anno la presenta proprio Lionel Richie a Los Angeles, e il cast è quasi tutto lì in sala, già spesato.
Appena finiscono le premiazioni, si tratta soltanto di trasferire tutti quanti in studio.

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Un altro problema non da poco: la canzone sembra non uscire…

Non appena sembra che ci siano tutti i tasselli del puzzle incastrati perfettamente, ci si accorge che manca il pezzo più importante, quello centrale: la canzone.

Stevie Wonder non è più raggiungibile, così sono Lionel Richie e Michael Jackson a spremere le meningi, con un brainstorming all'interno della villa di Jackson per riuscire a mettere giù una canzone degna della grande operazione che si è creata.

 

La pressione sale alle stelle, con un'ansia di prestazione incredibile e il terrore di non arrivare in tempo per la data fissata.
Alla fine però, solo a una settimana dall'evento, il pezzo viene completato. In quattro (Jackson, Richie, Wonder e Jones) registrano il provino e spediscono il nastro a tutti gli altri.

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Il mistero: chi verrà all'appuntamento?

Il documentario affronta anche un'altra questione, quasi da thriller: il mistero.

A un certo punto ci si chiede chi è che davvero si presenterà all'appuntamento. Inoltre ci si domanda se la location della registrazione verrà assediata da fan e giornalisti, che magari hanno scoperto tutto quanto, facendocosì  scappare gli artisti coinvolti.

 

Ebbene, agli studi A&M, quella notte, si presentano tutti. Mancano all'appello soltanto Prince e Madonna, il primo dei quali era stato invitato e aveva la parte assegnata, mentre Madonna non era stata invitata (al suo posto c'è Cyndi Lauper).
Vediamo arrivare le limousine all'ingresso degli studi, eccezion fatta per una vecchia Pontiac su cui viaggia il Boss.

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Michael Jackson salta gli American Music aWard per provare il brano da solo

A inaugurare il microfono di quella leggendaria notte è stato Michael Jackson, che addirittura saltò gli American Music Awards perché voleva provare la canzone da solo, cantandola a cappella.

 

La cosa interessante di questo documentario è che permette di avere un accesso inedito al carattere dei mega Vip, che vediamo qui colti in rari momenti in cui non hanno pubblico davanti, non hanno manager accanto, e nemmeno assistenti: tutti gli altri si trovano dietro al vetro, loro sono soltanto loro, davvero loro.

 

Fuori da quello studio vengono depositate le tantissime armature delle celebrità, insomma. E all'interno emergono le vere essenze di tutti i più grandi musicisti del nostro tempo.

L'ansia di prestazione di quelle grandi star le rende più umane ai nostri occhi

Vedere inoltre le grandi stelle della musica in preda a quell'ansia di prestazione che noi spettatori credevamo fosse soltanto qualcosa da esordienti è pazzesco.

 

A rendere ansiogena la situazione è la concorrenza: per la prima volta ciascuna stella della musica si trova a far parte di un enorme gruppo in cui ciascuno al proprio fianco ha colleghi leggendari.

 

È per questo che tutti sono in preda all'ansia: l'idea di fare una figuraccia di fronte a quegli esimi colleghi è qualcosa di insopportabile per loro, ben più imbarazzante di qualsiasi stecca che si possa fare di fronte a un pubblico.

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Quincy Jones dirige il tutto

Il “direttore d’orchestra” è il mitico Quincy Jones.

A lui spetta il compito più arduo: deve far andare bene le cose, deve fare accadere tutto in una notte sola, perché non c'è la possibilità di replicare questa incredibile operazione.

 

Dunque lo vediamo attuare ogni tipo di strategia per evitare tempi morti e discussioni inutili. Decide di disporre questo super gruppo a ferro di cavallo.

 

Dopo di che ha un'intuizione geniale: si incide la canzone e si gira il videoclip assieme, nello stesso momento.
Questa decisione è forse quella che salva l'operazione più difficile della storia della musica: infatti nessuno darà di matto e farà scene "da prima donna" sapendo di essere ripreso dalla telecamera.

 

Quincy Jones mette il cartello “Lascia il tuo ego fuori dalla porta”. Prima di iniziare, fa parlare Bob Geldof di quello che ha visto durante il suo viaggio in Africa, ossia la disperazione totale.

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Una tensione aleggia, rendendo questo documentario ancora più coivolgente

Chiaramente non tutto andò liscio: gli artisti erano stanchi, competitivi, accaldati e perfino sbeffeggianti, come Paul Simon che se ne uscì con una battuta pazzesca, ossia: “Se qui scoppiasse una bomba, John Denver tornerebbe famoso”…

 

Tuttavia i momenti davvero sgradevoli che sicuramente saranno capitati durante quella notte non compaiono nel documentario. Eppure ciò che emerge è una tensione da thriller, anche se ben più divertente rispetto a quella di qualsiasi thriller (anche perché qui sappiamo com'è andata, sappiamo che tutto si è risolto per il meglio perché conosciamo a menadito quella canzone e quel videoclip...).

Sono tantissime le chicche davvero gustose

Non mancano all'appello chicche notevoli, per esempio quando Stevie Wonder vuole inserire una frase in swahili e qualcuno gli fa notare che in Etiopia non si parla lo swahili, oppure quando Cyndi Lauper deve cantare di nuovo perché le tintinnano collane orecchini.

 

Vediamo Huey Lewis in preda al panico quando scopre che deve fare la parte di Prince. E poi si sente pure lo stesso Prince, che telefona alla produzione e propone di suonare un assolo di chitarra in una stanza separata.

 

E poi momenti epici che soltanto una situazione del genere possono offrire, come Ray Charles che durante una pausa accenna Georgia On My Mind, e il dream team che omaggia Belafonte facendo Day-O.

Infine, qualcosa di inimmaginabile: lo scambio di autografi. Le grandi leggende della musica si scambiano autografi, qualcosa che li rende più vicini a noi, più vicini ai fan, scalfendo quell'armatura da dio dell’Olimpo musicale senza punti deboli. Anche loro mostrano di avere un tallone d'Achille, che è l’essere fan di qualcun altro.

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I solisti cominciarono a cantare alle 4 del mattino. L'operazione si concluse alle 8

Sono le quattro del mattino quando i solisti cominciano a cantare. L'ultimo è Bob Dylan, che non riesce a fare la propria strofa.
Tutto quanto finisce dopo alcune ore, per la precisione alle otto di mattina, quando tutti si salutano e tornano a casa.

 

We Are The World è stato poi trasmesso in diretta mondiale, raggiungendo qualsiasi latitudine. Ha vinto premi su premi ma soprattutto ha raccolto 80 milioni di dollari da devolvere in beneficenza per cause umanitarie in Africa.

Un'operazione possibile solo in un'era senza cellulari né internet

Come fa giustamente notare in queste ore la giornalista Simona Orlando sul magazine musicale Rockol, la grande potenza di questa canzone, di questa operazione e adesso di questo documentario è mostrare in tutta la sua incredibile forza “il potere del pop, almeno al tempo in cui, per riavvolgere il nastro dopo un errore, si perdevano cinque minuti, e i raduni si organizzavano senza cellulari né internet”.

 

Nel documentario sentiamo Lionel Richie ripeterlo più volte: una cosa simile oggi sarebbe non soltanto impossibile ma perfino impensabile.

Ci si chiede adesso quali delle mega star attuali direbbe di sì a una proposta del genere, ossia stare tutta una notte chiusi in uno studio di registrazione a improvvisare, senza inoltre sapere quali colleghi saranno lì con te.

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We Are the World ha dato il la alla collaborazione tra celebrità

Con assoli di Ray Charles, Bob Dylan, Dionne Warwick, Willie Nelson, Tina Turner, Bruce Springsteen, Cyndi Lauper e tantissime altre icone degli anni '80, We Are the World ha inaugurato e reso popolare un fenomeno culturale che va contro i canoni, che rompe gli schemi: la collaborazione tra celebrità.

 

E benché a ben guardare sia stato il Concerto per il Bangladesh del 1971 a inaugurare gli eventi di sensibilizzazione di questo tipo, a rompere gli schemi e a creare il modello perfetto è stata proprio We Are the World.

 

Ricordiamo però che nel 1985 ci furono sia il Live Aid di Geldof che il canadese "Tears Are Not Enough", entrambi a beneficio delle cause etiopi, oltre a Farm Aid, che si occupava della fame negli Stati Uniti, e "Sun City" degli Artists United Against Apartheid.

I Ramones hanno fatto una parodia di We Are the World

I Ramones, con Weird Al e artisti meno mainstream, offrono una parodia We Are the World nel video del 1986 di Something to Believe In.

Invece nel 2010, Richie e il rapper haitiano-americano Wyclef Jean furono tra i produttori esecutivi di una edizione del 25° anniversario di We Are the World per offrire aiuti dopo il terremoto ad Haiti (operazione a cui parteciparono anche Justin Bieber e Jamie Foxx, agli altri).

 

Più recentemente c'è stato anche un canto corale di star che hanno rifatto Imagine di John Lennon e anche molte nuove reinterpretazioni di We Are the World durante il periodo dell'emergenza del Covid.

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L'assenza delle due donne etiopi nel documentario

Come accennavamo all'inizio dell'articolo, la giornalista e attivista americana Andrea Grimes è molto critica nei confronti del documentario di Netflix a causa dell'assenza delle due donne etiopi, che erano in realtà presenti nello studio di Los Angeles.

 

“L’assenza delle donne etiopi nel documentario che racconta quella 'Greatest Night' e la loro persistente anonimato nonostante il ruolo centrale che hanno svolto nella produzione di We Are the World sono emblematici della legacy ben intenzionata ma complicata della registrazione e di un complesso industriale di beneficenza delle celebrità che può mettere da parte e talvolta silenziare le persone che ne dovrebbero beneficiare”, si legge nell’articolo pubblicato nelle scorse ore da Grimes sul sito di MSNBC.

 

Ricordiamo che è stato Stevie Wonder a invitare due sopravvissute alla carestia etiopi nello studio di Los Angeles dove si erano riuniti dozzine di superstar della musica pop per quella sessione di registrazione unica al mondo.
Le donne (che purtroppo non vengono mai nominate) - una delle quali appare brevemente in un documentario dell'epoca sulla registrazione - diedero un volto alla causa e, secondo quanto riferito all'epoca, impressionarono enormemente quelle celebrità che cantano We Are the World, attirando la loro attenzione sulla gravità di ciò che stava accadendo nel loro Paese.

 

La giornalista e attivista Grimes fa sapere che Stevie Wonder introduce una delle due donne per nome nel documentario degli anni ’80 che racconta la registrazione della canzone benefica, tuttavia afferma di non riuscire a capire quale sia il nome. Andrea Grimes dice di aver cercato in tanti modi di scoprire come si chiamassero le due donne etiopi, tuttavia pare che ogni suo tentativo sia fallito.

 

Anche se molte delle star convenute non avevano idea di cosa avessero accettato prima di arrivare in studio, è evidente dalle riprese del film del 1985 che mostrano l'emozionante seguito proprio dell'apparizione delle donne, che giunsero in studio alle 4 del mattino, appena prima che i solisti iniziassero a cantare.

 

Si vede chiaramente che il gruppo appare profondamente colpito dalla loro presenza.
Tuttavia, in Greatest Night l'onore - e l’onere - di raccontare la storia della carestia etiopica a Michael Jackson e compagni è dato a Bob Geldof, il rocker irlandese a cui si deve la canzone Do They Know It's Christmas?, un inno di beneficenza che aveva co-scritto dopo aver visto un servizio BBC sulla carestia etiopica.

 

Proprio a Do They Know It's Christmas? si deve We Are the World, perché Belafonte è stato ispirato da quel brano, chiedendosi come mai i bianchi aiutassero i neri mentre i neri non facessero nulla.

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