Le 5 migliori commedie americane di sempre, secondo noi

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Da A qualcuno piace caldo a Hollywood Party, da Frankenstein Junior a Ricomincio da capo, passando per The Blues Brothers, un viaggio alla scoperta dei film pù divertenti made in Usa

 

Fin dai tempi del muto, il cinema americano ha saputo divertire come pochi altri il pubblico in sala, desideroso di evadere dal tran tran quotidiano o di dimenticare, per un paio d'ore, i piccoli e grandi drammi della vita. Mack Sennett, Buster Keaton e Charlie Chaplin, che nacque in Inghilterra ma si trasferì negli States per lavorare, hanno trasformato il divertimento in arte, facendo del proprio corpo e del proprio volto strumenti preziosissimi, puntando spesso su una comicità nella maggior parte dei casi slapstick e dando vita a una serie di spassose gag a volte programmate, più spesso improvvisate. Sono molte le commedie USA a dir poco indimenticabili. Sky TG 24 e Comingsoon.it, il sito di cinema, ne hanno scelte cinque, che vanno dalla fine degli anni Cinquanta alla metà degli anni Novanta e che quindi si affidano non solo alla mimica e ai movimenti degli interpreti ma anche alla parola e quindi a sceneggiature di ferro. Si tratta di commedie imperdibili diventate, nel tempo, veri e propri oggetti di culto. 

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A qualcuno piace caldo

Cominciamo con la commedia in bianco e nero considerata il grande capolavoro di Billy Wilder e che prende spunto dal Massacro di San Valentino del 1929 che vide protagonista Al Capone. "A qualcuno piace caldo", che esce nel 1959, è un'esplosione di battute esilaranti, gag imprevedibili, canzoni jazz rigorosamente "caldo", equivoci e fughe pazze. Con una premessa da film noir o gangster movie, il regista di "Quando la moglie è in vacanza" si concede di osare e parla di travestitismo, omosessualità, sessismo e accenna perfino all’impotenza maschile introducendo il personaggio del Signor Shell indifferente al fascino femminile. Passato alla storia per la battuta finale "nessuno è perfetto" pronunciata dal miliardario Osgood Fielding II, "A qualcuno piace caldo deve la sua vivacità e la sua perfezione, oltre che alla sceneggiatura, alle performance dei tre protagonisti: Tony Curtis, Jack Lemmon (candidato all’Oscar) e una Marilyn Monroe sensuale e indifesa ma piuttosto problematica sul set, perché sempre più dipendente da alcol e farmaci (sembra che impiegò 47 ciak prima di pronunciare in maniera corretta la frase: "Sono io, Zucchero"). L'attrice fu molto apprezzata, così come Lemmon, straordinario nella sua camminata con tacchi alti e nel suo ripetere come un mantra: "Sono una donna". Girato con un budget di 2,8 milioni di dollari, "A qualcuno piace caldo" ne ha incassati solo negli Stati Uniti d'America ben 25. Tre motivi per non perderlo? I cappellini a cloche di Josephine e Dafne, Tony Curtis che nei panni di Junior parla con una voce alla Cary Grant, un festino notturno in treno che è un tripudio di gambe femminili e ciliegie al maraschino.

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Hollywood Party

Arriva invece in sala nel 1968 uno dei capolavori di Blake Edwards, una commedia tutta in una notte ambientata in un'unica location: una sontuosa villa hollywoodiana con tanto di piscina, biliardo, bancone del bar che si muove e la crème del mondo dell’intrattenimento di Los Angeles, California. Storia di un pesce fuor d'acqua che si trasforma in una forza distruttiva, "Hollywood Party" costituisce una delle più mirabili prove d'attore di Peter Sellers, al suo secondo indiano cinematografico e al suo unico film con regia di Edwards al di fuori della saga della Pantera Rosa . La scena è quasi tutta per lui, che, armato di una sceneggiatura di sole 56 pagine, improvvisa laddove può in un crescendo esilarante che si trasforma in follia, o meglio un circo dove non mancano un elefante vero, schiuma che vola e un cameriere ubriaco che ingoia tappi di sughero e scompiglia elaborate acconciature. Dietro la commedia, tuttavia, si nasconde una feroce critica alla vacuità e al culto del denaro di registi, produttori e piccole star della settima arte, personaggi piuttosto squallidi tratteggiati con sottile ironia. Mirabile esempio di cinema della New Hollywood, il film di Blake Edward rende omaggio a Charlie Chaplin e Buster Keaton e a Jacques Tati, che ne "Le vacanze di Monsieur Hulot" guida la stessa macchina del nostro protagonista Hrundi Bakshi. Uscito in sala proprio nel giorno dell'assassinio di Martin Luther King, "Hollywood Party" non vince nemmeno un premio, il che francamente stupisce.

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Frankenstein Junior

Nel 1974 Mel Brooks gira la sua commedia forse più memorabile, un film dove le battute, la musica, l'andamento narrativo e gli attori funzionano ancora a meraviglia. Quarto sodalizio artistico fra il regista e Gene Wilder, "Frankenstein Junior" è un atto d'amore non solo verso il romanzo di Mary Shelley Frankenstein ma anche verso gli horror degli anni '30, a cominciare da "Frankenstein" e "La moglie di Frankenstein" di James Whale, film che Brooks era solito vedere e rivedere, da bambino, nei cinema di quartiere. Al linguaggio della paura, il regista affianca la comicità di situazione, lo slapstick, e la comicità di parola, grazie a una sceneggiatura pressoché perfetta nata da un'idea di Gene Wilder. Non mancano il nonsense e un divertimento puro che nasce dalle performance dei protagonisti; da Marty Feldman che interpreta Igor all’azzeccato cast femminile composto da Teri Garr, Madeleine Kahn, Cloris Leachman. C'è grande ricercatezza stilistica e scenografica in "Frankenstein Junior", che dissacra non tanto i modelli di riferimento visivi e cinematografici, quando la società stessa nel suo bigottismo religioso e nel potere politico che è più mostruoso del mostro. Quanto al mostro (interpretato dal grande Peter Boyle), la cosiddetta creatura, nel suo ritratto c'è grande pietas, perché si tratta di un diverso che fa fatica ad essere accettato. Candidato a due Oscar, il film ha avuto grande successo in Italia. Una parte di merito va al doppiaggio ad opera di Mario Maldesi, che ha tradotto "There wolf, There Castel" in "Lupo ululà, castello ululì

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The Blues Brothers

"The Blues Brothers", fra lo scetticismo della critica e le polemiche per un budget quasi stellare, ma ha un successo strepitoso e conferma la bravura di John Landis nel padroneggiare le commedie. Dal suo film precedente, "Animal House", il regista prende in prestito John Belushi, che con Dan Aykroyd aveva inventato, poco tempo prima, i Blues Brothers, ospiti fissi prima dei party di Los Angeles e poi del Saturday Night Life. Ma "The Blues Brothers" è solo una commedia? Certo che no, è anche un noir e un film musicale. Soprattutto è una follia anarchica su due fuorilegge loro malgrado che la società ha rifiutato e costringe a un'eterna fuga. Attraverso l'esagerazione e il demenziale, Landis si lancia in un rutilante j’accuse contro i mali della società dell'epoca: il perbenismo, il potere economico, il militarismo. La chiesa definisce "The Blues Brothers" un film cattolico, e in effetti il regista rispetta la religiosità della cultura afroamericana. Non a caso, Jake che si toglie gli occhiali una volta sola ed Elwood che sta senza cappello solo in tre occasioni sono e si sentono "in missione per conto di Dio". La forza del film sta nella colonna sonora, nei cameo di lusso (pensiamo a Ray Charles) e nella Bluesmobile, Dodge della polizia su cui si muovono i fratelli Blues. Girato per le strade o in vecchi edifici fatiscenti, "The Blues Brothers" ha contribuito a rilanciare il Rhythm and Blues e segna una delle ultime interpretazioni di Belushi, che scomparve durante una scene notturna per andare a chiedere un panino e un bicchiere di latte in una casa non troppo lontana

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Ricomincio da capo

Concludiamo la nostra carrellata di commedie top di provenienza americana con un film del 1993 di cui parla diffusamente ogni buon manuale di sceneggiatura. Diretto da Harold Ramis, alias l'acchiappafantasmi Egon Spengler di "Ghostbusters", "Ricomincio da capo" è forse la prova d'attore più sorprendente di Bill Murray, che con la sua aria stralunata interpreta magnificamente un uomo che si ritrova prigioniero di un loop temporale in una cittadina della Pennsylvania in cui una marmotta, il 2 febbraio di ogni anno, stabilisce se l'inverno sia finito oppure no. Svegliandosi per almeno 38 mattine con la radiosveglia che trasmette "I've Got you, Babe" di Sonny e Cher, Phil Connors tenta il suicidio, deruba un furgoncino portavalori e mangia dolci a più non posso per poi diventare un buon samaritano e un uomo innamorato. L'idea di redenzione che attraversa il film ha dato adito a molteplici interpretazioni in chiave ora buddista e ora cristiana, e qualcuno è andato addirittura a scomodare il mito di Sisifo, la preghiera della serenità e la dottrina di Eraclito. A di là dei riferimenti, però, "Ricomincio da capo" resta una delle migliori commedie degli anni Novanta per il ritmo, le situazioni e per la tenerezza del roditore, chiamato anch'esso Phil e colpevole di aver morso Murray per ben due volte. Per l'attore la lavorazione del film non fu affatto una passeggiata. Reduce da un divorzio e spesso di malumore, litigò furiosamente con Harold Ramis e i due non si parlarono per anni

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