Grazie ad uno studio condotto dagli esperti dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, è stato possibile comprendere come la somministrazione in combinazione di due farmaci specifici, il vemurafenib e il rituximab, abbia consentito di eliminare ogni traccia misurabile di malattia residua, in due terzi dei pazienti coinvolti. “Questo si è tradotto in una sopravvivenza libera da recidive molto più lunga”, hanno riferito gli studiosi
La leucemia è un tumore del sangue che colpisce solitamente i globuli bianchi, cellule che hanno lo scopo di proteggerci dalle infezioni e che si moltiplicano normalmente solo in base alle esigenze dell'organismo. Quando si sviluppa una leucemia il midollo osseo produce grandi quantità di globuli bianchi che non funzionano correttamente. Inoltre, queste cellule prive di controllo, impediscono la normale crescita delle altre cellule prodotte dal midollo osseo, ossia globuli rossi e piastrine. Le conseguenze sono l'insorgenza di infezioni, la stanchezza, e le emorragie. Da un recente studio, condotto dagli esperti dell’Azienda Ospedaliera di Perugia, arrivano oggi nuove speranze nella lotta contro questa malattia.
Le basi dello studio già nel 2011
Il lavoro di ricerca, i cui risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista scientifica “New England journal of Medicine”, viene definito dagli stessi ricercatori una “pietra miliare” nella terapia di precisione della “leucemia a cellule capellute”, definita in questo modo per la presenza di caratteristici prolungamenti, simili a capelli, sulla superficie delle cellule leucemiche, proponendo anche l'opportunità di controllo a lungo termine della malattia per tutti i pazienti che non rispondono più alle terapie convenzionali. Lo studio, finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (Erc) e dall'Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc) è stato coordinato dal professor Brunangelo Falini, ordinario di ematologia presso l’Università degli Studi di Perugia e dal suo collaboratore, il professor Enrico Tiacci. “Tutto va fatto risalire al 2011, quando il nostro gruppo ha scoperto, e pubblicato sempre nel New England Journal of Medicine, che la leucemia a cellule capellute si sviluppa in seguito ad una mutazione che colpisce selettivamente un gene chiamato Braf”, ha spiegato Falini. “Da qui a pensare che un inibitore di Braf mutato, chiamato vemurafenib e già in uso per il melanoma maligno metastatico, poteva essere efficace anche nella leucemia a cellule capellute resistente ai chemioterapici convenzionali il passo è stato breve”, ha aggiunto. “I risultati del nostro studio clinico condotto in Italia con il solo vemurafenib e pubblicati ancora nel New England journal of medicine nel 2015 hanno dimostrato una notevole attività del vemurafenib, con il 91% di risposte di cui il 35% complete in pazienti resistenti alle terapie convenzionali”, ha detto. “Purtroppo, anche casi in remissione completa mostravano la persistenza nel midollo osseo di 5-10% di cellule leucemiche residue, responsabili, in tempi variabili da paziente a paziente, della recidiva della malattia”.
La somministrazione in combinazione di due farmaci
Come spiegato da Tiacci, si poneva dunque il problema di come superare questo ostacolo. “Dal momento che le cellule leucemiche capellute resistenti al vemurafenib mantengono il CD20, una molecola B linfoide bersagliabile con l’anticorpo monoclonale Rituximab, abbiamo ideato e condotto un secondo studio clinico basato sulla somministrazione in combinazione del vemurafenib e rituximab”. Questo, ha riferito l’esperto, perché i due farmaci hanno il vantaggio di non essere tossici per le cellule midollari normali e di uccidere le cellule leucemiche attraverso meccanismi d’azione diversi e complementari. “Rispetto al vemurafenib da solo, questa combinazione ci ha consentito di incrementare il tasso di risposte complete dal 35% al 90% e anche di ottenere questo risultato in tempi più brevi, 4 invece di 8 settimane. Inoltre, in quasi i due terzi dei pazienti i due farmaci in combinazione hanno eliminato ogni traccia misurabile di malattia residua. Questo si è tradotto in una sopravvivenza libera da recidive molto più lunga”, ha detto il professore. “Attualmente, la combinazione vemurafenib più rituximab rappresenta la migliore terapia per i pazienti con leucemia a cellule capellute resistenti alle terapie convenzionali”.