"La prima reazione è stata paura. Poi, però, l'America si è unita come mai era stata prima. Un senso di unione così forte, visto allora, non si è più visto nel Paese": Scott Conroy, giornalista e produttore, ricorda così l'11 settembre. Un giorno che ha visto, per un po' di tempo, gli Stati Uniti riavvicinarsi in un momento molto difficile. "Sapevamo tutti che nulla sarebbe stato più come prima, ma sapere di poter stare tutti insieme, come Paese, ha reso quel momento meno difficile" ha aggiunto
Ho conosciuto Scott Conroy a Washington, D.C. nell'inverno del 2005, quando mi trovavo nella Capitale per un internship all'American Enterprise Institute. Non appena trovavo del tempo libero dai corsi universitari e dall'attività di ricerca nel think tank, prendevo l'autobus che mi portava a Georgetown. Il campus dell'università mi affascinava tantissimo, perdermi nel suo bookstore e nelle libraries mi dava un senso di libertà. Lì ho conosciuto Scott Conroy: allora era uno studente molto brillante, ma soprattutto una persona speciale. L'ho seguito negli anni nella sua carriera di giornalista e inviato, quando ha seguito Sarah Palin nella campagna presidenziale nel 2008. Da questa sua esperienza, insieme a Shushannah Walshe, ha scritto il libro "Sarah from Alaska: The Sudden Rise and Brutal Education of a New Conservative Superstar". Mi ha sempre affascinato e appassionato il suo modo di scrivere e raccontare. Ecco perché gli ho chiesto di far parte di questo progetto: Scott Conroy, un eccellente storyteller, mai banale ma soprattutto una bellissima persona. E credo che questo renda ancora più speciale il suo ricordo, molto personale, dell'11 settembre.
Cosa ricordi quel giorno, quando hai ricevuto la notizia, come hai reagito? Credi che tutto sia cambiato da quel giorno?
Durante gli attacchi del WTC stavo dormendo, la mia prima lezione quel giorno era alle 10.15 del mattino, quindi stavo seguendo la vita standard degli studenti universitari, ero andato a dormire alle 3 del mattino. L'esperienza del college mi era nuova e stavo ancora cercando di farmi degli amici. Ricordo che un ragazzo che viveva nello stesso piano del mio dormitorio bussò alla mia porta e disse: devi uscire di qui, sta succedendo di tutto. Penso che inizialmente mi abbia detto che c'era una bomba nel World Trade Center. Io non avevo la tv accesa quindi non avevo idea di quello che stava succedendo. Alle 10.15 sono andato a lezione: credo fosse un corso dal titolo “Political and social thought”, molto teorico e poco legato ai fatti del momento. È stata una cosa molto strana assistere a quella lezione, uscire e cercare di interiorizzare ciò che stava succedendo. Ero a Washington DC: il Pentagono era proprio dall'altra parte del fiume, molti dei miei compagni sono saliti sul tetto dell’università e hanno visto il fumo arrivare dal Pentagono. È stato particolarmente spaventoso essere a Washington quel giorno.
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Le persone avevano paura, la sensazione che tutti percepivano era shock
Hai avuto paura?
Le persone avevano paura, la sensazione che tutti percepivano era shock. Come dire: non possiamo credere che stia realmente accadendo. Sembrava di far parte di un film o qualcosa del genere. Ovviamente all'inizio non avevamo idea di quale sarebbe stato il bilancio delle vittime, e questo pensiero rendeva tutta la situazione ancora più terrificante. All’epoca non avevo un cellulare, che ci crediate o no, ma era abbastanza normale. Molti miei amici, però, ce l'avevano ma erano tutti fuori uso, come del resto i telefoni fissi. Non si poteva, quindi avvisare o sentire qualcuno in maniera veloce. Ma non si riusciva nemmeno a mandare una mail, perché in quel caso ci si doveva sedere davanti ad un computer e connettersi al modem. Ricordo tutto quello che si sentiva dire in giro: c’era chi diceva che c'era stato un incendio al Dipartimento di Stato, e c'erano più aerei pronti a colpire altri edifici. C'era molta incertezza. C’era chi diceva che ci sarebbe stato un altro attacco. Studiavo a Georgetown e ancora ricordo l’esercito attraversare il campus con mitragliatrici: mi sembrava tutto assurdo, ma vivevo a Washington, a pochi metri di distanza dall’università c’era il Pentagono, era comprensibile che in città ci fosse un’attenzione particolare.
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Hai parlato a lezione, e con i tuoi amici, di questa nuova vita dopo l'11 settembre?
Ne abbiamo parlato per mesi, forse anche anni. Quel momento ha davvero cambiato il modo in cui vedevo il mondo, quel senso di paura è durata a lungo. Alcuni anni dopo essermi laureato al college mi sono trasferito a New York City: c'era ancora quel senso di paura, anche diversi anni dopo. Al college studiavo alla School of Foreign Service, nello specifico Politica Internazionale a Georgetown: aver frequentato questo corso mi ha fatto sentire ancor di più vicino a quello che stava accadendo.
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Ho seguito come giornalista la campagna presidenziale del 2008, 7 anni dopo l’11 settembre: mai, come in quell’elezione, le questioni di politica internazionale sono state al centro del dibattito dei candidati
L'approccio era: niente sarà più come prima. Pensi che quell'evento abbia cambiato anche il tuo modo di lavorare, poi, negli anni a seguire?
Penso che abbia fatto sembrare il mondo molto più piccolo in un certo senso, e che la politica internazionale sia balzata in primo piano in un modo che non era mai successo prima. Ho seguito come giornalista la campagna presidenziale del 2008, 7 anni dopo l’11 settembre: mai, come in quell’elezione, le questioni di politica internazionale sono state al centro del dibattito dei candidati. Gli attacchi del 2001 ci hanno fatto percepire un mondo più piccolo e nessuno aveva più scelta di non partecipare a quello che stava succedendo nel mondo. Gli attacchi dell'11 settembre hanno insegnato a noi americani che non dovevamo più nasconderci dal mondo. E forse avremmo dovuto pensarci prima.
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Se dovessi fotografare quei momenti, a cosa penseresti?
Ciò che mi colpisce molto, ancora oggi, vent'anni dopo, è la sensazione percepita nelle settimane e nei mesi successivi agli attacchi. Ed era quella sensazione di unità, che penso non sia mai stata la stessa da allora, almeno negli Stati Uniti. Siamo così divisi ora. Nei mesi successivi all'11 settembre c'era questa idea che tutti fossimo coinvolti in quello che era successo, le persone si volevano aiutare in tutti i modi. Sembrava addirittura che tutte le divergenze politiche fossero state cancellate per sempre. Poi le cose sono cambiate radicalmente con la guerra in Iraq e il dibattito che ne è seguito. Ma per un momento c'è stato un vero senso di unità e comunanza che è stato di ispirazione per tutti. Non credo che mai, prima, ci fosse stato qualcosa di simile a quanto accaduto dopo l’11 settembre.
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Hai due bambine piccole, cosa diresti loro quando cresceranno, dell'11 settembre?
Non ci ho pensato, una ha due anni e l'altra ha solo pochi mesi. Probabilmente direi loro che è stato un momento molto spaventoso, ma siamo riusciti a superarlo. Pensavamo che niente del genere potesse succedere, ma questa è una promessa difficile da mantenere, visto che c'è ancora terrorismo, violenza, in tutto il mondo. Direi loro che per la mia generazione è stato un momento decisivo, come lo è stato l'assassinio di JFK, l’attacco di Pearl Harbor per le generazioni precedenti alla mia.