Il giornalista, fotografo (o meglio: pittore di immagini a colori) e storyteller riassume con poche, significative parole un momento molto intimo e personale del suo 11 settembre 2001. Viveva nella Big Apple e tutto quello che ha visto, l'ha toccato da vicino. Quel giorno si è chiesto: quanto, come e cosa documentare? Alla fine, però, l'istante non catturato è quello ancora impresso nella sua mente
Ho degli amici nati e cresciuti a New York che conoscono la Big Apple meno di Riccardo Romani. Nessuno come lui, in questi ultimi anni, è riuscito a raccontarla nella sue particolarità, ma anche a scovare le fragilità che rendono la metropoli ancora più bella e soprattutto la "concrete jungle where dreams are made of". Riccardo è uno storyteller: racconta storie, da sempre. E quando si ascoltano i suoi racconti newyorkesi si possono tranquillamente chiudere gli occhi. Ed essere catapultati, solo attraverso le sue parole, direttamente oltreoceano. Ci riesce sempre. E ci è riuscito anche in questa intervista, che ha voluto registrare proprio a Times Square, da cui parte il suo racconto, molto personale, di quanto è accaduto l'11 settembre 2001. Ma soprattutto che parte dai simboli che distinguono New York in tutto il mondo: uno su tutti, i teatri di Broadway.
Riccardo, conosci tante piccole particolarità che hanno contraddistinto la Big Apple a partire dall'11 settembre e nei giorni seguenti. Dove ti trovavi quel giorno e soprattutto che ricordi hai?
L'11 settembre è una giornata in cui tutti hanno ben chiaro dove si trovavano. Per me è semplice: vivevo a New York, ero bloccato in aeroporto e lì sono rimasto per un periodo abbastanza lungo, prima di tornare in città per raccontare quello che stava succedendo o almeno provare a farlo perché non era facile. Allora non c'erano i social e questo continuo bombardamento di informazioni: il lavoro di giornalista era basato su voci che si diffondevano non si sa bene come, si doveva scappare, correre, andare... ma molto spesso erano voci infondate. Questo per rendere l'idea di quale caos si vivesse in quelle ore e nei giorni successivi all'11 settembre.
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Due settimane dopo l'11 settembre, una parvenza di normalità
L'America sembra essere ripartita molto velocemente. Quando cammini per le strade della Big Apple c'è questa frase ricorrente che senti, ovvero "watch your step", guarda dove vai, dove ti stai spostando, stai attento a dove metti i piedi. Questa velocità ha caratterizzato anche la ripartenza e la ripresa della città, dopo un fatto così impressionante e che soprattutto ha toccato la vita di ciascuno di noi.
Ho vissuto a New York per 16 anni e mi considero un po' newyorkese. Anche quando viaggio mi dicono tutti "you're a New Yorker", proprio perché sono rimasto lì per quasi due decadi. Ma è una posizione agiografica: chi ha vissuto qui non è di nessuna parte, ha perso la sua bandiera. In questo senso l'11 settembre ci ha accumunati tutti: ogni newyorkese ha un ricordo intimo e personale, e uno più generico. Il mio personale: quel giorno, andando all'aeroporto, mi lasciò la mia fidanzata. In un momento di disperazione io non ero con lei. In un momento in cui la città era in uno stato di completo caos. E poi, il ricordo più generico, ma molto intenso, è quello della West Highway che era stata sgombrata per lasciare spazio alle ambulanze per permettere loro di raggiungere velocemente il sito del disastro, il WTC. Io ogni mattina mi svegliavo e andavo a vedere: le ambulanze erano ferme con tutti gli operatori sanitari in attesa.
Passavano i giorni e nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto
Erano giorni in cui nessuno sapeva cosa sarebbe accaduto, se si fosse salvato qualcuno. Si sperava ci fossero superstiti. Man mano che passavano i giorni, e le ambulanze restavano ferme, la gente capiva di che cosa stavamo parlando. Eravamo tutti scioccati dall'enormità di quello che stava accadendo. E cosa fanno i newyorkesi in queste situazioni? So che nel mondo hanno la fama di essere scontrosi ma nessuno sa che sono molto solidali. Sono individualisti, ma sono anche capaci di gesti molto generosi. I giorni seguenti all'11 settembre sono stati vissuti un po' al rallentatore: ci guardavamo tutti come se ci dovessimo svegliare da qualcosa di orrendo. C'era una sorta di solidarietà non dichiarata che solo chi ha vissuto in questa città può conoscere. Passati circa 10 giorni, la città, da Canal Street in su, quindi la parte superiore a dove si trovava il WTC (che, per motivi che non devo spiegare, rimase più a lungo in difficoltà), ha cominciato a muoversi e rivivere. La gente ha ripreso a correre, ad essere scontrosa, attiva e c'è un episodio che mi porta proprio qui, a Times Square: il 13 settembre 2001, a 48 ore da questa tragedia di cui ancora nessuno conosceva i termini, il sindaco Giuliani incontra la sua giunta e prende due decisioni forti: riapre il NYSE, ovvero la borsa di New York, l'economia non si ferma, un gesto molto forte e molto americano. E vuole riaprire i teatri di Broadway, una decisione che lascia tutti sbigottiti. Il Presidente dell'Associazione dei teatri incontra Giuliani, si richiamano gli attori che nel frattempo avevano lasciato New York e si riapre.
If you take the lights off Broadway, you take the lights off New York
A quattro giorni dalla tragedia, tutti i più importanti produttori si riuniscono con quel pizzico di cinismo che hanno i newyorkers davanti alle tragedie (e in questo caso ha un effetto positivo) e il 28 settembre tutte le più importanti produzioni e i loro attori si incontrano qui, a Times Square, e tutti insieme cantano "New York New York": a due settimane dagli attentati qui c'era veramente tanto dolore ma questo gesto è stato l'inno della ripresa. E qui dicono "if you take the lights off Broadway, you take the lights off New York" e NY non si può spegnere, si può ferire ma no, non spegnere. E da qui riparte la NY che conosciamo. Sono tornati i teatri, lo Stato compra 50 milioni di biglietti da dare a tutti. Due settimane dopo l'11 settembre, New York ha una parvenza di normalità che aiuta tutti ad andare avanti.
"Una foto non scattata"
I tuoi racconti non sono solo attraverso immagini video o parole, ma anche attraverso le fotografie. Se tu dovessi sceglierne una, quale useresti?
La fotografia che non ho fatto, visto che in quei giorni c'era una misura, un pudore diverso in merito a cosa effettivamente fotografare. Ho impressa l'immagine degli operatori sanitari sulla Highway deserta, pronti per partire e andare a salvare qualcuno. Questo, unito a un altro aspetto che è l'odore, l'odore acre che si era diffuso in tutta la città, un odore irripetibile mai più sentito in nessun'altra parte del mondo: questo il mio ricordo più intimo, personale, della perdita, dell'ansia, della paura e soprattutto dell'impotenza. In una città come New York, dove tutti si sentono delle divinità, da chi è all'angolo e canta Springsteen a chi guadagna milioni di dollari ogni giorno in Borsa, si è veramente sentito il senso di impotenza. E poi ce c'è un'altra, più piccola: vivevo nel Village e dietro casa mia c'era un piccolo ritrovo di persone che attaccavano le foto di chi era scomparso, ancora quando non si sapeva nulla e soprattutto se ci sarebbero stati dei sopravvissuti. Lì si incontravano tutti i tipi di umanità, dal miliardario all'impiegato del piccolo negozio... e si parlava la stessa lingua.
Umiliazione: perché?
Dopo l'11 settembre c'è stato un senso di unità che, negli anni seguenti, non si è mai più rivisto. Se tu dovessi usare una parola chiave per raccontare quel giorno, quale sceglieresti? Shock, paura?
Umiliazione. La parola che prevale, nel medio e lungo termine. Per chi ha vissuto gli anni Novanta a New York, l'11 settembre è stato un momento di umiliazione: qui c'è sempre stata questa ingenuità che portava tutte le persone a seguire quel mantra "if you make it here, you can make it everywhere"... un’ingenuità che ha conquistato tutti, turisti e cittadini. Un’ingenuità che ha portato gli americani, e non solo i newyorkesi, a pensare che "non siamo i più forti del mondo, siamo come tutti gli altri, siamo vulnerabili". E quanto lo siamo. Per anni poi si è creata anche una politica del sospetto, ricordo la frase che si leggeva in metropolitana: "If you see something, say something". La gente guardava a terra, c’erano restrizioni. Poi, anche grazie ad una forte infusione di denaro, New York è ripartita, fino alla crisi di Lehman Brothers. Ma l'11 settembre credo abbia veramente fatto perdere qualcosa alla città, soprattutto l'aspetto dell'invincibilità che da sempre l'aveva caratterizzata. Una fase, certo, che la città ha forzatamente attraversato e che ha superato. Come fa sempre New York, a modo suo.