Andrew Bernstein è una rockstar della fotografia. E non solo perché ha seguito Kobe Bryant per tutta la sua carriera, catturato momenti iconici del mondo del basket statunitense, ma soprattutto perché attraverso le sue immagini ha raccontato istanti indimenticabili. Come quelli, impressi nella sua mente, dell'11 settembre: una storia molto intima, che Bernstein ha voluto condividere in questa intervista
Ricordo ancora la prima volta in cui sfogliai "Mamba Mentality", un libro di foto di Kobe Bryant scattate da Andrew Bernstein. Tutte differenti, ma tutte così forti. Infatti rimasi senza parole. Mi è capitato spesso di guardare quelle foto nell'ultimo periodo, più che altro per capire cosa potesse passare nella mente di un fotografo mentre si trovava di fronte a Kobe Bryant. Non lo so e forse è meglio che io non lo sappia. Ciò di cui sono convinta è che in pochi riescono a catturare quegli attimi. E per farlo serve una sensibilità soprannaturale. Quella che ha Andrew Bernstein.
One of a kind
Non capita spesso di condividere del tempo con una persona come Andrew Bernstein: oltre ad essere un professionista, unico nel suo genere, è una persona molto generosa, che stimo molto. Aver ascoltato la sua storia di New Yorker trasferitosi a Los Angeles è stato molto arricchente: nelle sue parole non traspare rabbia, ma solo dispiacere e tristezza. E poi quella voglia irrefrenabile, solo americana, di ripartire per far vedere al mondo che no, con l'America e New York non si scherza. Mai. Grazie Andrew per avermi raccontato la tua storia e soprattutto per aver trovato del tempo tra tutti i tuoi impegni, soprattutto tra le finali NBA di quest'anno che ci hanno (quasi) tutti tenuti in piedi fino a tardi.
Ricordi dov’eri l’11 settembre? E come ti sei sentito quando hai avuto la notizia?
È una storia unica ed è interessante che tu mi abbia chiesto di dare il mio contributo a questo progetto. E non credo di aver raccontato questa storia a nessuno prima di oggi, forse soltanto alla mia famiglia e alcuni amici. Partiamo dall’inizio: oltre ad essere il fotografo delle squadre di basket qui a Los Angeles, per molto tempo sono stato il lead photographer dei Los Angeles Kings, squadra di hockey. E l’11 settembre 2001 era il giorno di inizio del training camp per la stagione 2001/2002. E i Kings, solitamente, dedicano un’intera giornata a tutti i test medici per i giocatori, ma anche per fare tutte le foto di rito che poi verranno utilizzate durante la stagione. Per questo tipo di impegno, io avevo un orario ben preciso: le 6.00 del mattino. E visto che la facility si trovava lontano da casa mia, per quell’appuntamento decisi di prendere una stanza proprio a El Segundo, vicino all’aeroporto di Los Angeles, ma soprattutto a pochi minuti dalla mia sede di lavoro. Quella mattina mi sono svegliato, ho acceso la tv giusto per avere un po’ di rumore in sottofondo mentre bevevo il caffè. Neanche il tempo di uscire dalla doccia e vedo su CNN un aereo che si schianta contro una delle torri del World Trade Center. Immediatamente penso: questo è un film d'azione o un film dell'orrore? Stanno mostrando qualche anteprima? No: stava succedendo veramente.
Ero preoccupato, ma dovevo andare nella facility dei Kings e fare il mio lavoro. Ma tutto si è fermato
Mentre mi stavo preparando per la giornata, ho alzato la testa e guardato la tv: stava succedendo per davvero.
Era tutto incredibile. La seconda torre è stata colpita alle 6.35, 6.36, 6.37 e a quel punto tutto si è praticamente fermato. Tutti i test medici sono stati interrotti. Nella stanza sono arrivati giocatori, gli allenatori, tutto il personale, eravamo solo incollati alla tv. E nessuno poteva crederci.
Poi, quello che mi è passato per la mente, era la mia ragazza francese che era su un volo United in quel momento, da Parigi a LAX, quando i voli United sono stati dirottati e si sono schiantati. Il mio pensiero è andato subito a lei, perché nessuno sapeva da dove provenissero questi aerei, che hanno colpito le torri, il Pentagono e la Pennsylvania fino a quando non è stato tutto ricomposto.
Ovviamente non potevo raggiungerla, era in aereo. Ero completamente fuori di testa. Dovevo andarla a prendere a LAX, che era vicino a dove stavo lavorando. Non si è mai presentata. Nessuna notizia sull'aereo. United non rispondeva al telefono.
Forse 10, 12 ore dopo ho finalmente ricevuto una telefonata da lei che il suo volo era stato deviato da qualche parte in Canada, forse da qualche parte fuori Calgary. Stava bene ed era viva. Ma che giornata assurda, assurda.
“Io sono Newyorkese”
E poi, ovviamente: sono newyorkese, sono cresciuto con mio padre che mi portava a vedere le Torri Gemelle in costruzione a Manhattan. Le potevi vedere da Brooklyn, dove vivevo. Era la vetrina, la Mecca di Manhattan era il World Trade Center. E vedere il fumo, il fuoco e il vuoto nell'orizzonte è stato così scioccante. Mi ha molto impressionato perché questa è la mia città, questa è la mia gente. In realtà ho scoperto di avere un cugino che lavorava in uno di quegli edifici adiacenti alle Torri Gemelle, credo che lavorasse per il World Trade Center in una delle attività finanziarie come agente di borsa. Era una delle persone evacuate dopo che la prima torre era stata colpita, si potevano vedere centinaia di migliaia di persone che attraversavano il ponte di Brooklyn da Manhattan a Brooklyn. Ed era una di quelle persone. Nella struttura dei Kings, passate tre o quattro ore, eravamo tutti lì a guardare, non potevamo andarcene perché nessuno sapeva che stava succedendo... LAX sarebbe stato colpito? Los Angeles, qualche parte a Hollywood? Siamo rimasti fermi e stavo aspettando notizie del volo della mia ragazza. Uno dei miei più cari amici di LA Kings, Mike Altieri, è entrato nella stanza e ci ha detto che due degli scout dei Kings erano sul volo per Boston, il volo precipitato. Conoscevo abbastanza bene uno di loro, Ace Bailey, l'altro era Mark Bavis. Tutti erano assolutamente scioccati, voglio dire: era qualcuno della famiglia, qualcuno con cui tutti abbiamo lavorato, molte persone li conoscevano molto più da vicino e intimamente. Quindi anche quello mi ha colpito. È stato un giorno drammatico, doloroso, un giorno che vive ancora dentro di me e anche in tutti noi. Le immagini continuavano ad arrivare, sapevo che i miei colleghi, persone che conoscevo a New York, dovevano andare sul posto a fare le foto anche della gente che saltava dagli edifici... conosco il fotografo che ha catturato quei momenti. Era troppo da sopportare, onestamente.
Non puoi scherzare con un newyorkese
Sei un newyorkese, quindi è stato come se ti avessero pugnalato al cuore. Saresti tornato? Certo non è stato possibile, ma hai mai pensato di tornare in città solo per dire: ehi, sono qui, sono qui per aiutarti, per abbracciarti
Assolutamente, sentivo un forte bisogno di tornare. Uno dei miei fratelli e mia sorella vivono fuori New York. Mia sorella in realtà è andata ad aiutare a Ground Zero con cibo e acqua. Non potevi viaggiare in aereo, tutto era fermo, dovevo guidare. I miei figli all'epoca erano piccoli, nel 2001 avevano 6 e 5 anni, io ero un papà single e avevo bisogno di essere presente per loro. Era molto spaventoso per i bambini. È stato spaventoso per tutti noi adulti. I newyorkesi danno sempre l’idea di essere invincibili, ce lo dicono in tanti, ci viene spesso ripetuto che non si può scherzare con un newyorkese.
Il fatto che i terroristi abbiano colpito proprio il cuore dell'America è stato qualcosa di molto difficile da accettare
Mio padre mi aveva raccontato storie su Pearl Harbor, per esempio, e quanto fosse drammatico per il pubblico americano che fossimo stati attaccati sul nostro territorio. Ciò lo portò ad arruolarsi nell'esercito così come milioni di altri. Mi sentivo estremamente impotente, sentivo che il mio dovere era qui con i miei figli, monitorare la situazione della mia ragazza e assicurarmi che stesse bene.
Ogni volta che torno a New York fisso quello skyline, che non sarà più lo stesso. Ho delle foto, ho ancora una cartolina attaccata al monitor nel mio ufficio, del World Trade Center. Devo guardare quell’immagine per ricordarmi cosa c’era prima. Sono morte tante persone, è stata una tragedia, ma bisogna andare avanti, come popolo e come nazione.