Lewis Hamilton e Michael Schumacher, uguali e diversi

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Gabriele Lippi

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Accomunati da talento e background simili, i due miti della Formula 1 si allontanano fuori dalla pista. In un confronto fuori dal tempo e oltre lo spazio

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Il tempo e lo spazio sono concetti relativi, possono stringersi o dilatarsi a seconda dei contesti in cui si esprimono. In Formula 1, tempo e spazio sono tutto, si misurano al centesimo e al millimetro, si riducono in maniera infinitesimale quando si tratta di effettuare un sorpasso. Lewis Hamilton ne ha fatti a centinaia nel corso della sua lunga e trionfante carriera, ma quello che ha appena compiuto travalica i confini di una pista, va oltre il limite di una staccata tirata all’ultimo per sfruttare al meglio l’ingresso in curva e mettere le ruote davanti alla monoposto di un avversario. È un sorpasso alla storia, al mito, alla leggenda, una manovra lunga più di tredici anni, cominciata il 18 marzo 2007, appena ventiduenne, a Melbourne, e ancora nel pieno della sua parabola, con un rettilineo finale che ancora non si intravvede nemmeno.

 

Numeri record

Novantadue gran premi vinti, uno in più di Michael Schumacher, per issarsi sul gradino più alto del podio di sempre. E il settimo mondiale (eguagliando il record del tedesco), che appare poco più che una semplice formalità. Due conti aperti, che promettono di essere ancora ritoccati, con l’impressione che nemmeno quota cento sarà necessariamente quella della pensione per un pilota che di anni ne ha compiuti 35 ma che appare ancora fresco e affamato come agli esordi. Lewis meglio di Michael, così dicono i numeri, in un passaggio di consegne che in pista si è consumato in un periodo di evidente parabola discendente per il tedesco, e che quindi si può misurare solo a distanza, in un esercizio di immaginazione che come tutti quelli dello stesso genere ha forse poco senso, eppure è stimolante.

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Tutti i record di Lewis Hamilton. FOTO

(L-R) British Formula One Champion Jenson Button of McLaren, Spanish Fernando Alonso of Scuderia Ferrari German Michael Schumacher of Mercedes GP and British Lewis Hamilton of McLaren pose after a press conference at Bahrain International Circuit in Sakhir, Bahrain, 11 March 2010. Seven-times Formula One champion Schumacher returns after three years when the 2010 Formula One season starts on 14 March with the Formula 1 Bahrain Grand Prix. Photo: JENS BUETTNER

Due fenomeni venuti dal nulla

Lewis e Michael si assomigliano più di quanto si possa pensare. Hanno la stessa identica cattiveria agonistica, la stessa atavica incapacità di tollerare la sconfitta, una propensione naturale alla velocità e una sensibilità al mezzo molto simile. Ma non è tutto. Schumi e Hamilton condividono anche un background piuttosto simile, cresciuti in famiglie modeste e non necessariamente ricche e nonostante questo riusciti a emergere in un mondo in cui il soldo, almeno all’inizio, conta forse più del talento puro, che spesso indulge a forme di familismo non sempre e obbligatoriamente morale. Bisogna averne a tonnellate, di quest’ultimo, per trovare una monoposto senza avere un portafoglio pieno con cui finanziarselo. Servono gli sponsor, e Schumi e Lewis li hanno trovati partendo da zero. Michael in un manager tedesco, Willi Weber, dal fiuto spiccato, Hamilton prendendo la scorciatoia e presentandosi direttamente a Ron Dennis, il deus ex machina della McLaren, a nove anni: “Piacere signor Dennis, mi chiamo Lewis Hamilton, e un giorno mi piacerebbe guidare una delle sue macchine”.

 

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MONZA AUTODROMO: TIFOSI ALLE PROVE E CONSEGNA DEL PREMIO CONFARTIGIANATO A LEWIS HAMILTON PILOTA MC LAREN MERCEDES - IPA

Capaci di abbattere muri

Schumi e LH44 hanno fatto cadere muri e sfondato barriere. Michael è stato il primo tedesco a vincere un Mondiale di Formula 1, Lewis il primo pilota non bianco a riuscirci. Hanno settato nuovi standard e dato il la a una nouvelle vague di piloti velocissimi, e se il primo ha già avuto illustri epigoni in Sebastian Vettel e Nico Rosberg, del secondo ancora non se ne vedono all’orizzonte. Sono cresciuti entrambi in periferia, a Kerpen, non molto distante da un kartodromo cittadino il primo, a Stevenage, umilissimo sobborgo londinese il secondo, hanno subito classismo e razzismo, sono stati costretti a macinare i primi chilometri su una mini auto spinta dal motore di una vecchia motofalciatrice e su un kart usato e scassato, il peggiore in pista. Entrambi hanno iniziato con un punto di riferimento comune: Ayrton Senna. Michael l’ha sognato per poi diventarne rivale e “nemico” in pista, Lewis ne aveva un poster in camera quando a tre anni saliva per la prima volta su un’automobile elettrica, in quello che anni dopo avrebbe descritto come uno dei giorni più belli della sua vita.

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Nel nome di Ayrton

Senna è stato metro di paragone obbligato per Schumacher, che il pilota brasiliano ha provato a batterlo sul campo prima che Ayrton se ne andasse via in una maledetta domenica di maggio a Imola, poco oltre l’alba della stagione che avrebbe laureato il tedesco campione del mondo per la prima volta. Ha dovuto fare i conti con l’uomo, Schumi, col suo mito e il suo ricordo, scontrandosi con l’amore eterno e incondizionato che gli appassionati di Formula 1 non hanno mai smesso di nutrire verso il pilota di São Paulo. Lewis questo confronto non l’ha dovuto subire, troppo distante nel tempo, ha invece vissuto la sfida a distanza con Schumi e quella reale con gli avversari. Un paio almeno se li è trovati in squadra, Alonso all’inizio e Rosberg poi, uscendo quasi sempre vincente dal confronto.

 

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Un rapporto diverso coi compagni di scuderia

Quasi, appunto, perché se c’è un luogo in cui Hamilton ha avuto indiscutibilmente vita meno facile rispetto a Schumi, quello è il box. Sposando a Maranello un progetto tecnico complicatissimo e trovandosi nelle condizioni di dover costruire da zero, con progettisti, ingegneri e meccanici, una vettura competitiva, il tedesco ha sempre preteso il monopolio negli equilibri interni alla scuderia. I compagni li ha sempre selezionati accuratamente, scegliendoli mansueti e chiarendo fin dall’inizio che la tassa da pagare per salire su una Ferrari sarebbe stata la subalternità a lui. L’unica volta che uno di loro, Eddie Irvine, fu davvero sul punto di vincere un Mondiale, Schumi, che quel titolo lo avevo ormai perso a causa dell’incidente di Silverstone, non fece poi molto per aiutarlo. Lewis, che eccezion fatta per la parentesi Bar-Redbull ha sempre guidato la macchina migliore del lotto, coi compagni di squadra ha dovuto fare a sportellate, perdendo la sfida con Rosberg nel 2016, vincendo in compenso tutte le altre, persino la prima con Alonso, nel 2007, anno in cui da matricola andò a un solo punto da un titolo che avrebbe meritato e chi gli fu soffiato da Kimi Raikkonen nonostante un vantaggio di 19 lunghezze a due gran premi dalla fine.

 

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Lewis più solido in pista

La solidità mentale è qualcosa che Hamilton ha dimostrato di avere più spesso di Schumi, espressa in uno stile di guida aggressivo ma sempre entro i limiti del regolamento. A ruotate Lewis ha fatto spesso, ma mai si è gettato volontariamente contro un avversario come Michael, tedesco dal sangue latino, per dirla con Jean Todt, ha fatto invece contro Damon Hill e Jaques Villeneuve. Non ha macchie la carriera dell’inglese, i cui nervi in pista hanno retto sempre meglio che fuori, dove dichiarazioni, tweet e atteggiamenti sopra le righe non sono invece mancati. L’esatto opposto è successo per Schumi, che uscito dall’autodromo si trasformava in normale e noioso borghese, indossando gli occhiali da Clark Kent e andando a ricercare la privacy con un’ostinazione paragonabile solamente a quella messa in pista.

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Hamilton, tra Lauda e Hunt

Se Hamilton appare come uno straordinario mix di Niki Lauda e James Hunt nell’apparentemente incoerente capacità di abbinare una totale dedizione alle corse e una joie de vivre mai nascosta fuori dal paddock, Schumacher, tolta la tuta e il casco, andava a rifugiarsi tra mura domestiche sostanzialmente impenetrabili, uscendone solo per calzare gli sci o salire sotto mentite spoglie su una moto da cross. Allo stesso modo, mentre Lewis si mostra attivo in ambito politico e sociale e non teme di mostrare le proprie opinioni, Schumi ha sempre trincerato le sue idee nel più assoluto riserbo, limitandosi a definirsi "un conservatore che non ha paura del cambiamento" senza però schierarsi mai apertamente. “La fama è una conseguenza del mestiere che fa – dice di lui Jean Todt nella biografia scritta da Leo Turrini –. Ma non la insegue, piuttosto la subisce”.

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Un'eredità già scritta

La domanda, ora, è se di Hamilton resterà quello che è rimasto di Schumi. La risposta, forse, è fin troppo banale ed è affermativa. Il ragazzo di Stevenage battezzato Lewis Carl in onore del “figlio del vento”, ha già riscritto la storia della Formula 1. Il paragone coi grandi del passato è impossibile, quello con il più recente dei predecessori complicato. Futile, forse, perché alla fine Hamilton basta a se stesso, non ha bisogno di altri metri per misurarne il mito. I numeri non sono che una prova di ciò che già alla fine del millennio scorso i più fini esperti di motori vedevano in pista mentre osservavano quell’adolescente che si dilettava a a duellare con coetanei che si chiamavano Nico Rosberg, Walter Kubica e Sebastian Vettel. Da quel gruppo di estremo talento, Lewis è andato in fuga, raggiungendo e staccando chi prima di lui si era issato sulle vette più alte del motorsport.

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