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Dostoevskij, una serie tv tra delitti, castighi e serial killer. La recensione

Serie TV

Paolo Nizza

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Uno sconvolgente viaggio al termine della notte firmato da Damiano e Fabio D'Innocenzo. Suddivisa in 6 episodi, tutti disponibili in esclusiva su Sky e in streaming su Now, una perturbante e violenta caccia all’assassino con un immenso Filippo Timi 

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Il buio si avvicina. Anzi è già arrivato. Perché Dostoevskij è una serie segnata dall’oscurità. Damiano e Fabio D'Innocenzo (Favolacce, America Latina) orchestrano un dolente e disturbante crepuscolo degli uomini. Sì, perché Dio risulta non pervenuto nei (non) luoghi della serie Sky Original. Terre desolate e offese da cieli nocivi e opprimenti. Gironi infernali che rimandano per libera associazione alle perigliose paludi della Louisiana, o nelle lande scabre del Texas di Non aprite quella porta. Dostoevskij, parafrasando l’aforisma di Jean Cocteau, “è la morte al lavoro”. Scandita in 6 atti, un’opera in cui si è travolti dalla violenza e dall’ineluttabilità del destino, da sempre in prima fila nella tragedia greca: "Forse la colpa è tutta di Prometeo, il titano incatenato che, secondo Eschilo, ha posto in noi mortali cieche speranze". Tant’è che terminata la visione si resta sgomenti, eppure appagati. Le immagini, fortissime si imprimono nelle sinapsi. E magari aveva ragione Gorgia Leontini: “L’essere non esiste, se anche esistesse, non sarebbe conoscibile e se anche fosse conoscibile, non sarebbe dicibile né comunicabile ad altri.”

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Fiumi, segreti e serial killer

La serie Dostoevskij nasce e muore in un fiume. E per citare l’aforisma di Eraclito “non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”. In fondo, la trama pare relativamente semplice. Ma è il mondo in cui è ambientata che risulta contagioso, pericoloso e impossibile da non osservare con perizia e paura. Parimenti allo sguardo di Medusa, la fiction ti pietrifica. Si resta incollati davanti allo schermo, in fondo siamo di fronte a un film di 6 ore ma il tempo vola durante la visione. Ci si appassiona alle indagini dell’investigatore Enzo Vitello, il cui passato ritorna ossessivamente parimenti alle barche controcorrente del finale del Grande Gatsby. Il poliziotto è sulle tracce di un serial killer soprannominato Dostoevskij. Un assassino con un modus operandi costante: accanto al cadavere, l'omicida lascia trascritta su una lettera la propria visione del mondo, descrivendo gli ultimi attimi di vita della vittima. Ma non c’è nessun collegamento tra i bersagli scelti dal criminale. Anche gli strumenti adottati per strappare la vita da quegli esseri indifesi, la cui unica colpa è quella di esistere, cambiano di volta in volta. Sedotto e mai abbandonato dalle tenebre che accompagnano il misterioso mostro, Vitello inizia una segreta relazione epistolare con il serial killer. E alla fine comprenderà che noi stessi siamo i nostri demoni. Sicché, nel corso delle investigazioni, il mistero che corrode l’anima del poliziotto verrà rivelato e si scoprirà perché il poliziotto ha scelto di abbandonare la figlia Ambra.

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"LIfe is a killer"

Il glamour, il trendy, il pop non abitano qui. La serie Dostoevskij  è un’epifania dell’orrore, esteriore e interiore. Una produzione in cui sente l’odore di uno shampoo economico e il sapore di una birra commerciale sgasata abbinata ad anelli di cipolla fritti. I geniali D’Innocenzo, demiurghi imprevedibili e financo risoluti quanto un nevrile Mourinho in panchina durante una semifinale di Champions al Camp Nou, imbastiscono un universo malato e scabroso, fatto di lettere scritte in stampatello, minuscoli insetti che strisciano sul pavimento, piastrelle sbrecciate, pickup sudici, tramezzini cotto e formaggio, latrati di cani, selfie sgangherati, colonscopie, lattine schiacciate, televisori accesi, blister di psicofarmaci, vomito sui fiori, video porno sul cellulare. Eppure, grazie a una sintassi che oppone campi lunghissimi a dettagli di palpebre, a sguardi taglienti come rasoi affilati, questo orrore parla di noi, della nostra quotidianità, della nostra perpetua infelicità. "Life is a Killer" scriveva Burroughs. E questa danza macabra si nutre di notti senza fine, albe che sembrano tramonti, senza che si manifesti mai nessun mattino scaccia fantasmi. Come direbbe Shakespeare: “Macbeth uccide il sonno, l'innocente sonno, il sonno che riannoda i fili arruffati delle umane cure".

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Filippo Timi inarrivabile indagatore dell'incubo

Per reggere il peso di una narrazione estrema, oscena, impossibile era necessario un attore simile ad Atlante. E Filippo Timi, di una bravura aliena in Dostoevskij, regge il peso di tutta questa tragedia. In un ipnotico caleidoscopio di delitti, castighi, rimorsi, rimpianti, accuse, l’attore ci offre una performance da antologia per chiunque voglia approcciarsi e studiare gli stilemi del genere crime. I modi ruvidi, il viso stropicciato, lo stile negletto di questo indagatore dell’incubo risultano indimenticabili. Cionondimeno, Carlotta Gamba incanta in una parte di una difficolta enorme per un’attrice della sua età, mentre il talentuoso Gabriel Montesi possiede la giusta faccia da poker, per vestire i panni del nuovo che, inesorabile, avanza. Ma come diceva Svevo, "la vita è originale" e non sono sufficienti un’alimentazione sana e un fisico asciutto e scolpito a preservarsi dagli imprevisti. Da applausi pure la performance di Federico Vanni, capo delle indagini lontano anni luce da quelle figurine fustellate e senza costrutto di tutori dell’ordine che infestano molteplici serie poliziesche.

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Cenere alla cenere, polvere alla polvere

Tra una ragazza problematica che canta a cappella L’amore esiste di Francesca Michielin e una schidionata di pasticche di Nembutal, Dostoevskij trasfigura il sorriso in una smorfia, la speranza in illusione. Ma non si tratta di nichilismo d’accatto, di una fatua elegia Maudit. Quel serial killer, che nel suo delirio cerca di guarire le sue vittime dall’assurda malattia del vivere, è lo specchio distorto di una realtà incombente e aggressiva. La spaventosa ossessione di chi è convinto che l’unico modo per garantire a certe persone un futuro migliore sia dargli un passato terrificante. Si annega, quindi, nell’abisso dell’infanzia negata, imprigionati in un angusto “contenitore”. Non c’è pace nella “città dei bambini sbagliati". E alla fine si va avanti senza sosta come l’acqua senza sapere perché. In attesa dell’ineluttabile finale, ovvero cenere alla cenere, polvere alla polvere. Ma per citare le parole dei registi: “La vita è un segreto troppo terribile da conoscere. Fantastico. Andiamo. Presentiamoci". Insomma l’unica certezza è che siamo di fronte a una delle più potenti, ipnotiche, perturbanti serie tv degli ultimi anni. Non guardare Dostoevskij sarebbe un peccato imperdonabile.

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