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Nope, la recensione del film di Jordan Peele con Daniel Kaluuya

Cinema

Paolo Nizza

Tra horror, fantascienza e western, la terza pellicola diretta dal regista premio Oscar è una riflessione sorprendente sulla società dello spettacolo. Al cinema dall'11 agosto, un'opera che spaventa, emoziona e intrattiene

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 “Il cielo a volte invece, ha qualche cosa di infernale”, cantava Franco Battiato in Strani giorni. E il regista Jordan Peele pare condividere il pensiero del grande artista siciliano. In Nope, nelle sale cinematografiche da giovedì 11 agosto, il pericolo proviene dalla volta celeste. E dopo averci inquietato con un cucchiaino in una tazza di tè in Scappa – Get Out, , terrorizzato grazie a un paio di forbici in Noi (leggi la recensione), alla sua terza regia, il cineasta nero trasfigura le nuvole in un’entità malevola e letale. Se dopo Lo Squalo, il film che cambiò per sempre Hollywood e la politica degli Studios, risultava complesso e inquietante per chiunque, immergersi in acqua, a prescindere da dove ci si trovasse, con Nope il semplice gesto di guardare in alto, d’ora in poi potrà rivelarsi altrettanto perturbante. Ma il film di Peele è pure una sardonica riflessione sulla società dello spettacolo teorizzata da Herbert Marshall McLuhan. Si sa ai giorni nostri, il mantra perpetuo è “Pics or it never happened’. Non a caso il sociologo scriveva: “Dire che «la macchina fotografica non può mentire» equivale semplicemente a sottolineare le numerose frodi che vengono compiute in suo nome. Al punto che il cinema, preparato dalla fotografia, è divenuto sinonimo di fantasia e d'illusione, trasformando la società in quello che Joyce definiva un «al nights newsery reel» [una bobina di pettegolezzi per tutte le sere], dove alla realtà si sostituisce un mondo reel [che significa bobina, ma con un assonanza ironica con real, reale]. Joyce la sapeva più lunga di chiunque altro sugli effetti della fotografia sui nostri sensi, sul nostro linguaggio, e sui nostri processi mentali.”

Jordan Peele, un regista sorprendente

Jordan Peele è un briccone divino, come direbbero gli studios di mitologia. Un demiurgo perfido e talentuoso a cui piace sparigliare le carte, sorprendere lo spettatore e trasportarlo in un dedalo sfingeo, al tempo stesso terrificante e meraviglioso. Basti pensare all’incipit di Nope. Le risate registrate di una sit-com american accompagnano il logo della Universal. Il Globo Terracqueo griffato Comcast cede il passo a una citazione biblica tratta dal libro di Nahum: “I Will cast abominable filth at you make you vile and make you a spectacle" ("Ti getterò addosso una lordura abominevole, ti renderò vile e ti renderò uno spettacolo”). Si passa poi alla visione di un set televisivo devastato, con ogni probabilità da una scimmia che sfoggia un maglione sporco di sangue, mentre sullo sfondo campeggia la scritta “Applausi”. A seguire, l’azione si trasferisce in un ranch dove addestrano cavalli. Un padre e un figlio, in pieno giorno, discutono del più e del meno, tuttavia a un certo punto il genitore viene colpito da un oggetto piovuto dal cielo. La corsa in ospedale non servirà a salvare la vita all’uomo. Partono i titoli di testa di Nope, mentre sullo schermo scorrono le 16 fotografie in sequenza, che ritraggono un fantino nero a cavallo. Create da Eadweard Muybridge nel 1887, le tavole hanno creato le basi per quello che sarebbe diventato il movimento immagini e il fondamento dell'intera industria cinematografica. Cambiarono la pittura, l’arte e il mondo, ma l’identità del cavaliere afroamericano risulta tutt’ora sconosciuta.

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Nope, Non si uccidono così anche i cavalli?

Al netto dell’abbacinante e straordinaria sequenza iniziale, si evince che con Nope, Jordan Pelee intende allargare i suoi orizzonti. Intrepido pioniere di un cinema che sfugge a ogni definizione, il cineasta afroamericano firma una pellicola che centrifuga con stile e vigore, il western, l’horror, la fantascienza, la commedia. Oltre a Lo Squalo (il personaggio di Antlers Holst, il direttore della fotografia solitario che sogna di immortalare l’evento extraterrestre è parente stretto del ruvido Quint interpretato da Robert Shaw nel capolavoro di Steven Spielberg si percepiscono echi di Incontri ravvicinati del terzo tipo, ma pure di Intrigo Internazionale di Alfred Hitchcock o di Non predicare… Spara! (Buck and the Preacher) l’esordio alla regia di Sidney Poitier. Al solito Peele, gioca con le merci, con l’immaginario camp e pop. Ripropone l’immaginaria catena di fast food Copperpots Cove, già vista in Noi. Fa indossare ai protagonisti stilose e ricercatissime t-shirt vintage di gruppi musicali di nicchia: dal lupo in amore dei Jesus and Lizard all’Emiliano Zapata dei Rage Against Machine, dai Wipers ai Mr. Bungle, senza dimenticare la felpa arancione con il logo del film Il Re Scorpione. Insomma, il merchandising come l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, come avrebbe chiosato Walter Benjamin. Perché siamo ormai soprattutto consumatori, un target di mercato. In fondo, Non si uccidono così anche i cavalli, per citare il celebre dramma firmato da Sidney Pollack

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Nope, una clip esclusiva del film con Daniel Kaluuya. VIDEO

Nope: Not of Planet Earth

Dalla brama sfrenata di partecipare all’iconico Talk Shaw di Oprah Winfrey, all’immaginaria sit-com Gordy's Home, che ricorda la stucchevole Gli Amici di papà ma pure la tragica vicenda del cinquantacinquenne Charla Nash aggredita nel 2009 dallo scimpanzé Travis, Nope è una pellicola destinata a far discutere.  Sulle note di "Walk on By" cantata da Dionne Warwick, un'opera che ha come titolo una negazione colloquiale, molto in uso tra i neri americani, ma che rappresenta pure l'acronimo di Not Of Planet Earth. Un film che intrattiene emoziona e inquieta. E alla fine ci si sente come quegli improbabili pupazzi gonfiabili perduti nel deserto, esche anonime e buffe per catturare l'alieno che è proibito guardare. Scritto durante la pandemia, la pellicola ci costringe a riflettere sul nostro presente, sulla nostra smania di essere sempre protagonisti, magari sognando di essere inseguiti da un centauro paparazzo al servizio del sito TMZ. Senza predicozzi o anatemi, Peele ci mostra il mondo illusorio e digitale in cui tutti, più o meno, viviamo e ci arrabattiamo. Un villaggio di cartapesta, simile allo Jupiter’s Claim che vediamo nel film. E forse a salvarci sarà la forza dei sentimenti. Il primo piano finale del volto di Emerald Haywood (Keke Palmer) quando all’orizzonte, a cavallo, si manifesta suo fratello OJ Haywood (Daniel Kaluuya) ci ricorda cosa significa davvero quando arrivano i nostri, mentre i mostri sono fuori e dentro di noi. 

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Nope, la trama del film

Aqua Dulce, California, i fratelli OJ Haywood (Daniel Kaluuya) ed Emerald Haywood (Keke Palmer), hanno ereditato un ranch di cavalli dal padre, Otis Haywood Sr. (Keith David) deceduto in un misterioso incidente. Vicino al ranch degli Haywood si trova lo Jupiter's Claim, un parco a  temai, ispirato al vecchio west di proprietà e gestito da  Ricky "Jupe" Park (Steven Yeun), un ex attore di fede evangelica, un bambino segnato da un terrificante episodio che ha condizionato tutta la sua vita I fratelli Haywood iniziano a notare fenomeni misteriosi nela loro proprietà. Eventi che vorrebbero a tutti i costi filmare. La situazione peggiora quando OJ ed Emeraldl chiedono aiuto al commesso del negozio di Fry’s Electronics, Angel Torres (Brandon Perrea) e  all'attempato direttore della fotografia Antlers Holst(Michael Wincott). Il gruppo si ritroverà quindi a dover affrontare una famelica minaccia proveniente dal cielo che ama nascondersi tra le nuvole.