Malformazioni nei feti, scoperto il meccanismo causato dal talidomide

Salute e Benessere

Causa di aborti e morti premature negli anni ’60 (ma anche più di recente), il farmaco è stato al centro di un importante studio coordinato dalla professoressa Luisa Guerrini dell’Università degli Studi di Milano 

Parla anche e soprattutto italiano uno studio che è riuscito a scoprire per la prima volta al mondo i meccanismi per cui il talidomide ha causato, all’inizio degli anni ’60, un incremento di neonati con malformazioni degli arti e delle orecchie. Il merito va al team di scienziati guidati dalla professoressa Luisa Guerrini, docente di Biologia Molecolare presso il Dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano, protagonista dello studio realizzato in collaborazione con il Tokyo Institute of Technology e la Tokyo Medical University, pubblicato sulla rivista Nature Chemical Biology. Alla base della scoperta c’è la degradazione della proteina p63 durante lo sviluppo embrionale.

Cos’è il talidomide

Si tratta di un farmaco che venne commercializzato per la prima volta in assoluto Germania, nel lontano 1956 e da lì in poi prese piede, venendo venduto in 46 Paesi nel mondo, ad eccezione degli Stati Uniti. Il motivo principale per cui ottenne successo, specie tra il 1957 ed il 1961, era che questo farmaco veniva utilizzato per le nausee gravidiche, grazie anche ad una pubblicità che sottolineava l’assoluta “sicurezza” del prodotto. Proprio i primi anni ’60, però, coincisero con un incremento di neonati venuti al mondo con malformazioni degli arti e delle orecchie e questo dato venne ben presto associato con l’assunzione di talidomide in gravidanza. La discussione scientifica fu animata: nel 1961 furono pubblicati sulla rivista scientifica Lancet dati relativi alla correlazione tra malformazioni e assunzione di talidomide, rendendo così di dominio pubblico i primi casi di anormalità fetale collegabili al farmaco. La decisione degli esperti fu quella di imporre il ritiro dal commercio del talidomide, nel dicembre del 1961, essendo il farmaco ormai identificato come il primo in assoluto ad essere riconosciuto come causa di malformazioni nell’uomo. L’assunzione del farmaco per le future mamme, entro le sei settimane dal concepimento, venne quindi associata a gravi difetti di riduzione degli arti, malformazioni esofagee, duodenali, renali, anomalie dell'orecchio esterno e gravi difetti cardiaci. Il motivo era evidente: tantissimi neonati morirono subito dopo la nascita, molti nei primi anni di vita per gravi difetti cardiaci anche se non è mai stata stilata una stima degli aborti indotti dal farmaco killer.

Aborti e morti premature

Dopo numerosi studi, nessuno dei quali è arrivato a conclusioni certe, oggi finalmente è possibile conoscere quali sono stati i meccanismi alla base dell’azione del talidomide. Il team di scienziati coordinati dalla professoressa Guerrini è infatti riuscito a dimostrare che il farmaco agiva sulla degradazione della proteina p63 durante lo sviluppo embrionale. Quest’ultima è essenziale durante lo sviluppo dell’embrione soprattutto per quanto riguarda la formazione degli arti, del palato, della pelle e del cuore. Stando alle indicazioni degli specialisti sono addirittura cinque le sindromi umane dovute a mutazioni nel gene p63 e i pazienti affetti da queste sindromi, infatti, hanno manifestato malformazioni proprio agli arti, al palato, al cuore e alla pelle. 

Le fasi dello studio

L’idea iniziale da cui lo studio è partito è stata quindi l’osservazione delle similarità nelle malformazioni dei bambini definiti ‘talidomidici’ con quelle dei pazienti affetti da sindromi dovute a mutazioni in p63. La prima conclusione a cui sono giunti i ricercatori è stata che il talidomide potesse aver influito durante lo sviluppo embrionale sulla proteina p63. Per verificare le loro tesi, i ricercatori si sono serviti dello zebra fish come animale modello e alla fine è arrivata la conferma che cercavano: il talidomide provoca la degradazione della proteina p63 attraverso una molecola chiamata ‘cerebron’ (CRBN). Negli animali il farmaco aumentando l’interazione di p63 con CRBN ha provocato danni alle pinne (corrispondenti agli arti) e alle vescicole otiche (corrispondenti alle orecchie) inducendo la degradazione della proteina p63.

Un caso non ancora chiuso

Purtroppo però, come sottolinea il comunicato stampa dell’ateneo milanese pubblicato a corredo della scoperta scientifica, la vendita di talidomide è stata nuovamente approvata alla fine degli anni `90 nella maggior parte dei Paesi occidentali, anche in virtù di un potere anti-tumorale, sebbene siano stati adottati stretti sistemi di controllo circa il suo impiego. “Il disastro del talidomide non è un caso chiuso, in quanto una seconda ondata di ‘bambini talidomidici’ sono nati a partire dall’anno 2000, specialmente in Brasile, dove il farmaco è largamente utilizzato per la lebbra. Questo studio, tuttavia, sarà sicuramente utile nel dirimere le richieste di indennizzo delle vittime del talidomide, in quanto dimostra che il farmaco non ha nessun effetto a livello del Dna ma solo un effetto transitorio a livello della proteina p63”, ha detto la professoressa Guerrini, che è anche membro del comitato scientifico dell’associazione Vita (Vittime Italiane Talidomide) che è impegnata da tempo perché venga riconosciuto ai pazienti coinvolti un giusto risarcimento.  

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