Endometriosi e invalidità civile: perché e quando fare richiesta. Intervista all'avvocato
Salute e Benessere ©GettyCinzia Laurenza, avvocato esperto di diritti del malato, fa il punto sulle tutele e sulle agevolazioni per le donne che convivono con questa patologia cronica e invalidante e sul presente e il futuro dell’assistenza sociale per le pazienti che ne soffrono
Se ho una forma grave di endometriosi e vivo una vita di rinunce sia in campo lavorativo, sia in campo sociale, quali diritti ho e che tipo di percorsi devo seguire per avere una speranza di vederli riconosciuti? Restano ancora molti gli interrogativi e le incognite per le tante donne che si trovano a convivere con questa malattia cronica e progressiva di tipo infiammatorio che porta alla presenza di tessuto simil-endometriale in varie parti del corpo e allo sviluppo di cisti, lesioni, aderenze che rendono il dolore una costante nelle attività quotidiane e nella vita relazionale. Dal 2006, il Parlamento italiano ha cominciato a interessarsi all’endometriosi come malattia sociale: dapprima con una indagine conoscitiva e poi collezionando, di legislatura in legislatura, una sfilza di proposte di legge che non hanno mai visto la luce. Anni in cui, a fronte di un dibattito sempre più intenso e di un'attenzione crescente sulla patologia, poco o nulla è cambiato sul versante delle tutele. Abbiamo chiesto a Cinzia Laurenza, che sui social è Avvocato_Invalidità, di spiegarci come viene valutata la condizione di endometriosi in termini di invalidità civile. Uno dei suoi primi video da legal tiktoker è stato proprio su questa malattia, non a caso uno dei più visualizzati: “Professionalmente mi sono sempre occupata di diritti del malato, ma mi sono resa conto della diffusione e delle difficoltà che pone questa patologia con un po' di ritardo, solo attraverso alcune amiche che ne soffrono. È grazie a loro – ammette – che ho capito quanto sia importante fare qualcosa per questa categoria di donne e lavoratrici senza tutele”.
Perché una paziente con endometriosi dovrebbe aspirare a un riconoscimento di invalidità civile?
Innanzitutto, quando parliamo di punteggi nell’ambito dell’invalidità civile, parliamo di una valutazione sulla capacità del soggetto a lavorare e a svolgere le funzioni quotidiane rispetto ai propri coetanei. Chi ha zero è considerato nel massimo della propria capacità lavorativa e dell’esercizio delle funzioni quotidiane: più la percentuale si alza e più la persona soffre di un’invalidità tale da rendere estremamente difficile lavorare e svolgere normali atti quotidiani. Non si parla di impossibilità, ma di difficoltà: è inclusa la semplice capacità relazionale, che è separata da quella lavorativa. Recarsi sul posto di lavoro e passare una giornata in ufficio, ma anche uscire, cucinarsi, scegliere ogni giorno cosa fare senza essere condizionati dalla malattia, in una parola autodeterminarsi. Attività che sono precluse a chi ha una “malattia sociale” come l’endometriosi e che limita la donna in ambiti diversi, dalla vita relazionale a quella professionale.
L’endometriosi è inserita nell’elenco delle patologie croniche e invalidanti al terzo e quarto stadio, ma è riconosciuta in qualche misura un’invalidità civile per chi vive con questa patologia?
Si è cominciato a parlare tardi di endometriosi e invalidità civile, perché fino a poco tempo fa l’endometriosi non compariva nella tabella ministeriale di valutazione generale delle patologie ritenute invalidanti. Solamente dal 2017, grazie all’impegno di tantissime associazioni che rappresentano degli interessi collettivi, si è riusciti a ottenere questo riconoscimento. Prima erano necessarie certificazioni molto complesse di tipo medico-legale che dovevano focalizzarsi sugli effetti, perché la semplice diagnosi non bastava, a fronte di una malattia non ancora riconosciuta. Ora basta la certificazione del medico competente che operi in strutture pubbliche. Nonostante quella di cinque anni fa sia stata una vittoria, siamo ancora molto indietro.
Con l’ingresso nell’elenco cosa è cambiato?
Quasi niente. Adesso il problema è che l’endometriosi è considerata troppo poco invalidante. Grazie all’ingresso nei Livelli essenziali di assistenza (LEA), le donne con endometriosi hanno ottenuto il diritto ad esenzioni per alcune visite e analisi, esenzioni che sono tuttavia insufficienti. Sul fronte dell’invalidità civile, però, e quindi dei diritti in ambito lavorativo, non ha avuto un vero impatto. All’endometriosi al terzo e quarto stadio può essere riconosciuta una percentuale variabile di invalidità con un massimo che però non supera il 25%. Inoltre, si parla anche di terzo e quarto stadio con “complicanze”, una specifica che circoscrive ulteriormente il campo e che permette di arrivare al 30% solo ad alcune delle pazienti che soffrono di forma moderata e grave e di un particolare quadro clinico.
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A cosa corrisponde questo numero percentuale in termini di benefici e diritti?
Il punteggio che va dal 21 al 30% non garantisce alcun diritto o beneficio in più rispetto a quelli già previsti dai LEA, a cui si accede senza il riconoscimento di invalidità.
È inutile quindi fare richiesta di invalidità civile?
Non è inutile. Consiglio sempre di fare richiesta per creare un solco all’interno della propria storia previdenziale: si potranno così inserire eventuali malaugurati peggioramenti, che ci possono essere soprattutto quando si ha una malattia progressiva e recidivante, relativamente a quella patologia o ad altre collaterali. In questo modo, si potrà ottenere un "aggravamento" e si eviterà una pratica di nuovo "riconoscimento". C’è poi un tema politico e sociologico. È importante che tante persone facciano emergere questa problematica, perché non sia più ignorata. Se tutte rinunciano a fare richiesta, o per mancanza di informazione sul tema o perché sanno che nell’immediato non otterranno nulla, continueremo ad avere una casistica bassa e il problema rimarrà ignorato sul fronte dei diritti. Con l’aumento delle richieste, aumenterà lo studio della fattispecie e potremo avere dei progressi.
Quindi il suo consiglio è di non arrendersi e di perseverare anche dal punto di vista burocratico?
Proprio così. Le faccio un esempio. Alcune donne con endometriosi possono superare il tetto del 30% e arrivare al 34%: questo accade quando vengono conteggiati gli effetti di altre patologie legate indirettamente a quella principale. Considerando che la maggior parte delle pazienti con endometriosi convive con altre patologie, se tutte allegassero i documenti integrativi, questi quattro punti potrebbero gradualmente essere riconosciuti di default, il che sarebbe un ulteriore passo.
L’endometriosi è una malattia progressiva e recidivante, questo vuol dire che molte donne si sottopongono a più di un intervento chirurgico, questo riceve un qualche tipo di considerazione ai fini dell’invalidità?
È paradossale, ma anche nel caso dell’endometriosi l’intervento chirurgico viene ritenuto risolutivo, quindi se è ben riuscito l’invalidità civile scende. Non si valutano i casi di interventi plurimi e le difficoltà psicologiche che incontrano le donne che entrano ed escono dalla sala operatoria.
Perché ci sono resistenze così forti?
Sicuramente l’atteggiamento dell’INPS è restrittivo. In parte, giustifico questa tendenza, perché paghiamo lo scotto delle maglie troppo larghe degli anni passati e dei tanti vulnus del sistema. Con questa apparente chiusura si mette un freno a mano per il timore che il sistema possa implodere, specie se la platea dei beneficiari è così potenzialmente ampia come per l’endometriosi. Ma dal 34% di riconoscimento massimo che abbiamo ora la strada è ancora lunga. Per vedere i primi progressi non serve il 75%, che corrisponde all’assegno mensile di assistenza, sarebbe già tanto arrivare al 46%. Le donne con endometriosi avrebbero così la possibilità di essere iscritte alle liste del collocamento mirato: non è risolutivo, ma aiuterebbe molte di loro nella fase della ricerca del lavoro, mentre con il 67% ci sarebbe l’esenzione dalla visita fiscale nei giorni di malattia, un aspetto apparentemente marginale ma che servirebbe a far sentire più comprese le pazienti. Sappiamo che molte non riescono a tenersi il posto di lavoro a causa delle tante assenze e a concludere i percorsi di studio e perfezionamento per via della malattia.
Oltre ai ricorsi, ci sono altre strade percorribili?
Si potrebbero avere interventi ad hoc e circolari dell’INPS, ma non credo in queste azioni singole. Bisogna dare un’attenzione diversa alla patologia inserendola nei sistemi già esistenti per poter cambiare davvero le cose.
L’endometriosi è per sua stessa ammissione una delle patologie più complicate che si trova a trattare dal punto di vista professionale. È un unicum?
L’unica patologia paragonabile è la fibromialgia: si tratta di una malattia che, a differenza dell’endometriosi, non compare all’interno della tabella ministeriale, ma per la quale si è raggiunto un tacito consenso di tutte le ASL e delle commissioni integrate ASL e INPS per attribuire ai pazienti un punteggio che va dal 40 al 50% di invalidità nei casi più gravi. Anche qui la diagnosi non basta, ma è l’accuratezza con cui lo specialista descrive gli effetti sulla persona a fare la differenza. Vale lo stesso per le donne con endometriosi: è essenziale corredare la documentazione medica di una serie di certificati che dia conto anche degli effetti di natura psicologica. Vanno certificati in maniera autonoma per arrivare ad una percentuale di invalidità che corrisponda più al dato fattuale. Ricordiamoci sempre, che non si tratta di strappare qualcosa che non spetta, ma di adeguare la percentuale di invalidità civile alla sofferenza delle tante amiche, colleghe, familiari affette da questa malattia che ci circondano e a una realtà che ormai è sotto ai nostri occhi.