Endometriosi, malattia cronica e invalidante, ma di serie B

Salute e Benessere
Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

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Un bilancio a 30 anni dalla prima iniziativa internazionale per la sensibilizzazione su questa patologia. A che punto siamo in Italia? Ne parliamo con il professore ordinario di Ginecologia dell'Università di Bologna, Renato Seracchioli; con Sara Beltrami, attivista e promotrice della Petizione Endometriosi, e con Valentina Pontello, "medica" e creatrice di “Endo Podcast” in questo primo capitolo del nostro dossier 

Ci siamo appena lasciati alle spalle il lungo mese dedicato alla consapevolezza sull’endometriosi. Tutti gli anni, a marzo, negli Usa dal lontano 1993 e in Italia con un po' di ritardo, la comunità scientifica e quella delle pazienti massimizza gli sforzi per accendere i riflettori su questa malattia cronica e progressiva di tipo infiammatorio che racconta molto del nostro tempo. Sebbene sia tutt’altro che rara – è così diffusa da toccare, secondo dati ormai obsoleti, almeno 3 milioni di italiane e quasi 200 milioni di persone nel mondo – l’endometriosi fatica ancora ad essere riconosciuta. Riconosciuta dalle pazienti, che spesso soffrono in silenzio e si sentono sbagliate; dai medici, che scontano un deficit di preparazione e formazione sul tema; dalla politica, che si astiene dal legiferare su questa materia che va ben oltre la sfera sanitaria; e così via, a cascata, dalla società che circonda le donne affette dalla patologia. Parliamo di datori di lavoro poco comprensivi, di compagni insofferenti o peggio indifferenti, di madri nate in un’altra epoca, in cui il dolore era considerato normale, e che per questo sottovalutano il malessere delle figlie. Per tutti questi motivi ritorneremo periodicamente su questo tema, anche al di fuori delle scadenze comandate del #monthforendometriosisawarenessness. Abbiamo scelto di partire dalla fine del mese di sensibilizzazione, perché i riflettori non si spengano. Parleremo di esenzioni, di diritti riproduttivi, delle iniziative legislative, di diritto del lavoro.

 

La formazione dei medici

Renato Seracchioli, direttore del reparto di Ginecologia e Fisiopatologia della Riproduzione Umana dell’ospedale Sant’Orsola, ricorda quando ai tempi dell’università, negli anni Ottanta, si studiava che l’unica terapia possibile fosse quella chirurgica. “Oggi sono state sdoganate le terapie ormonali e sappiamo che per arrivare alla diagnosi sono fondamentali la diagnostica, l’anamnesi, l’ascolto della paziente, ma ci sono ancora libri che dicono che per valutare la gravità della malattia serva l’esame istologico”, detta in parole povere che si debba "passare sotto i ferri". Un dettaglio non secondario, visto che il riconoscimento dello stadio è fondamentale per accedere alle esenzioni, sebbene siano parziali e oltretutto limitate alle sole forme classificate come moderate e severe.

 

Un passo indietro

Viene il sospetto che, dietro a queste resistenze, non ci sia solo la lentezza ad aggiornarsi da parte della classe medica ma una più radicata questione culturale, soprattutto se si fanno i conti con la storia della medicina. L’endometriosi non è una scoperta recente. I primi studi furono condotti già negli anni Sessanta dell’Ottocento per poi intensificarsi nella prima metà del XX secolo quando alla patologia fu dato il nome che utilizziamo oggi. “L’attenzione sulla malattia si è concentrata solo negli ultimi anni, nel momento in cui si è presa coscienza delle dimensioni del fenomeno, per questo l’endometriosi è percepita come una malattia nuova”, spiega Seracchioli. Nel 2017 è stato fatto un importante passo avanti con l’ingresso dell’endometriosi al III e IV stadio nell’elenco delle malattie croniche e invalidanti. Un successo apparente che però - ancora una volta - ha messo in luce la mancanza di conoscenza e considerazione che sconta questa patologia: “L’attivazione dei nuovi LEA, i livelli essenziali di assistenza, ha dato una mano alle pazienti per quanto riguarda la copertura delle spese relative alla fase diagnostica, ma nessun aiuto per la terapia medica. Molte donne devono assumere farmaci per tanto tempo e con un grande sforzo economico: parliamo di una somma minima di 20 euro al mese (la cifra è variabile) moltiplicati per anni di cure”. E non finisce qui: nell’elenco delle prestazioni gratuite (poche e insufficienti) compaiono esami ormai superati e che non tengono conto della pervasività della malattia, che non è solo ginecologica ma in moltissimi casi coinvolge diverse parti del corpo. “Nessun medico prescrive più il clisma opaco, eppure è fra le prestazioni gratuite”, sottolinea il professore.

Diritti riproduttivi

C’è poi un altro fronte sensibile, spesso dimenticato: quello della preservazione della fertilità e dei diritti riproduttivi. Sarebbe tra il 30 e il 50% la percentuale di donne con endometriosi che hanno problemi di infertilità e difficoltà a concepire, ma il problema con le sue ricadute sociali ancora non è stato affrontato in modo strutturale. La prima questione è quella della fecondazione assistita: “Molte donne devono sottoporsi a questa pratica per avere un figlio: alcune regioni come Toscana e Emilia-Romagna sono attrezzate per trattare queste pazienti in maniera più rapida e snella, evitando che la malattia possa diffondersi”, spiega. Un altro discorso va fatto per la preservazione della fertilità: “Soprattutto per le giovani donne che spesso devono fare i conti con le recidive, potrebbe essere opportuno raccogliere ovociti e congelarli. Noi abbiamo un centro di preservazione della fertilità per le pazienti oncologiche che apriamo anche a pazienti con endometriosi, ma solo per la nostra regione”.

 

L’Italia dell’endometriosi

La fotografia che emerge è quella di un’Italia irregolare e disomogenea, dove spiccano delle regioni virtuose a fianco ad altre arretrate, in cui la diagnosi, quando arriva, è un fardello più pesante. Non bastano centri d’eccellenza, per quanto siano dislocati in diverse parti della Penisola, a risolvere il problema del ritardo diagnostico che si aggira attorno ai 7 anni. Anche se è dal 2006 che il Parlamento ha cominciato a interessarsi di questa patologia e del suo impatto sociale, nessuna delle numerose proposte di legge ha visto la luce. Il risultato è stato quello di lasciare la questione all’iniziativa regionale. Una ragazza toscana potrà accedere alla crioconservazione, per giunta gratuita, mentre una ragazza abruzzese no. “È chiaro che ci vorrebbe una strategia nazionale perché il modello della regione leader non ha molto senso”, sottolinea Seracchioli.

 

Le tutele

Sara Beltrami (36 anni), copywriter e attivista, ha capito fin da subito che le battaglie sono due: la prima è quella per il riconoscimento della malattia, un percorso tortuoso e tutt’altro che compiuto; l’altra è quella delle tutele, perché anche quando ci sarà un pieno riconoscimento i diritti non saranno automatici.  “Si deve partire dall’esenzione del ticket sui farmaci, proprio come succede con le altre malattie croniche, con l’insulina per le persone diabetiche”. Sara si definisce una “nerd dell’endometriosi” perché se ne occupa da sempre nel suo blog “Il Predicato verbale”, da prima che esplodesse il fenomeno delle micro-influencer su Instagram, ragazze che aprono un account per raccontare la propria esperienza di dolore cronico e spesso per combattere la solitudine che deriva da una vita sociale distrutta dalla malattia. “Dieci anni fa, ho capito che fosse necessario alfabetizzare migliaia di pazienti che – spiega Beltrami – dovevano districarsi con la burocrazia o con ingiustizie di varie tipo”. Di strada ne ha fatta: da Reggio Emilia al Parlamento europeo dove ha presentato la sua Petizione Endometriosi, che punta a ottenere dal governo italiano una volta per tutte delle misure di tutela. Il varo di una strategia nazionale è prioritario, ma è altrettanto urgente una presa di posizione Ue che deve dare risposte ai 15 milioni di cittadine malate.

 

La storia di Sara

Dietro il suo impegno c’è una storia personale e clinica travagliata, una diagnosi tardiva e tante rinunce: “Ho iniziato ad occuparmi di questo nel 2012. Ho sempre convissuto con il dolore: poi intorno ai vent’anni sono finita in pronto soccorso e in sala operatoria senza sapere cosa avessi. Ho scoperto la malattia in modo violento dopo l’operazione: mi sono avvicinata a un’associazione perché volevo che nessun’altra donna passasse quello che avevo passato io”. Sara era una sportiva, giocatrice di pallacanestro, lavoratrice: “A un certo punto non sono più riuscita a fare nulla. Fino ai 30 anni la mia vita è stata faticosa: il dolore non mi abbandonava mai, mi accompagnava giorno e notte. In quel periodo difficile le poche energie che avevo le mettevo in questa causa, perché mi sono presto resa conto che dovevamo essere portavoce di noi stesse”. La lotta sul campo per coinvolgere le istituzioni, da quelle locali a quelle nazionali, le ha fatto prendere coscienza dei difetti del sistema: “Mi sembrava che ogni volta il meccanismo si inceppasse. Per questo mi sono ispirata alla parabola della tampon tax che ha preso il via da una petizione popolare. Ho pensato: perché non farlo con l’endometriosi? A giudicare dalle adesioni che abbiamo avuto, la cittadinanza è più avanti della politica”. Quella di cui è promotrice un’iniziativa dal basso: con zero budget sono state raccolte più di 4mila firme in 2 mesi a favore di finanziamenti per coprire le spese delle terapie ormonali per il III e IV stadio della malattia, della promozione di campagne di sensibilizzazione e soprattutto dei percorsi diagnostico-terapeutici… Su questi, già attivi in Emilia-Romagna, si sta lottando: si tratta di una rete che consente da un lato alla donna con diagnosi sospetta o accertata di entrare immediatamente in un flusso di visite specialistiche con elevato standard di qualità, e dall’altro di preparare i medici e gli operatori sanitari del territorio all’individuazione della malattia, in modo tale che anche negli ospedali periferici, lontani dai grandi hub regionali, si possa fare la differenza. “È un modello da esportare in tutta Italia”, dice Beltrami.

Il lavoro: il cuore del problema

Nella petizione è anche formalizzata la richiesta che il diritto al lavoro sia garantito attraverso l’istituzione di tutele lavorative mirate: “Io sono arrivata all’apertura della partita IVA esausta dagli anni che mi lasciavo alle spalle: facevo Reggio-Parma tutti i giorni. Sono solo 30 km da pendolare, ma per anni percorrevo questa distanza con il terrore: avevo costantemente paura di dover andare al bagno e poi in ufficio stavo male”. Prima ancora del congedo mestruale, strumento prezioso che in Spagna è stato approvato pochi mesi fa con una menzione specifica all’endometriosi, il lavoro da casa dovrebbe essere reso accessibile per le donne che soffrono di questa patologia: “Lo smart-working aiuta perché ci si può alzare in piedi quando si vuole e si ha maggiore libertà di movimento: stare sedute acutizza il dolore in alcune pazienti. Nella maggior parte dei casi vengono ignorate dai datori di lavoro le lettere di motivazione dello psicoterapeuta e del ginecologo che consigliano una forma mista di lavoro per la dipendente. Serve una legge”. A chi teme che dispositivi come lo smart-working e il congedo mestruale possano essere richiesti anche da chi non ha bisogno dice: “Il ciclo e il dolore femminile sono ancora degli enormi tabù. Nessuna li chiederebbe, se non in stato di reale necessità”.

 

Ginecologia femminista per accompagnare le pazienti

Anche l’impegno di Valentina Pontello, “ginecologa femminista” e creatrice di Endo podcast, è nato a seguito di una diagnosi. Quando era specializzanda, l’endometriosi era considerata una malattia di competenza del chirurgo: si studiava poco e male. Ha imparato a conoscerla quando ne ha fatto esperienza sulla propria pelle: “Mi ero resa conto che ci fosse qualcosa che non andava e da medica mi sono subito rivolta al ginecologo giusto e ho scoperto di soffrirne”. Ha iniziato così un percorso di studio e di continuo aggiornamento che ha trovato uno sbocco nella divulgazione e nell’apertura di un profilo Instagram: “Utilizzare i social è un modo per offrire un punto di vista scientifico alle pazienti che spesso si sentono abbandonate e si perdono nella ricerca spasmodica online di rimedi alternativi per alleviare la sofferenza”. L’approccio della dottoressa non può prescindere dalla medicina di genere, intesa non solo come la branca che si occupa di patologie femminili, ma soprattutto come modo di relazionarsi alla paziente. Significa contrastare sul campo la sottovalutazione e la normalizzazione del dolore femminile che sono ancora endemiche : “Io ti credo è una frase che pronuncio spesso dinanzi a donne che per anni si sono sentite dire che il dolore era nella loro testa”, confessa.

 

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Malattia invisibile?

In alcuni casi la malattia è lampante: “Può presentarsi come un nodulo ben visibile, ma non è sempre così. Un’ecografia di routine potrebbe non evidenziare nulla, per questo è importante ascoltare la paziente e prestare attenzione al tipo di dolore che viene descritto: se è peggiorato col tempo, può essere un campanello d’allarme. Partendo da presupposti sbagliati - mette in chiaro Pontello - come quello per cui la mestruazione dolorosa non è niente di cui preoccuparsi, non si arriva alla soluzione”. Quando la diagnosi arriva, non sempre il medico è in grado di accompagnare la paziente nella gestione della malattia: “Le ragazze si sentono dire che il dolore nei rapporti sessuali è normale se si ha endometriosi conclamata. Lo specialista nella maggior parte dei casi non prende in carico questa problematica, quasi non fosse di propria competenza”. Pontello insiste sull’importanza di approfondire questo tema durante le visite: “In realtà, sul dolore sessuale si può fare moltissimo. Non parliamo solo della riabilitazione del pavimento pelvico, ma anche della consulenza mirata che può aiutare la coppia a resettarsi e a sperimentare la sessualità non penetrativa”. Sono tante le figure che possono intervenire per aiutare la donna a vivere meglio e contenere la malattia. “L’endometriosi - continua Pontello - non è una patologia del ginecologo, perché le cisti, le lesioni, le aderenze coinvolgono diverse parti del corpo e per questo deve essere seguita da figure professionali differenti: dall’endocrinologo all’ortopedico, passando per l'urologo e il gastroenterologo. Da qui è nata l’idea di fare un podcast in cui gli invitati sono medici di vari campi e specializzazioni”.

 

Ripartire dalle teenager

Anche se il picco della diagnosi è tra i 25 e i 35 anni, 2/3 delle pazienti ha i primi sintomi prima dei 20: i numeri ci dicono quindi che l’attenzione deve essere alta dalle primissime visite. Pontello, formatasi con Vincenzina Bruni, fondatrice della SIGIA (Società italiana della ginecologia dell'infanzia e dell’adolescenza) e pioniera della ginecologia pediatrica in Italia, insiste sull’importanza della tempestività: in adolescenza si può prendere la malattia in tempo ed evitare anni di inutile sofferenza. “Le adolescenti vengono spesso a fare la visita insieme a madri che hanno avuto loro volta l’endometriosi senza saperlo e che per questo si trovano impreparate a decifrare il malessere delle figlie, spesso confuso con un capriccio o tutt'al più con una scusa per non andare a scuola”. 

 

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