Si tratta dei primi dati emersi dallo studio multicentrico volto alla definizione del “Registro Italiano dell’Emicrania I-GRAINE”. Il progetto è promosso dall’IRCCS San Raffaele per studiare a fondo una patologia piuttosto comune nel nostro Paese e che, secondo le stime degli esperti, colpisce fino al 24% della popolazione, cioè circa 15 milioni di persone
L’emicrania è una patologia piuttosto comune e, secondo le stime degli esperti, colpisce fino al 24% della popolazione italiana, cioè circa 15 milioni di persone. Rappresenta la terza patologia più frequente nell’essere umano, oltre ad essere la seconda più disabilitante. Nel nostro Paese, infatti, “più di 4 milioni di persone hanno almeno 5 episodi di emicrania al mese, arrivando in alcuni casi a sperimentare mal di testa ogni giorno”. Lo segnala una nota del IRCCS San Raffaele che ha promosso il primo report dello studio osservazionale volto alla definizione del “Registro Italiano dell’Emicrania I-GRAINE”, i cui dati preliminari sono stati discussi nel corso di una conferenza stampa, in Senato.
L’identikit del paziente tipo
Fornire informazioni precise su chi sia il paziente, quali le sue difficoltà, quali e quante cure e accertamenti svolga e perché le esegua, “valutandone legittimità ed efficacia”. Ma anche analizzare l’impatto della malattia sull’uso di risorse sanitarie, in termini di visite, esami e accessi al pronto soccorso, con uno sguardo particolare all’impatto che ne deriva sul Servizio Sanitario Nazionale. Ecco i principali fondamenti del progetto, una iniziativa nazionale definita “unica al mondo” e “con finalità epidemiologiche, cliniche, di sanità pubblica e di ricerca studiata per raccogliere sistematicamente i dati dei pazienti affetti da emicrania afferenti nei diversi centri/ambulatori cefalee italiani”. Lo studio, a cui partecipano 38 centri italiani, ha potuto, tra l’altro, stabilire l’identikit del paziente tipicamente coinvolto dall’emicrania. Si tratta, spiegano gli esperti, di “una donna di 45 anni, con scolarità superiore, sposata, con almeno un figlio, lavoratrice”. La stessa, poi, “non pratica sport, ha disturbi del sonno e spesso presenta altre comorbilità” e, inoltre, “ha una storia di malattia di circa 27 anni e presenta in media 9.6 giorni al mese di emicrania con intensità e disabilità molto elevate”.
I numeri in Italia
Secondo il professor Piero Barbanti, responsabile scientifico del Centro Cefalee e Dolore Neuropatico dell’IRCCS San Raffaele, con il Registro Italiano sull’emicrania “saremo finalmente in grado di dare numeri al fenomeno, di ‘contarli per poter contare’, conferendo una sorta di passaporto biologico al paziente malato per migliorare la sua vita e ridurre gli sprechi di risorse sanitarie”. Dunque, ecco cosa è emerso dal report. “Solo il 38.1% dei pazienti aveva già consultato un centro cefalee (in media 1.25 centri). Un paziente su 9 (11.2%) ha avuto in media 1.7 accessi al Pronto soccorso nell’anno corrente per l’emicrania”, si legge nella nota del San Raffaele. Negli ultimi 3 anni, poi, il 66.7% dei pazienti ha eseguito almeno una visita specialistica, in oltre il 70% dei casi per scelta autonoma. Nel 64.9% dei casi, però, “lo specialista consultato non è quello corretto”. E nel 52% le visite sono risultate a carico del SSN. Sempre nello stesso arco temporale, il 77.4% dei pazienti ha eseguito almeno un accertamento diagnostico strumentale, con una media di 2.4 accertamenti a paziente. “Nel 25% dei casi gli accertamenti eseguiti sono risultati inopportuni perché non diagnostici”, mentre nella maggior parte dei casi (81.7%) tali accertamenti sono risultati a carico del SSN.
Le cure
Un focus del report si è concentrato poi sulle cure. Ne è emerso come gli analgesici tradizionali siano “efficaci solo in un caso su due”. Al momento della visita, poi, è stato segnalato come il 78% dei pazienti stesse già eseguendo una terapia profilassi. “La risposta alle profilassi tradizionali è scarsissima (dal 5.4% al 35% dei casi) mentre ottima è la risposta agli anticorpi monoclonali (fino al 79% di casi)”, sottolineano gli esperti. Infine, il 36.4% dei pazienti che non ha risposto dopo tre mesi agli anticorpi monoclonali, risponde in realtà entro il quarto o quinto mese. Tale dato “impone di estendere da 3 a 6 mesi il termine Aifa per verificare l’efficacia di questi trattamenti”, si legge ancora.