Sudafrica, 30 anni fa il referendum che aprì la strada alla fine dell’apartheid

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Il 17 marzo del 1992, una consultazione rivolta solo all’elettorato bianco diede al governo il mandato che cercava per continuare un processo di riforme che aveva portato, tra l’altro, alla scarcerazione di Mandela. Votò a favore il 68,7% degli aventi diritto, ma più che dalle condizioni delle persone di colore molti furono influenzati dall’ipotetico arrivo di nuove sanzioni internazionali 

Il 17 marzo del 1992, esattamente trent’anni fa, si svolgeva in Sudafrica il referendum che aprì la strada alla fine dell’apartheid, ovvero il regime di segregazione razziale attuato per decenni nel Paese grazie a specifici provvedimenti legislativi. Quella consultazione e le riforme che seguirono portarono nel giro di due anni alle prime elezioni a suffragio universale nella storia dello Stato e all’elezione del primo presidente nero: Nelson Mandela (IL LEADER ANTI APARTHEID - CINQUE FILM PER RICORDARLO).

Il periodo storico 

Il referendum era stato annunciato il 20 febbraio del 1992 dal presidente Frederik Willem de Klerk, leader del Partito nazionale, ed era rivolto solo alle persone bianche. L’obiettivo del governo era capire se appoggiavano una strada che l'esecutivo aveva intrapreso anni prima e che avrebbe dovuto portare alla creazione di un nuovo Sudafrica. Il processo era iniziato ufficialmente il 2 febbraio del 1990, con un discorso di de Klerk al Parlamento e, nel giro di due anni, aveva già prodotto dei risultati: la riabilitazione dell’ANC e dei gruppi anti-apartheid che erano stati dichiarati illegali; l’abrogazione dei provvedimenti alla base del regime di segregazione; l’istituzione della Convenzione per un Sudafrica democratico (CODESA), nata con l’obiettivo di dare allo Stato un nuovo governo eletto da tutti i cittadini, oltre che una nuova costituzione. Il cambiamento più importante fu, però, la scarcerazione di Nelson Mandela, avvenuta l’11 febbraio del 1990. Insieme all’arcivescovo Desmond Tutu, Mandela era uno dei più strenui e popolari oppositori dell’apartheid. Per combatterlo, aveva cofondato la costola giovanile dell’African National Congress - nato per difendere i diritti delle persone di colore nel Paese - ed era diventato lui stesso vicepresidente del movimento nazionale. A partire dagli anni Sessanta, aveva poi messo da parte le azioni pacifiche in favore della lotta armata, motivo per cui era stato poi arrestato e condannato all’ergastolo. 

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Chi era il presidente de Klerk

De Klerk era un esponente del partito responsabile dell’apartheid e, come ricorda Il Post citando le parole di un diplomatico americano, non disse che quel regime era immorale, bensì che "non poteva più funzionare". Proprio a causa di questa politica di segregazione, il Sudafrica era da anni bersaglio di sanzioni internazionali e doveva fronteggiare una crescente opposizione interna che, dal 1961, aveva assunto anche la forma della lotta armata. Nel 1992 il presidente diede prova di essere disposto a prendersi un altro rischio e annunciò che, se il no al referendum fosse prevalso, si sarebbe dimesso e ci sarebbero state nuove elezioni. La sua decisione fu accolta con sentimenti contrastanti. Ci fu chi - come il Partito conservatore - si oppose perché era contrario alla fine dell’apartheid, e chi accusò il presidente di voler dar seguito a politiche razziste lasciando nelle mani di una sola parte del popolo una scelta che lui stesso avrebbe potuto prendere.

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Il giorno del referendum

Il 17 marzo, gli elettori bianchi vennero infine chiamati alle urne dopo una campagna elettorale che aveva visto scontrarsi da un lato il partito democratico di Zach de Beer, quello nazionale del presidente, l’AFN e tutte le organizzazione contrarie all’apartheid - favorevoli al sì - e dall’altro il partito conservatore guidato da Andries Treurnicht. I seggi aprirono alle 7 del mattino e agli elettori fu data la possibilità di votare fino alle 9 della sera. La domanda a cui bisognava rispondere era: “Sostieni il proseguimento del processo di riforma che il Presidente ha iniziato il 2 febbraio del 1990 e che è volto a dare una nuova costituzione attraverso un processo di negoziazione?”. Complice il bel tempo, l’affluenza fu da subito molto alta, lasciando presagire una vittoria del sì. In tutto votarono 2,8 milioni di aventi diritto, più di quanti si fossero mai recati alle urne degli anni precedenti. Di questi, il 68,7% - pari a circa 1,9 milioni di persone - si espresse a favore dell’apertura del governo e diede a de Klerk il mandato che cercava. Come riporta un articolo del New York Times dell’epoca, i "no" arrivarono in prevalenza da colletti blu Afrikaans (discendenti degli olandesi) delle aree rurali, da alcuni dipendenti pubblici che temevano di perdere il lavoro a causa della fine dell’apartheid e da alcuni anziani. I voti contrari prevalsero solo in una delle 15 aree, Pietersburg, ma anche in questa roccaforte conservatrice ci fu una lotta: i voti contrari furono 49.820 a fronte di 37.612 sì. Il supporto fu maggiore nelle aree abitate in prevalenza dalla popolazione anglofona e raggiunse l’85% a Durban. A Città del Capo il risultato fu simile, mentre a Johannesburg i sì furono il 78% del totale. 

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Gli avvenimenti successivi

Commentando l'esito del referendum, de Klerk disse che si aspettava un risultato positivo, ma non così deciso: “Non succede spesso che, nel tempo di una generazione, una nazione abbia l’opportunità di elevarsi al di sopra di se stessa. Oggi, con questo referendum, l’elettorato bianco l’ha fatto”. E ancora: “Ci aspetta un futuro pieno di sfide: nulla sarà facile ma abbiamo scelto la direzione e messo le basi per costruire una riconciliazione, garantire la pace e il progresso per tutti”. L’esito sorprese anche Treurnicht, che lo accettò ma diede una lettura diversa della scelta degli elettori. “Le dichiarazioni isteriche sulla possibilità di nuove sanzioni, di un bagno di sangue e del fantasma della disoccupazione sono state evidentemente troppo per molti elettori”, disse il leader del partito conservatore, riferendosi agli scenari che de Klerk aveva delineato durante la campagna elettorale nel caso fosse prevalso il no. Mandela fu ancora più concreto: “Annunciare il risultato di un referendum non basta a porre fine all’apartheid”. Affinché questo si realizzi, “ci dovrebbero essere abitazioni sufficienti, più strutture sanitarie e pensioni migliori per i neri. Siamo ancora lontani da questo punto e, soprattutto, io non posso ancora votare nel mio Paese. Il sì significa che i bianchi sono pronti ad affrontare questi problemi”. La fine dell’apartheid fu il risultato di un processo lungo ma, per convenzione, viene fatta coincidere con il 27 aprile del 1994, giorno in cui si svolsero le prime elezioni libere e aperte a tutta la popolazione nella storia del Sudafrica. In quell’occasione, il partito nazionale venne sconfitto dall’Afn e Mandela divenne il primo presidente nero del Paese. L’anno prima de Klerk e Mandela avevano ricevuto il premio Nobel per la Pace per i loro sforzi volti a perseguire una transizione democratica.

 

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