“Diari afghani”, la settima puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese in mano ai talebani

Mondo

Filippo Rossi

Durante gli ultimi mesi, il reporter e collaboratore di Sky TG24 Filippo Rossi ha percorso migliaia di chilometri in macchina attraverso l’Afghanistan per raccontarne le diverse sfaccettature. Un reportage in sette puntate, tra aneddoti, fotografie e mappe. Ecco la settima parte, quella conclusiva

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (QUI LA PRIMA PUNTATA - SECONDA PUNTATA - TERZA PUNTATA - QUARTA PUNTATA - QUINTA PUNTATA - SESTA PUNTATA).

Puntata 7, giorni 16 e 17 - Province di Ghazni, Paktika, Paktia e ritorno a Kabul

La partita finale: “Non sono venuti a portarci i fiori, ma i proiettili”

Ultimi giorni di viaggio, il ritorno nella capitale

 

Nevica a Kabul. Nel mezzo del mercato di Mandany, mentre compro spezie e vestiti insieme a Luca e Andalib, i fiocchi si attaccano al mio patu (scialle tradizionale usato in inverno dagli uomini per riscaldarsi). I capelli diventano bianchi. Cammino nel mezzo di decine di persone che si fanno avanti a gomitate facendo passare carrelli, portando sacchi pesanti di merci sulle spalle, sfrecciando con motorini e biciclette su un terreno fangoso e scivoloso. Insieme a Luca e Andalib, cerchiamo un taxi per tornare in albergo. Non lo troviamo. Tutti cercano di salire su un veicolo per andare a casa. Sono le 4 del pomeriggio ma sembrano le 8 di sera. “Finalmente la neve. È l’oro bianco per i cittadini di Kabul” dice Andalib. Davvero, non vedo l’ora che splenda il sole per vedere Kabul imbiancata e le montagne che l’attorniano ricoperte di zucchero a velo. Uno spettacolo. La neve scende sempre più fitta. La luce diventa sempre più fievole fino a sparire, lasciando l’elemento di sorpresa per l’indomani, quando finalmente il sole farà brillare i fiocchi di neve sulle aride montagne.

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Tra l’altro, basta scroccare. Penso di averne approfittato fin troppo, visto che ieri notte abbiamo ancora trovato un amico di Andalib che ci ospitasse. Ormai è quasi diventata una cosa scontata. La novità è che oggi siamo finalmente tornati a Kabul. Ho calcolato: in 16 giorni ho percorso più o meno 3 mila chilometri. Siamo partiti presto da Gardez, il capoluogo della Paktia. Una provincia famosa, insieme alla Paktika e a Khost, per i bombardamenti Nato e la forte resistenza talebana. La sofferenza dell’Afghanistan è in parte raccolta in queste province. È da qui che il famoso network Haqqani ha cominciato ad operare ed è da qui che la famosa resistenza dei mujahidin negli anni ’60 e ’70 ha iniziato a confrontarsi con l’Armata Rossa sovietica e il governo comunista dell’epoca. Luoghi che fino a qualche mese fa erano difficilmente avvicinabili (chi ha seguito queste puntate, si renderà conto che non è la prima volta che lo dico, cosa che insegna quanto pericoloso fosse il paese prima della fine delle ostilità) e dove sono stati commessi atti crudelissimi. Ma storia a parte, la natura è bellissima. Valli emontagne spoglie con qualche alberello rimasto sulle pareti rocciose delle montagne. Caseggiati a mo’ di castelletti con torrette di avvistamento, i quali secondo Andalib “sono costruiti in modo palesemente scenico per mostrare la potenza delle singole famiglie di fronte alle altre”.

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A Gardez ci arriviamo da Ghazni, dove ci siamo lasciati l’ultima volta. Siamo partiti a inizio pomeriggio, dopo aver terminato la storia sulla corte d’appello provinciale. Una situazione surreale. Dopo aver intervistato il responsabile il giorno prima, torniamo di buon mattino a disturbare le guardie talebane. All’inizio si lamentano: “non potete fotografare qui, non qui, non là, non potete, non abbiamo il permesso”. Ma noi sorridiamo, pacche sulle spalle, rubiamo qualche scatto con il telefonino. E loro si ammorbidiscono e cominciano a lasciarsi ritrarre. “Il responsabile” – che io e Luca chiamiamo simpaticamente “il cumenda” perché alla fine decide tutto lui – “ha detto che ieri è stata la prima volta che si è fatto ritrarre in fotografia nella sua vita” racconta Andalib. Fortissimo. Forse è questo che lo impauriva durante l’intervista, quando il suo uomo aveva il dito sul grilletto. Pensava forse che la fotocamera esplodesse come quella che fu letale a Massud (il 9 settembre 2001, due terroristi si fecero esplodere mentre sedevano insieme a Ahmad Shah Massud in Panjshir, fingendosi giornalisti e mettendo dell’esplosivo in una macchina fotografica). Ma chi ha voglia di mettere bombe nella fotocamera. Mica voglio farmi fare esplodere. Ma lui non lo sa. La storia delle 72 vergini non me la berrò mai, altrimenti sarei già andato in paradiso. 

 

Nella Corte entrano le persone che depositano i propri casi. Dispute di terreni, omicidi, furti. Di tutto. Il “cumenda” riceve, pone domande e poi ritira il materiale per prendere una decisione. La Corte d’appello è cambiata da quando sono arrivati i talebani. Prima, con il governo repubblicano, funzionava diversamente. Ma con il cambio di regime, stanno cambiando anche i sistemi giudiziari. Tuttavia, molte corti sono ancora chiuse e la giustizia deve ancora essere riformata secondo i canoni dei nuovi arrivati. Il “cumenda” spiega che per ora si usano ancora le leggi della costituzione precedente, tranne gli articoli considerati contrari alla religione islamica, e introducendo determinate dottrine. Il fiqh, il diritto islamico che interpreta la Sharia, valeva anche prima. Chiaramente facciamo domande sul taglio delle mani e sulle esecuzioni, che a noi paiono le più interessanti: “Non tagliamo mani a tutti e a caso. Ci vogliono talmente tante condizioni riunite per arrivare a tale sentenza, che nemmeno ci si immagina cosa significhi prendere una decisione del genere. Per ora non è ancora successo” racconta. Un’esecuzione non è ancora avvenuta, ma esiste la possibilità legale. Tutto confermato anche da un avvocato locale che è venuto alla Corte d’appello per difendere il caso di una famiglia di contadini analfabeti, la quale ha perso una persona per omicidio e furto. 

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Le persone aspettano con un numerino, sedute per terra di fronte alla porta principale dove si riunisce la Corte. A turno, un mujahid fa entrare le persone. Noi ci sediamo in mezzo a loro e chiediamo dei casi. Spuntano due Hazara con una storia incredibile: quattro anni fa, tre uomini hanno ucciso due figlie di uno dei signori presenti. Essendo abbienti, i criminali avrebbero corrotto la giustizia del vecchio governo. I giudici hanno imprigionato sette persone innocenti accusandole grazie ad un unico testimone, pagato. Per anni, con il sistema corrotto del vecchio governo, nessuno ha potuto fare nulla. Fino ad oggi. Oggi, questo signore è in sala. Il cumenda fa chiamare tre dei condannati dalla prigione cittadina, gli altri quattro avevano pagato per uscire di galera già qualche anno fa. Possiamo assistere alla scena. Arrivano nella sala ammanettati. I talebani non ci lasciano fotografare. “Bebakhshi, faqat yak aks bigiram”, “per favore voglio solo fare una foto” dico scherzoso, cercando di farmeli amici. Niente da fare. “Questo governo non è corrotto come il precedente. Hanno riaperto il caso e chiediamo che i veri colpevoli siano condannati secondo la legge” dice il padre delle due vittime: “abbiamo fiducia nei talebani, spero possano fare giustizia. Non sono corrotti come quelli di prima”. Dopo un’oretta, i tre colpevoli vengono riammanettati e riportati in prigione. Ma sono felici: il cumenda ha deciso che se troveranno tre persone disposte a garantire per loro potranno essere liberati fino alla fine delle indagini,  e se i veri colpevoli venissero trovati saranno liberi definitivamente. “Ma se scapperanno, saranno i tre garanti ad essere imprigionati” spiega Osama, il nostro talebano di fiducia. All’inizio era intransigente, poi abbracci, sorrisi ed è stato fondamentale per poter lavorare bene. Luca ride quando dice che si chiama Osama: “Ah, ecco, un nome noto da queste parti”. Chiaramente rido solo io perché lo dice in italiano e nessuno capisce. “Almeno questi fanno. Gli altri riempivano solo formulari” dicono alcune persone che attendono in fila il proprio turno e riferendosi ai talebani.

 

Alla fine del caso, tutti sono felici. Giustizia probabilmente sarà fatta. E non si può dire che i talebani siano stati cattivi. Anzi, hanno aiutato un hazara. Proprio l’etnia che sotto il primo governo talebano, vent’anni fa, veniva tanto perseguitata e che subì molte rappresaglie. Oggi le cose sembrano cambiate.

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Dalla Corte d’appello di Ghazni prendiamo la macchina in direzione della provincia di Paktika, fermandoci di fianco a un lago desertico che rende il paesaggio pittoresco. Scattiamo qualche foto. Zahid, l’autista, è lento. Mi innervosisce. Sono stanco. Luca ride perché lo prendo in giro in continuazione. Ma alla fine è un lusso poter aver una macchina a disposizione. Ci fermiamo di nuovo in un luogo dimenticato da tutti, nel mezzo di pianure desertiche. Non c’è nulla se non case e sabbia. E un caso di vittime Nato. Incontriamo qui Masum e suo zio Haji Bardaa. Dodici anni fa, decine di soldati polacchi e l’aviazione Nato hanno ucciso dieci membri della loro famiglia. Tre in un bombardamento, e sette durante il raid notturno dei polacchi avvenuto subito dopo, i quali hanno colpito cinicamente donne e bambini sparando loro un colpo in testa. Tutti talebani chiaramente, travestiti da civili innocenti. Ennesimo caso. Ennesima tragedia di cui raccolgo il racconto. Parliamo con loro seduti in casa. Visto il freddo pungente, ci danno una coperta per coprirci le gambe, seduti gli uni di fronte agli altri. È qui che sento Haji Bardaa pronunciare una frase che può facilmente riassumere ciò che ho visto durante questo viaggio: “Non sono venuti per portarci i fiori, ma i proiettili”. Lascio a voi i commenti. 

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Usciamo che è già quasi buio. La strada asfaltata non è lontana. Gardez nemmeno. La visibilità è molto ridotta. Dopo un’ora e mezza di macchina, arriviamo in città. Ci fermiamo a mangiare in un ristorante popolare. La gente guarda la partita di cricket, ma sembra osservare più noi. Non ho molta fame e lo stomaco non è ancora al massimo. Nelle giornate di lavoro non mangiamo e non beviamo. Stessi errori ripetuti all’infinito. Arriviamo a sera che siamo letteralmente “in barella”. Andiamo a dormire in una clinica locale, dove gli amici di Andalib ci offrono ospitalità in un ufficio ben riscaldato e con elettricità. Hanno preparato 4 letti e una stufetta a legna. Ci installiamo. Io devo scrivere un pezzo, perciò mi metto a lavorare. Luca lavora con me, poi spegniamo le luci e ci addormentiamo. La notte fa freddo perché la stufetta si spegne e la coperta non basta. Ma so che è l’ultima notte: la mattina mi sveglio, felice di tornare a Kabul.

 

Alla capitale ci arriviamo in mattinata. Il cielo è nuvoloso. Il clima rigido. Si sente l’arrivo della neve. Andiamo all’hotel, doccia, caldo, vestiti puliti. Porto Luca a mangiare un dolcetto squisito e poi fuori a lavorare di nuovo, quando i fiocchi di neve cominciano ad imbiancare le strade della capitale afghana.

 

Sento di aver raccontato abbastanza. In queste settimane ho vissuto momenti unici, e trovato in voi grande motivazione nel raccontare. Un’esperienza a tratti dura, pesante ma indimenticabile attraverso un paese che ormai sento un po’ come casa.

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