“Diari afghani”, la terza puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese in mano ai talebani

Mondo

Filippo Rossi

Durante gli ultimi mesi, il reporter e collaboratore di Sky TG24 Filippo Rossi ha percorso più di 4mila chilometri in macchina attraverso l’Afghanistan per raccontarne le diverse sfaccettature. Un racconto in sette puntate, tra aneddoti, fotografie e mappe. Ecco la terza parte

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (QUI LA PRIMA PUNTATA - SECONDA PUNTATA).

Puntata 3, giorno 5 - Provincia di Badghis - Arrivo a Qala-e-Naw

“Mai viaggiare senza pettine e tazza di tè”

Da Faryab parto alla volta di Badghis con un 4x4 che funge da trasporto pubblico, attraverso uno dei luoghi più remoti del paese. I miei compagni di viaggio mi accolgono e si prendono cura di me fino a Qala-e-Naw, dove incontro Anwari, il mio nuovo fixer.

 

Dov’è Qala-e-Naw? Non lo sapevo nemmeno io fino a qualche mese fa. È il capoluogo della provincia di Badghis, non lontano da Herat. Qui sì che non c’è davvero nulla. Non c’è un chilometro di asfalto, e le colline impervie, che sconfinano nel non lontano Turkmenistan, rendono la comunicazione complicata. Si vede nella faccia della gente, dei bambini che appena vedono una macchina si affacciano alla porta di casa o cercano di ricorrerla, che si vive ancora in un altro mondo. È qui che mi fermo oggi. Un’avventura che voglio raccontare.

Alle 3.45 del mattino suona la sveglia a Maimana. Mi alzo, do un colpo a Obaid e Jabbar che mi accompagnano al punto di partenza dove sono riunite decine di persone che, in partenza, litigano per i posti su diversi furgoncini. La “mia” macchina - un 4x4 Toyota scassato ma resistente - dovrebbe partire alle 4. Dovrebbe, visto che alle 5 ancora discutiamo: chi prende il posto davanti, dove vanno le valigie, “sali sull’altro furgoncino”, “no perché altrimenti arrivo fra tre giorni” e via così. Alla fine posso permettermelo e pago due posti, per tenere lo zaino con soldi, materiale e macchina fotografica con me. Sui sedili posteriori si siedono normalmente quattro persone. In questo caso il privilegio è che siamo solo in tre. Mi congedo velocemente da Jabbar e Obaid. Ci sediamo in macchina e partiamo. Ora sono solo io, il mio persiano e l’ignoto. Voglio far notare una cosa: fino a qualche mese fa, per uno straniero era impensabile salire su un bus in centro a Kabul per questioni di sicurezza. Figuriamoci fra Faryab e Badghis, dove i rischi di rapimenti, checkpoint talebani e incidenti dovuti alla strada e alla guerra erano altissimi. Sono un po’ in tensione, lo ammetto, sto facendo una cosa nuova a tutti. Quando la macchina arranca, tutti alzano le mani al cielo e pregano perché Allah li protegga.

 

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“Quindi dove vivi?” mi chiede Mohammad Shahab, uno dei tre fratelli uzbeki che siedono di fianco a me, cercando di fare conoscenza. All’inizio era con lui che avevamo avuto una discussione per i posti a sedere. Conversiamo. “Sono a Istanbul”, “Ah” risponde, “sto andando proprio là”. “Con i mezzi pubblici, o prendi l’aereo a Mashaad?” chiedo. “A Mashaad prendo l’aereo, ma gli altri vanno a Teheran per lavorare. Qui non c’è nulla” dice indicando i suoi fratelli e i suoi nipoti che in Iran troveranno un lavoro. Sopra il tetto alcune valigie. Partono leggeri per tornare dopo mesi. Le donne rimangono a casa. Una tipica scena migratoria. Io sono l’outsider, ma subito mi fanno sentire parte del gruppo. Dopo un’oretta è l’ora della preghiera. “Fermati qui, preghiamo” dicono all’autista. Scendiamo. Pregano tutti mentre l’autista fa rifornire il veicolo con il diesel. Osservo il commerciante del negozio nel quale la gente prega mentre accende il generatore per azionare la pompa di benzina. Quando tutti hanno pregato, Mohammad Shahab tira fuori il termos di tè: “Bevi il chai (tè)?”. Tipico dell’Afghanistan, si condivide una sola tazza per tutti. La moglie di Mohammad Shahab ha preparato dei biscotti. Non ricordo il loro nome, ma erano quelli che anche la moglie di un altro amico mi preparava spesso. Deliziosi. Mi rimpinzano. Mangia questo, mangia quello. La tazza di tè passa di mano in mano senza mai cadere, anche se la strada comincia ad essere disastrosa. Per fortuna non sto male. Lo sterrato sembra infinito. Sono quasi 250 chilometri ma le condizioni sono spaventose. La macchina comincia a danzare con le buche e noi seguiamo il ritmo. La mia testa colpisce il tetto e la maniglia non so quante volte, diventando bionica. La spalla batte a mo’ di metronomo il finestrino, tanto da infiammarsi. Mi tengo a un palo di ferro posto dietro ai sedili anteriori. No panic, è solo l’inizio.

I fratelli, signori sulla sessantina, si divertono, si picchiano fra di loro in maniera goliardica, ma poi mi guardano ogni tanto per chiedermi se sto bene. Anche i figli fanno lo stesso, molto tranquilli e gentili. Mi fido. Uno di loro quasi vomita mentre la polvere, come di consueto, si intrufola da ogni buco.

Quando entriamo nella provincia di Badghis, giungiamo in un primo bazaar. Un luogo sventurato. Casette in fango spartane, con venditori ambulanti per terra che espongono il loro materiale su un telo di plastica. Fra loro anche un venditore di armi. Lanciarazzi, proiettili, kalashnikov. Un mercato vero e proprio. Ci fermiamo proprio davanti, mentre l’autista compra del nastro adesivo (utile più tardi). Scatto una foto con il telefono. Mi beccano subito. “Non fare foto” dicono tutti. No no tranquilli. Ce l’ho comunque. È un pezzo da 90. 

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“Sei sposato Filip?” mi chiedono. “No” rispondo. “Ma com’è possibile?”. “Non so”, rispondo, “è complicato”, e intanto penso che forse dovrei dire “sì” e metterla via facile. “Ho molte donne ovunque” dico invece loro per provocarli. La risata è generale. Il fratello di Mohammad Shahab lo sfotte: “Anche lui a Istanbul è pieno di donne. Ma qui in Afghanistan shhhh” facendo segno con il dito sulle labbra. Mentre parliamo, la macchina viaggia passando attraverso guadi di fiume, valli disabitate, campi di oppio, cime di colline che fungono da passaggio, un labirinto di strade impossibile da riconoscere. E si avanza a passo d’uomo perché ogni volta l’autista si ferma per vedere se qualcosa si è rotto. Poi l’auto si impantana nella melma. In seguito la batteria perde il contatto. “Ci risiamo” mi dico. Ma il nastro adesivo comprato al mercato si rivela provvidenziale. L’autista taglia un cavo e riattiva il contatto. Si riparte anche se non so come ci sia riuscito. Bravo. 

Dopo cinque ore di macchina ci fermiamo a mangiare. Siamo a 170km da Qala-e-Naw. Ci sono almeno ancora quattro ore per me. Siamo in una cittadina chiamata Bala Murghab, a un tiro di schioppo dal Turkmenistan – anche se non esiste un vero confine. Con il cielo coperto, non sembra granché. Anzi è molto povera. Ma ci sediamo in un ristorante e mangiamo un po’ di riso. Discuto con i miei compagni di viaggio. Mi raccontano cosa fanno e io spiego loro il mio progetto. Sono sorpreso di quanto io sia in grado di capire e comunicare in persiano. Non ho altra scelta perché l’inglese non esiste. Usciti dal ristorante, tutti pieni di polvere, ci puliamo con l’aria della pompa a pressione per gli pneumatici, divertendoci a spruzzarci l’aria a vicenda. Mohammed Sahahab, con uno specchietto, si pettina sistemando capelli e turbante. La scena è comica, con il fratello che lo prende in giro. Poi saliamo in macchina. Si continua, e il sedere fa male. Tutto comincia a dolere. La strada diventa terribile, peggio di prima anche se sembra impossibile. Ma i villaggi sono indimenticabili: bambini arano campi sulle pareti delle colline. Alcuni di loro cercano di girare un asino che si è ribaltato per la pendenza. La gente gira con gli asini come noi con le automobili. I mercati si susseguono, sempre spartani. Le case sono marcate dalla povertà, senza finestre anche se la temperatura è gelida. Finalmente, quando siamo a mezz’ora dalla meta, ci si ferma per pregare. Prendono tutti l’acqua dal pozzo e fanno le abluzioni. Io osservo sotto gli occhi increduli dei locali che non capiscono il motivo per il quale io non stia pregando, o se si accorgono che sono straniero. Poi si riparte. È praticamente finita.

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Arrivato a Qala-e-Naw, dopo 10 ore di viaggio, spero di vedere Anwari, la mia nuova guida locale. Non risponde al telefono. Poi mi dice: “Sono quasi arrivato, aspettami”. Sì bravo, e dove? L’autista mi saluta, mi sbatte fuori e si congeda, lasciandomi con un signore anziano in mezzo alla strada in un luogo che nemmeno conosco. Saluto comunque gli altri, stringendo la mano e augurando loro buona fortuna. Proseguono per Herat.

Cammino per le strade di Qala-e-Naw, seguendo l’anziano, che chiamo amorevolmeente kaka (nella cultura afghana, una persona anziana può essere chiamata kaka, che significa zio, in segno di rispetto) Sono perso. Non ho nessuno che possa aiutarmi. Devo fare tutto in persiano. Mi faccio dare il nome di un hotel dal kaka. Mi mostra un hotel prima di congedarsi. “Avete camere?” chiedo. “No, siamo pieni, prova di fronte”. Ok. Anche di fronte niente. Allora mi siedo nel ristorante e attendo Anwari. Tutti si girano appena entro. Anwari mi dice che sta arrivando a prendermi. Mi chiama dopo qualche minuto. Cammina fino all’hotel. Scendo in strada e lo vedo. Ci salutiamo con un abbraccio caloroso. Anche lui non parla inglese. Ma parla un bel persiano e riesco a capirlo bene. È molto felice di vedermi e lo sono anche io. È tornato a Badghis da Kabul per me. Perché sono ospite. Era a una conferenza di giornalisti. Mi fa strada, accompagnandomi al veicolo con il quale lui e la sua famiglia sono arrivati da Herat. Saliamo in macchina insieme ai figli, i fratelli, le mogli. Non ho calcolato quante persone in tutto. Andiamo a casa sua, molto povera. La latrina è all’esterno. La doccia non esiste, si fa tutto con secchi di acqua riscaldata. Ma l’ospitalità di questa gente povera è indescrivibile. Mi obbligano a svestirmi, portando via i panni sporchi per poterli lavare. Mi preparano acqua calda, visto il tempo freddo, per lavarmi faccia e mani, sporchi dal viaggio. Mi fanno accomodare in salotto, dove portano il tè e altri vestiti puliti per cambiarmi. “Devi rilassarti, domani pensiamo al lavoro”. Servito e riverito. Poi apriamo una discussione bellissima su quello che succede nel paese, sui talebani, sulle fake news prima della cena. Mi offrono cibo fresco: fagioli, carne, pane e yogurt con qualche verdura. Anwari mi accoglie come un fratello. A volte mi manca il vocabolario corretto in persiano ma riesco a farmi capire. Domani mi porterà in giro nella provincia alla ricerca di famiglie civili bombardate. Anche lui è giornalista. Lavora alla radio regionale come direttore. Dice che se potesse imparerebbe l’inglese: “Avrei così tante opportunità di lavoro” mi dice. Non avrò traduttore in inglese. Sarà una grande sfida. Per ora devo riposare e recuperare. Come ho detto loro: “Mi sento trattato come uno Shah”. La loro semplicità è contagiosa. 

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Giorno 6, Provincia di Badghis, distretto di Qala-e-naw, Muqar e Herat 

“Problemi di pancia”

 

A Badghis incontro, grazie ad Anwari, altre vittime civili della Nato. Poi però, un imprevisto accorcia la visita nella provincia. La madre di Anwari si sente male, e così si corre ad Herat.

 

Dopo tanto viaggiare non poteva non capitare. Avete capito a cosa mi riferisco? La pancia. Ma non sono io ad aver avuto un problema di pancia. Io sto benissimo. Ma a causa della madre di Anwari, che si è sentita poco bene, la giornata a Badghis ha preso una piega differente. Prima di arrivare a ciò, vorrei però raccontare meglio l’ospitalità afghana.

Non appena varco la soglia di casa, come spiegato prima, Anwari mi prende i vestiti sporchi, pulendoli dalla polvere e dalla terra e facendoli lavare restituendomeli la mattina seguente, costringendomi a lavarmi mani e faccia nel cortile, con dell’acqua riscaldata in un pentolino per via del freddo pungente. Mi dà vestiti puliti (con dei pantaloni tradizionali che erano talmente corti da farmi sembrare un religioso accanito – con i pantaloni sopra le caviglie come direbbe il Corano), mi prepara un piccolo riscaldamento elettrico e mi fa sedere nella camera degli ospiti chiedendomi se ho bisogno di mangiare o bere – così portano l’immancabile té, del quale non posso più fare a meno. Usano due termos di tè: il primo contenente solo acqua calda e il secondo il tè concentrato. Quando preparano una tazza, a dipendenza dei gusti, si mette prima il tè e poi si aggiunge l’acqua calda per renderlo più o meno forte. 

Le cose non vanno alla grande per queste persone, che per gli ospiti fanno letteralmente tutto. Eppure nelle case degli afghani, sebbene gli ospiti siano persone da trattare con estrema reverenza, non è facile muoversi. La stanza degli ospiti è il luogo dove devi rimanere, perché uscire da lì potrebbe comportare l’incontro con le donne di casa. Un tabù. Perciò, quando vuoi lavarti i denti, andare alla latrina o uscire, devi prima chiedere, così che le donne abbiano il tempo di ritirarsi. Spesso sei accompagnato. Fa strano, perché devi movimentare una casa intera. E gli ospiti, in Afghanistan, arrivano ogni minuto. 

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La casa di Anwari è molto povera. Si vede che non hanno mezzi. Lui mi dice che ha venduto terreni, macchina e altro solo per pagare la dote per la futura moglie del fratello minore: 800 mila afghani, circa 8 mila euro. Incredibile. La dote, e succede in molti Paesi, è un fardello non indifferente. Le famiglie si indebitano per un matrimonio. Per ora, ne ha raccolti solo 500 mila, gliene mancano altri 300. Perciò la casa ora non ha mezzi. La doccia non esiste, ci si lava nel patio e la latrina è esterna, con un panno posto a mo’ di entrata. In casa c’è una piccola cucina e una sala. Inutile dire che non ho visto di più. Infine la sala degli ospiti, dove dormo con il fratello di Anwari. Mi preparano un toshak, un cuscino sul quale dormire sempre presenti nelle stanze degli ospiti per sedersi. Per terra si dorme bene anche se non sono abituato. Ma qui è tradizione. La cena e la colazione sono molto povere. È un fardello non indifferente sfamare una persona in più. 

È quando si va nei villaggi che ci si rende però conto della vera differenza. Anwari vive a Qala-e-Naw, capoluogo di Badghis e cittadina abbastanza attiva, anche se molto povera. Ha tutti i servizi in casa, come elettricità e fornello elettrico (la linea elettrica che proviene dal Turkmenistan passa da lì). Ma fuori è medioevo. Andiamo a cercare i casi di bombardamenti Nato. Ne troviamo due. Uno in un villaggio vicino a Qala-e-Naw. Per arrivarci con la macchina bisogna attraversare il guado di un fiume scendendo e risalendo. Sarà largo 200 metri. Le case in fango sono in una situazione disastrata. Non hanno i vetri ma dei teli di plastica alle finestre e per terra una semplice stuoia per sedersi. Il gabinetto è una tazza posta nel cortile. La prima famiglia ha perso due figli in un bombardamento. La madre ha perso quattro dita di una mano, e sul piede ha ancora un pezzo di bomba che non ha potuto estrarre perché troppo poveri. Stessa situazione per il figlio, che ha una scheggia vicino al ginocchio. “Bakhoda, ya Allah”, “Per Dio”, esclama a volte la madre per il dolore mostrando i segni. Il marito parla con le lacrime agli occhi mentre suo padre legge il Corano. La casa è distrutta, due figli sono morti. Ora vivono nella casa del fratello. Non hanno i soldi per fare nulla. Da lì ci spostiamo nel mezzo del nulla. Chilometri di sterrato ancora per arrivare a Nawabad. Un luogo introvabile, nel mezzo delle montagne del distretto di Muqur. Qui una scena spaventosa. L’entrata nel cortile di una casa è letteralmente un buco scavato sotto le mura. Un asino è fermo di fronte al pozzo desolato. Il cielo nuvoloso dà un tocco di tristezza aggiuntiva. La casetta è nel mezzo del grande terreno, con piccole strutture in fango per i polli e un tandoor, un forno. All’interno di una delle stanze, è seduta una signora. Non può muoversi. La camera è addobbata di ricami e una stufetta è posta al centro. Parla con molta foga, ha voglia di raccontare. Tutte le interviste si svolgono in pashtun e persiano. Io devo stare al passo e faccio una fatica tremenda. Per fortuna ho registrato, così mi farò aiutare in futuro a tradurre nel dettaglio, ma ora devo sbrigarmela da solo. “L’inglese non esiste a Badghis” dice Anwari. In questa casa sei persone sono morte a causa di un bombardamento Nato. Due bambini sono morti in macchina, con le budella fuoriuscenti, mentre venivano trasportati all’ospedale. Il marito era un talebano e per questo, quando la famiglia è arrivata in ospedale a Qala-e-Naw che durante la guerra era controllata dall’ex-governo, non sono stati curati e sono stati sbattuti fuori: “Siete una famiglia talebana, andatevene” hanno detto loro. Una cosa contro ogni diritto umano, contro ogni ideale medico e umanitario. I civili non hanno colpe. Hanno dovuto pagare un veicolo per andare fino a Herat, a due ore di macchina, e solamente dopo un giorno hanno potuto ricevere le cure necessarie. Inutile descrivere il dolore lancinante delle piaghe aperte e infette dopo tanto attendere.

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Alla fine di queste tragiche interviste, torniamo a Qala-e-Naw. Mangiamo un boccone in una locanda dove tutti siedono attorno a un tappeto di plastica lunghissimo usato per posare le pietanze per terra. Mentre mangiamo il riso con le mani, Anwari riceve una chiamata da suo fratello: sua madre, già malata in mattinata, è peggiorata ed ora è in ospedale. In poco tempo la situazione precipita, e verso le 4 del pomeriggio mi dice di doverla ricoverare ad Herat perché nell’ospedale regionale non hanno i mezzi per curarla. Ne approfitto anche io, visto che devo spostarmi in quella direzione. Anwari non sembra convinto. È in panico totale. Da calmo, bello, affabile, diventa irascibile e nervoso. Mi sento di troppo, un peso. So cosa vuol dire per lui. Se la madre è importante, la sua faccia con l’ospite lo è altrettanto. È combattuto ma io cerco di calmarlo. Gli dico che non è un problema. Mi offro di aiutare. Andiamo all’ospedale per portare la madre in macchina. È molto delicata come situazione. Ci penso due volte. Toccare o non toccare la madre? Ci sono anche i fratelli e la moglie di Anwari. Decido di aiutare attivamente. Portano la madre verso la macchina su di una barella. La mettiamo in macchina. Insieme a noi la moglie di Anwari e suo fratello. Io siedo davanti, Hasina, la piccola figlia, nel baule. La madre urla dal dolore, Anwari è agitatissimo. A peggiorare le cose, quando il tempo sembra contato, è il proprietario del veicolo, prestato solo per la giornata. Non lo vuole lasciare a Anwari per andare a Herat. Non crede alle parole di Anwari. In Afghanistan, nessuno si fida di nessuno. “Sei musulmano? La generosità è d’obbligo, mia madre è malata” grida Anwari al telefono. Ma il suo amico non gli crede. Dobbiamo cambiare veicolo e salire su un taxi. Il propietario del veicolo arriva alle porte della città. Vede la scena. Ma è indifferente. Di fretta, buttiamo le cose nel baule, prendiamo la madre di Anwari e la mettiamo nel nuovo taxi, ancora con la moglie e il fratello. Io e Anwari sediamo insieme davanti, di fianco all’autista sul Toyota Corolla: “zud basha” dice Anwari all’autista. “Vai veloce”, come il vento. 

Il tassista mette la prima, e va a tutto gas. Conosce la strada perfettamente, in ogni buca e in ogni sasso: la percorre da 10 anni. Un po’ è asfaltata, un po’ sterrata. Sono 170 chilometri fino a Herat, di notte e con una nebbia fittissima, il che cambia tutto. Quando prende velocità, sembra che la macchina perda il controllo. Dice di volerci mettere 2 ore. Nel tragitto la moglie di Anwari sta male, vuole vomitare. La madre urla dal dolore, invocando Dio. Io e Anwari siamo stipati davanti, con il mio sedere sul freno a mano e la gamba che ostruisce la mano dell’autista quando vuole cambiare marcia. La schiena fa male, così come le ginocchia contro il cruscotto. La macchina sfreccia, i Talebani ci danno libero passaggio in fretta appena si accorgono della malata. Dopo 2 ore siamo a Herat. L’autista è stato di parola. Andiamo all’ospedale, portiamo la madre al Pronto Soccorso e rimaniamo lì. Gioco un po’ con Hasina per distrarla, lei sorride e si diverte. Anwari si scusa: “Mi spiace così tanto, avevamo preparato una bella cena per te questa sera”. “Non c’è problema Anwari Sahib, l’importante è che tua madre stia bene”.

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Per me è giunta l’ora di andare. Chiamo Kakar, la mia nuova guida per Herat e le province di Farah e Nimruz, più a sud. Mi viene a prendere e mi congedo da Anwari abbracciandolo forte. Una persona stupenda. Lo pago e gli do qualche soldo per il matrimonio del fratello e per il corso di inglese: “Prometti che imparerai l’inglese e io ti prometto che tornerò a trovarti a Qala-e-Naw, forse in primavera, con la fioritura e il verde” gli dico. Ride, emozionato.

Kakar è altrettanto gentile: “Vieni a dormire da me”. Ammetto che, da buon scroccone, non mi lamento se posso risparmiare qualche soldo per l’hotel. Anche se la casa è gelida e Kakar non ha la doccia. Mi dice che mi porterà al bagno pubblico a farmela. “A volte ci vado pure io” dice. La gente, in provincia, non si fa la doccia spesso. La latrina esterna è talmente piccola che non ci sto proprio dentro. Ma mi faccio andare bene tutto. Si deve calcolare che io sono alto 2 metri, quando parlo di spazio, bisogna tenere conto di questo. 

La stanza degli ospiti è sul tetto. Fredda, come la temperatura gelida di Herat, ma accogliente. Dormirò come un bambino sicuramente. E domani è un altro giorno. 

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