“Diari afghani”, il viaggio di Sky TG24 nel Paese in mano ai talebani

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Filippo Rossi

Foto di Filippo Rossi

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture. Un racconto in sette puntate: ecco la prima parte 

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio in sette puntate nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (LA SECONDA PUNTATA - TERZA PUNTATA - QUARTA PUNTATA - QUINTA PUNTATA - SESTA PUNTATA).

Puntata 1, giorno 1 - Provincia di Parwan

“La conosci la Kalima?”

Il viaggio inizia attraverso le valli di Parwan, 100km a nord di Kabul. Lo strano incontro con un talebano.

È già notte. Al checkpoint talebano un mujahid ferma il taxi nel quale viaggio insieme a Nasrat, la guida, e Shamshad, l’autista. Il finestrino si abbassa.

“Da dove venite?” tuona il talebano in Dari. “Ghorband”, risponde Nasrat. “Perché siete andati a Ghorband?” ribatte il mujahid con tono concitato, quasi aggressivo. “Per lavoro, un’intervista” dice Nasrat mentre il talebano, con una lampadina, illumina la mia macchina fotografica posta sul sedile posteriore. “Di chi è la macchina fotografica?”. “È sua”. Nasrat indica me, che lo sto osservando salutandolo con uno sguardo mezzo assonato per l’ora che si è fatta e per la giornata di lavoro passata nelle valli più sperdute dell’Afghanistan. Comincia una discussione assurda. Il mujahid mi scruta per qualche secondo.

 

“È afghano?”

“No, straniero”

“È musulmano?”

Nessun risposta. Il mujahid si innervosisce. Apre la portiera del sedile posteriore, dove sono seduto. Sporge la testa nella macchina chinandosi e mi chiede in persiano: “Capisci il persiano?”. “SÌ” ribatto, un po’ innervosito dalle domande e dall’impertinenza. Mi richiede: “Sei musulmano?”.

“Non rispondo a questa domanda” gli dico. Cosa c’entra?

“Preghi?” insiste, facendo il segno della preghiera islamica con le due mani.

“No, non prego e non sono musulmano” dico. Quando le cose sembrano degenerare, il talebano mi chiede: “Kalimat iad dari?”, “conosci la Kalima?” riferendosi alla kalimat shahada, la frase del Corano che recita “Non c’è altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”, considerata importantissima e essenziale da pronunciare per chiunque voglia convertirsi all’Islam o provare la sua fede. Inutile dire che ne ho abusato centinaia di volte per entrare in moschee, avere favori e godere di pari diritti. Allora, non appena il mujahid mi pone la domanda, ripeto: “La illa illallah muhammadu rasulullah”.

Nasrat, girato verso di me, assiste trattenendo le risate. Io sono serio. Il talebano, impietrito per qualche secondo, si apre in un sorriso, mi dà la mano e dice: “Vedi? L’ho convertito”.

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Giorno 2 - Provincia di Jowzjan – distretto di Qush Tepah

“Non ti arrabbiare, voglio solo scattare una foto”

La prima tappa è a Sheberghan, Jowzjan. Nel nord dell’Afghanistan, ci addentriamo in zone finora irraggiungibili, colpite dai bombardamenti.

 

Alla fine, ho dovuto arrendermi. Ho fatto fotografato unicamente un tandoor, un forno tradizionale, accompagnato da tre paia di scarpette nere sporche di terra e una macchina da cucire con due panni ricamati. Il valore artistico aggiunto per aver intervistato una donna vittima di uno degli innumerevoli bombardamenti della Nato.

Si sa che parlare e fotografare le donne è argomento tabù in Afghanistan, specialmente nelle provincie. Le donne sono per strada sì, ma si coprono il viso e non parlano. Guai a fotografarle, si rischia di scatenare un pandemonio con gli uomini. In tutto l’Afghanistan è così, anche in questo luogo dimenticato da tutti popolato da uzbeki e preso di mira dalla Nato perché rimasto sotto il controllo dei talebani per anni. Siamo a Qush Tepah, nel cuore della provincia di Jozwjan -nel nord dell’Afghanistan, non lontano dal confine con il Turkmenistan. La provincia è famosa per il crudelissimo e corrotto signore della guerra uzbeko Abdul Rashid Dostum, protettore degli uzbeki afghani, e per il buzkashi, un gioco con i cavalli e una carcassa di capra imbalsamata a mo’ di pallone.

Burqa clad Afghan women cross a street in Kabul on August 31, 2021. (Photo by Aamir QURESHI / AFP) (Photo by AAMIR QURESHI/AFP via Getty Images)

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Foto alle donne quindi? No. O ti fai furbo e le fai di nascosto, oppure la gente si arrabbia sul serio. Ogni tanto ci provo. Ma in quanto maschio, devo essere già felice se riesco a parlarci, con le donne. Bisogna inventarsi di tutto per organizzare un’intervista con una donna in provincia: lei si nasconde dietro un muro o una tenda, oppure mette il chadori (il burqa) e dà le spalle. Problema (semi) risolto. Ma poco importa, l’importante per me è sentire cosa ha da dire.

A Qush Tepah quindi, di fianco al forno, mi metto seduto su una coperta poggiata sulla terra battuta sotto il sole che riscalda. Lei, con il chadori, siede a 2 metri. Non ci guardiamo quasi. Ma ci sarebbe comunque poco da vedere. Di fianco, Obaid, il traduttore. Non parla uzbeko, la lingua parlata nella regione. Perciò deve far tradurre a Hajji Zia Khan -un talebano uzbeko che ci accompagna- dall’uzbeko al Dari e poi dal Dari all’inglese. Lei parla, racconta la sua storia. Per riassumere: una bomba Nato ha colpito la sua casa di notte, uccidendo 5 persone fra cui due figli, il marito e due familiari. Tutti sepolti dalle macerie del tetto. Casa distrutta. Tutti, ripete, innocenti.

Americani, Nato, governo, nessuno si è mai scusato. È un caso fra i mille in Afghanistan, di cui poco si parla e pochissimo si sa, e che sto cercando di portare alla luce. Alla fine dell’intervista, terribile, oso porre la domanda catartica: posso scattare una foto della signora con dietro il forno? Iconica anche se banale, visto che ce ne sono in giro tante. Ma molto significativa. Ma Zia Khan si aizza: “Eh no”, dice al traduttore, “digli che è proibito, non si può”. Intanto fa correre in casa la donna nella paura che io scatti una foto di rapina e si alza facendo segno che è tardi.

 

Mi ha fregato sul tempo. Ma non sono così maleducato e non era così grave. Mi rimane la foto della macchina per cucire che usa la signora per lavoricchiare e sfamare i suoi figli. Dopo aver perso il marito, ha dovuto inviare illegalmente in Iran il suo figlio più grande per far sì che mandi qualche spicciolo a casa (cosa molto comune in Afghanistan). Sorrido compiaciuto a Zia Khan, che mi guarda stizzito. Solo dopo mezz’ora si calma e sorride.

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In un altro villaggio, chiedo al marito di una moglie uccisa da un razzo Nato, Haji Akram, se sono il primo straniero a venire: “A parte i soldati stranieri che ci uccidevano, sì, sei il primo” dice. Da andarne fiero. Ma la frase che sento dire a tutti è un’altra: “Siamo felici che gli stranieri se ne siano andati”. Haji Akram mi porta a vedere il cimitero dove è sepolta la moglie. E’ un luogo di rara bellezza. Bisogna arrampicarsi e risalire un sentiero. La vista è stupefacente: valli ricoperte dei colori d’autunno, alberi spogli che si preparano a svernare, e le colline soavi un po’ verdi un po’ brulle accompagnate, sul fondovalle, da una serie di villaggi composti da casolari in fango con le porte variopinte. Pittoresco. Ma Haji Akram guarda la tomba, non il paesaggio. Scoppia a piangere. Io devo fare il mio sporco lavoro: fotografarlo. Ancora, non ne vado fiero. Ma lo faccio. Poi lo consoliamo, lo salutiamo, scendiamo, saliamo in auto. È difficile accettare il fatto che non si possa fare nulla per questa gente.

 

Torniamo verso Sheberghan, il capoluogo della provincia. Sono solo 100km. Ma per farne 50, ci vogliono 2 ore. Si possono immaginare le condizioni della strada. Jabbar, l’autista, muove il volante come se fosse in un autoscontro al luna park da quanto si balla per la strada piena di buche e pietre. Sono finito in capo al mondo per davvero. Un luogo talmente remoto che sicuramente sono più le bombe Nato sganciate sui villaggi che il numero di automobili presenti. E non penso nemmeno sia il più dimenticato del paese. Per strada ci fermiamo varie volte. Devono pregare tutti. Non si arriva mai. Qaundo cala il buio, ecco Sheberghan. Davanti a un piatto di Qabuli Palaw, il piatto nazionale fatto di riso, uvette, carote e carne di montone, cominciamo a parlare con tutti per capire dove trovare altri casi per domani. Quelli di oggi sono solo piccoli incidenti. Irrilevanti, per la Storia. Ma una storia ripetuta. 

epa09425835 People line up to board a military aircraft as they are evacuated at Hamid Karzai International Airport, in Kabul, Afghanistan, 23 August 2021. An Afghan policeman was killed on 23 August in a gun battle between security forces and unknown attackers at the North Gate of the Kabul airport, the German military said, amid ongoing chaos at the airport as thousands try to flee Taliban rule.  EPA/STRINGER BEST QUALITY AVAILABLE

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