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“Diari afghani”, la seconda puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese in mano ai talebani

Mondo

Filippo Rossi

Durante gli ultimi mesi, il reporter e collaboratore di Sky TG24 Filippo Rossi ha percorso più di 4mila chilometri in macchina attraverso l’Afghanistan per raccontarne le diverse sfaccettature. Un racconto in sette puntate, tra aneddoti, fotografie e mappe. Ecco la seconda parte

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (QUI LA PRIMA PUNTATA).

Puntata 2, giorno 3 - Provincia di Sar-e-Pul, distretto di Sayad

“La sfortuna di nascere mancino”

Da Sheberghan, Jowzjan, si entra a Sar-e-Pul, provincia non lontana e fuori dai radar.

 

Sono nato mancino. Ne sono orgoglioso. Ma non è ovunque una cosa positiva. In Afghanistan, ma non solo, è la mano considerata “sporca”. Per ovvi motivi. Ho un problema visto che si mangia quasi sempre con le mani. Pur conoscendo l’usanza, nessuno mi ha mai detto nulla fino ad ora, quando un uomo, in un ristorante di Sar-e-Pul, piccola cittadina sperduta nel nulla, mi continua a fissare. “Cosa vuole questo?” mi sono chiesto. Conosco anche chi, dopo svariati secondi con gli occhi puntati addosso, gli avrebbe girato letteralmente la testa con le mani. Dopo qualche esitazione, chiede: “Ma sta mangiando con la sinistra?” e Obaid, la guida, risponde: “Si è mancino”. Mi sono messo a ridere, anche se mi ha fatto capire quanto sia rilevante in questa cultura. “Ecco perché siamo arretrati” – esclama Obaid interrompendo il mio pensiero – “Perché invece di pensare ad evolversi e studiare, qui pensano ancora a chi mangia con la mano sbagliata”.

Questo è stato l’inizio divertente di una giornata infinita che ci ha portati fino al distretto di Sayad, in mezzo al nulla (tanto per cambiare). Un luogo paradisiaco ma dove ancora non è arrivata la connessione del telefono e l’elettricità. Ci muoviamo in 5. Io, l’autista Jabbar, Obaid più un giovane talebano silenzioso - il quale non ha idea di dove siamo- e un locale che parla il turco. Dopo aver vissuto 5 anni a Istanbul (illegalmente come la maggior parte degli afghani che fuggono per trovare qualche spicciolo in più) è stato deportato ed è tornato a Sayad, il suo distretto natale. All’inizio non voglio farlo salire in macchina, soprattutto per avere più spazio e immaginandomi la strada. Ma si rivela provvidenziale. Per dare un’idea di dove arriviamo, è come essere in un labirinto di strade sterrate, guadi o prati, in mezzo a colline brulle, verdastre, insieme ad asini, pastori e pecore. Alcuni contadini arano campi sulle pareti delle montagne, oppure portano le provviste per l’inverno in grotte scavate nella roccia. E Faiz, il rinnegato turcomanno, conosce tutto a memoria. Meno male. Alla fine, è simpatico.

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"Diari afghani"

Chiacchieriamo. Io con il mio turco maccheronico mischiato al persiano. Lui con un accento uzbeko persiano incomprensibile. La macchina di Jabbar, a 10 km/h, sale e scende dalle colline. Sembra un deserto di dune rocciose. Il posto è soprannominato “Registan”. Capisco il perché: è semplicemente troppo bello. Dobbiamo raggiungere il villaggio di Ashdabala. Ci vogliono le solite 2 ore e mezzo di sterrato per fare 50 chilometri. Senza contare la polvere. Ne sto mangiando troppa. Passiamo attraverso villaggi rimasti a un’altra epoca, dove la gente vive in maniera tanto semplice e genuina. Acqua dal pozzo, asinelli, qualche motocicletta e la cosa più bella, il cibo fresco. Altro che chilometro zero. Delizioso. Nei villaggi si mangia benissimo. Si sente la differenza. Non tutti sono d’accordo, molti avrebbero la dissenteria. Ma io ci sono abituato. Le condizioni, in effetti, sono molto spartane. La gente è poverissima e l’igiene passa in secondo piano. Soprattutto nelle province come Sar-e-Pul, dimenticata da tutti. Come spesso accade in Afghanistan però, le province neglette non sono state dimenticate dalla Nato, che anche qui ha mietuto vittime. Solo 7 mesi fa, una casa abitata da tre famiglie è stata bombardata senza un vero motivo. Non c’erano talebani, non c’erano pericoli né guerre. Arrivo alla casa bombardata a bordo di una motocicletta, insieme a uno dei sopravvissuti che mi accompagna. Voglio andare in moto per scattare qualche foto, ma scivolo continuamente e non riesco a stabilizzarmi. Per sicurezza, gli afghani mettono sopra il sellino una coperta in lana, nel caso in cui debbano fermarsi la notte da qualche parte. Ma così si scivola troppo. “Engineer Sahib” mi chiama il ragazzo al qale mi aggrappo con una mano mentre cerco di scattare una foto. “Signor ingegnere”, “sette sono morti, otto feriti”. Sono sordo, specialmente con il vento e il rumore della moto. Perciò, ogni volta: “Che hai detto?”. Obaid, rimasto in macchina con gli altri, dice che tutti ridevano per il fatto che fossi saltato sulla moto. Aver visto uno straniero era già di per sé un evento. Se poi salta sul sellino di una moto diventerà argomento di conversazione per mesi. “La gente del villaggio è abituata a vedere gli stranieri arrivare con macchinoni blindati e fare il minimo sforzo. Non si aspettavano di vederne uno balzare su una moto come loro”. Fa riflettere, anche perché non ho fatto nulla di eroico.

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Nel cortile della casa, i segni della bomba. Si riuniscono i familiari e gli immancabili curiosi, venuti ad assistere alla provvidenza dello straniero arrivato in paese. Le donne filano in casa, anche se poi posso intervistarne alcune con il consenso degli uomini. Fra loro Khalida, 7 anni. Ha perso il suo piedino: “Vorrei tanto averne uno nuovo per giocare con le mie amiche” dice mettendosi la mano di fronte alla bocca in segno di timidezza. Mentre parla, i bambini del villaggio si affacciano per spiare la conversazione, arrampicandosi sui muretti in pietra. Khalida ha la gamba ricoperta da un panno. Una sciarpa che le permette di poggiare l’arto monco per terra ed evitare di ricordarsi quanto successo ad ogni passo che fa. Per mostrarmi la cicatrice, se lo toglie. Non è il primo caso che vedo. Ma questo mi tocca talmente tanto che vorrei poterle trovare una protesi e permetterle di vivere un futuro meno duro. Costa 900 dollari, cifra inarrivabile per loro. Appena arrivo in terra conosciuta, contatto la Croce Rossa per sapere se fanno protesi. 

 

(Mentre pubblico questo diario, Khalida ha già superato la prima visita medica alla Croce Rossa di Mazar-e-Sharif, e fra qualche giorno dovrebbe ricevere la sua protesti grazie ai medici e a Obaid che l’ha aiutata - anche se abbiamo dovuto insistere non poco per farla arrivare in città, lontana).

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Al ritorno siamo stanchi morti. Pieni di polvere. In cima a una collina scorgiamo un panorama mozzafiato. Sembrano dune con in fondo le Alpi innevate: la tentazione di cominciare a correrci è stata fortissima. Ci scattiamo un paio di selfie mentre Obaid, Faiz e il Talebano si divertono a sparare qualche colpo di AK-47 nel nulla più totale, ascoltando il sibilo del proiettile disperdersi fra le valli. “In Afghanistan bisogna provare di tutto” dice Obaid sorridendo. Al calar del sole avvistiamo nuovamente l’asfalto. È finita anche per oggi. Un giorno lungo, duro, ma stupendo e entusiasmante. Sul finire, dopo aver pulito la macchina e i vestiti impolverati, assisto all’ultima scena che fa riflettere: checkpoint  talebano. Fra i vari mujahidin, anche un bambino con un fucile in mano. Avrà sì e no 13 anni. “Multi tasking” commenta Obaid. Tradotto: non serve solo a combattere ma anche come compagnia della truppa. È solo una supposizione. Ma non così improbabile.

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Giorno 4 - Provincia di Faryab – distretto di Gharziwan

“Lo giuro, io non faccio mai casino”

Da Sar-e-Pul, dormendo l’ultima notte a Sheberghan, ci spostiamo verso Faryab, provincia vicina situata a ovest, raggiungendo in un giorno un villaggio chiamato Gharziwan e assistendo a uno spettacolo di colori mozzafiato in un mercato settimanale. 

 

Vogliamo parlare di casini? Mi lamento sempre, ma in questo caso sono sicuro che molti si lamenterebbero ancora di più. Chi fa il mio mestiere, o chi lo ha fatto, sa bene cosa significa viaggiare in queste condizioni: gente inaffidabile, informazioni sbagliate, perdite di tempo inutili, viaggi interminabili, un continuo contrattare per ogni “cazzata” (perdonate il francesismo), litigate memorabili dovute alla tensione … Di sfide, ne potremmo elencare ancora altre. Le chiamo sfide perché sono, dopotutto, esperienze arricchenti. Ma sono solo il contorno perché poi bisogna dimenticare tutto e lavorare.

 

Stamattina ci svegliamo alle 4. Partiamo da Sheberghan, per arrivare a Maimana, il capoluogo della provincia di Faryab. Tre orette, niente di che. Strada poco asfaltata e poco accidentata, a parte le buche sul lato esterno della careggiata lasciate dalle bombe che i talebani facevano esplodere quando passavano i convogli Nato o dell’esercito afghano (chiamate in inglese Roadside bombs). Ma a Maimana non è finita: ancora altre tre ore di strada per arrivare a Gharziwan. Sapete dov’è? Nemmeno io. Non sappiamo dove andare, anche se posso vedere il puntino sul gps del telefono. Ma le strade sono inesistenti. Ancora una volta nel mezzo del nulla. Perciò a Maimana paghiamo un signore perché ci accompagni. Un mercante, che si fa la giornata così. Settantacinque km di sterrato infinito, salendo e scendendo per le montagne. La strada a volte sembra scomparire, mimetizzandosi fra le rocce. Sorprendentemente la Toyota Corolla (non un 4x4) di Jabbar sale ovunque e non molla un colpo - anche se la batteria a volte cede facendomi presagire il peggio e il motore soffre. Vogliamo parlare delle difficoltà di avere un’avaria del motore in queste condizioni? La Corolla però non molla. Si inerpica su “strade” che sembrano più pareti rocciose, o sentieri per la corsa in montagna. Supera buche e cunette. La polvere è davvero troppa. Siamo ad altri livelli rispetto a prima. Siamo letteralmente sommersi tanto che i vestiti si ingrigiscono e i capelli si incanutiscono. Il mio peran tomban (il vestito a due pezzi tradizionale) blu è a macchia di leopardo.

 

Questo è solo uno dei problemi da affrontare. Il tempo è un altro fattore. Si pensa sempre di avere molto tempo a disposizione per lavorare, ma la maggior parte la si passa seduti in un’auto o ad aspettare. E non appena si arriva in loco, fanno tutti pressione per ripartire. Da impazzire. Devi essere rapido e concentrato. Cinico direi. Più complicato ancora quando non si mangia, non si beve e non si dorme. Ma bisogna essere sempre al massimo delle energie per scrivere, parlare, creare, immaginarsi le domande e condurre le interviste nelle situazioni più improbabili. Nei luoghi più improbabili. Tra l’altro, ieri ho rotto il microfono. È già il secondo in meno di due mesi. Pezzi di plastica delicati che si pagano come oro. Quindi dovrò ingegnarmi con del nastro adesivo per stabilizzarlo. Sono queste le sfide che mettono a dura prova la pazienza. Ma a stremare è soprattutto il modo di fare che le guide in Afghanistan hanno con la preparazione delle storie. Frase tipica: “Andiamo sul posto e vediamo”. Certo, come no. Tre ore di macchina su una strada terribile per arrivare e non trovare nessuno? Saggio. Ma anche se lo dici e lo ripeti, non serve a nulla. Succede sempre tutto all’ultimo momento. “Ormai conosci come funziona” mi dicono. Sì è vero, ma ancora non mi ci abituo. E a Sar-e-Pul non ci ho più visto quando, alla base talebana, il comandante non c’era e nessuno poteva darci il permesso di continuare. Ho sbottato con il povero Obaid: “Ecco vedi? Ora non ho nulla in mano” E lui: “cosa vuoi che faccia?”. Ma poi tutto è andato più che bene. 

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Quando, dopo sei ore di macchina, giungiamo infine a Gharziwan, una località ancora uzbeka nel mezzo di una vallata desertica, succede proprio così. Io, sepolto dalla polvere, voglio solo sgranchirmi le gambe. Jabbar, non appena scendiamo dall’auto, mi sbatte contro la sciarpa che usa per pregare, cercando di togliermi la polvere di dosso. Si fa per dire, visto che è letteralmente troppa. Ma almeno ho delle parvenze umane. Attraversiamo il bazar. Oggi è giovedì, giorno di mercato: furgoncini caricano passeggeri, capre, valigie, motorini in direzione di Ghor, una provincia ancora più remota. La gente vende di tutto, comprese un set di stufe tradizionali nuove di zecca per l’inverno rigido. Sopra le colline desertiche, le cime delle montagne dell’Hindu Kush sono già bianche: la neve si avvicina e l’aria fresca la fa presagire. I colori del bazar sono spettacolari. Forse fra i più affascinanti che abbia mai visto. I vestiti colorati della gente, il chadori (burqa) delle donne azzurro che è in contrasto con la terra marroncina. Le tende dei negozietti, i tappeti e i tessuti esposti vicini alla frutta di stagione e ancora i falegnami che fabbricano finestre e porte per i casolari in fango, venditori di popcorn e macellai. Nel mezzo asini, mucche, pecore. 

Non si va a Gharziwan senza un motivo. È talmente remoto. Infatti, ci siamo arrivati per un caso di bombardamento Nato: tredici morti questa volta. Una sola famiglia. Sopravvissuti: padre, madre e due figli. Incontriamo il padre nel cortile della casa in macerie. Ora vive in un altro luogo. Mi racconta di come sia successo, di come lui si sia salvato per miracolo insieme alla moglie. Ma è disperato. Mi racconta che uno dei figli si era arruolato a 14 anni con i talebani, contro il suo volere. E, visto che la sua casa era sotto il controllo del governo, il comandante dell’area aveva voluto vendicarsi, distruggendogli la casa e dando le coordinate ai jet americani che in un battibaleno hanno spazzato via con 4 bombe tutto quello che avevano. Una semplice vendetta locale. Un disastro umano. 

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Mentre parlo e chiedo, il tempo sembra volare. Jabbar fa pressione per tornare dicendo che la strada è pessima e che presto sarà notte. La gente si esprime male, non si capisce, mischia l’uzbeko con il dari. Perdiamo tempo con queste sottigliezze. Forse sono io il casinista. A volte me ne rendo conto.

Tornati a Maimana, quando è già notte e noi siamo distrutti, ultimi problemi da risolvere: trovare un hotel. Se ci fosse … Dormiamo per terra in un ristorante, due coperte e via. Ci portano un delizioso piatto di Palaw dopo una giornata di digiuno e dieci ore passate in macchina. Per la doccia, c’è solo acqua fredda. Andrà benissimo per rigenerarsi anche se nell’edificio fa piuttosto freddo. Domani devo partire alle 4 del mattino in direzione Qala-e-Naw, provincia di Badghis. Forse una delle provincie più disastrate, remote e dimenticate del paese. Penso di non aver visto ancora nulla. Sarà ancora peggio e più imprevedibile. Tratto il prezzo con un autista di un mezzo pubblico: da 140 dollari, io gliene do 30. Dicono che la strada è pessima ed è per questo che costa così tanto. Sono curioso. 

Domani mi separerò da Obaid e Jabbar. Torneranno a Balkh, casa loro. A Qala-e-Naw mi aspetta Anwari, un nuovo fixer locale. Non lo conosco, tutto è alla cieca. All’avventura. Forse è questo il brivido di questi viaggi, buttarsi nell’ignoto. Io, me e l’Afghanistan. La cosa incredibile è che, per la prima volta, potrò salire da solo su un mezzo pubblico afghano. 

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