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“Diari afghani”, la sesta puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese

Mondo

Filippo Rossi

Durante gli ultimi mesi, il reporter e collaboratore di Sky TG24 Filippo Rossi ha percorso più di 4mila chilometri in macchina attraverso l’Afghanistan per raccontarne le diverse sfaccettature. Un racconto in sette puntate, tra aneddoti, fotografie e mappe. Ecco la sesta parte

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (QUI LA PRIMA PUNTATA - SECONDA PUNTATA - TERZA PUNTATA - QUARTA PUNTATA - QUINTA PUNTATA).

Puntata 6, giorni 11 e 12 - Provincia di Uruzgan

“Sensazioni”

Dopo l’arrivo a Helmand proseguo per Kandahar che segna la seconda grande tappa del viaggio. Qui incontro Razmal, la mia nuova guida, che, dopo una notte di sonno, mi accompagnerà a Uruzgan, una provincia a 4 ore di macchina poco conosciuta ma centrale e storica perché è qui che, nel 2001, iniziò parte dell’invasione.

 

Di solito riesco a rimanere impassibile. Distaccato. Ma oggi devo trattenere le lacrime sul serio. Devo girarmi dall’altra parte e non guardare per alcuni secondi prima di prendere coraggio e scattare due foto. Siedo su una stuoia di plastica in mezzo a un campo coltivato. Con un paesaggio suggestivo alle spalle, le montagne all’orizzonte, alberelli spogli che spuntano dai campi incolti. La stuoia è posta di fianco a una casa di contadini. Portano due toshak (cuscini) dalla casa per accomodarci meglio. Ci offrono il Ghorme Daudai, il pranzo in pashtun. Pane sottile, cucinato nel tandoor tradizionale, con un piatto di bamya (una specie di piccola zucchina deliziosa) cucinata in salsa di pomodoro. Semplicissimo, buonissimo. Portano il classico bicchiere d’acqua ma non bevo. Qui rischio sì la dissenteria. Il mio caro amico Fabio diceva sempre: “Try hard but not too hard”. Insomma, non esagerare. Vale per la corsa a piedi e qualsiasi sport di resistenza, ma anche in questi casi. Poi i contadini cominciano a parlare. Come al solito parlando uno sopra l’altro: nella zona, molti soldati australiani del contingente Nato hanno bombardato. Hanno ucciso tanto. Ognuno mostra le sue ferite di guerra. Mostrano quelle indelebili sui bambini. Alla fine, fanno uscire un ragazzino di circa 15 anni, handicappato. Trema, cammina claudicante; è perso, con la bava alla bocca. Emette dei versi strani. La sua mano si muove senza il suo controllo. È così da quando una bomba Nato è caduta sulla sua casa. Era un bambino normale prima. Lo aiutano a camminare, si avvicina, va verso Razmal che prega. “Fai una foto” dicono. Non ce la faccio. Mi si spezza il cuore. È in questo momento che fatico a trattenermi. Ma non si piange mai in pubblico in questo lavoro. Piangi dopo, quando nessuno ti vede e nessuno ti sente. Non è professionale e non è il caso.

Tutto questo succede nella provincia remota di Uruzgan, 150 chilometri a nord di Kandahar, ma per arrivarci ci vogliono 4 ore e mezza di strada sterrata in condizioni pessime e asfalto sconnesso da continue buche dovute alle centinaia di bombe che l’hanno distrutta. Non penso di raccontare nulla di nuovo.

approfondimento

“Diari afghani”, la quinta puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese

afghanistan

Uruzgan è una provincia particolare. La provincia di Hamid Karzai, un popalzai (una tribù pashtun), il primo presidente dell’ormai inesistente repubblica islamica. Ha iniziato qui la sua “rivoluzione” combattendo i talebani nel 2001, sostenuto dalla CIA. Invase la regione con un gruppo di fedelissimi, lanciandosi da un elicottero. Fallendo la prima volta e riuscendoci la seconda. Una storia avvincente che approfondirò.

Ma Uruzgan è anche una provincia dimenticata completamente e poverissima. Nelle campagne le persone vivono proprio allo stato brado. Non hanno nulla. Un segno che mi fa capire che le persone sono allo stremo sono i capelli: hanno i capelli tagliati davvero con una scodella, perché non possono permettersi un parrucchiere. Un tratto che non avevo nontato da nessun’altra parte finora. È una semplice costatazione personale. Ma si vede anche dal fatto che non ci sono le finestre ma solamente teli di plastica attaccati al muro di fango. Sono analfabeti. Faticano a comunicare. Vivono letteralmente nel fango e negli escrementi di animali. Questa è la vera campagna afghana.

Per arrivarci partiamo alle 6 del mattino da Kandahar. Alle 11 entriamo a Tarin Kot, il capoluogo della provincia. Lungo la strada, Razmal mi racconta alcuni aneddoti di guerra, una guerra che ha raccontato come reporter di Shamshad Tv, la principale emittente privata afghana in pashtun.

I distretti del nord di Kandahar, come Arghandab, sono stati molto colpiti. “Venivamo spesso a filmare” dice, “sia i talebani che il governo ci davano il permesso, ma da lontano. Una volta, guidando, un cecchino ci ha bersagliati. Il proiettile è passato attraverso il finestrino posteriore” racconta guardandomi, e strappandomi un sorriso. Razmal è un tipo molto tranquillo e molto organizzato. Sono in ottime mani. Gli si dice una cosa e quella è. Aria invece guida la macchina. È un po’ lento. Detesto. Voglio proporgli di guidare io. Ma preferisco sedermi, mettermi comodo e meditare un po’. I nervi saltano facilmente quando da giorni non si dorme e si viaggia  in condizioni stressanti per ore e ore.

A Tarin Kot è pieno di mujahidin che controllano le strade. A quanto pare c’è una riunione importante. Incontriamo Janisar, un giornalista locale che parla un inglese buonissimo e prepara tutto alla perfezione. Come al solito voglio fare tutto, ma non ce ne è il tempo. Partiamo alla volta del primo caso: una donna rimasta vedova del marito, ucciso nella sua auto da un missile Nato. La bomba è esplosa a 200 metri da casa e i suoi bambini, quando sono usciti, hanno visto il padre bruciare vivo. “Porterò a casa dei regali per i bimbi” è l’ultima cosa che le aveva detto quella mattina. Era un tassista innocente. Non l’ha mai più rivisto. Oggi lei vive con il fratello del marito e la sua famiglia. Per sopravvivere deve lavare i vestiti e cucinare, in cambio dell’ospitalità. L’intervista si svolge in uno scenario particolare: seduti su una coperta all’esterno, grazie al sole ci saranno 20 gradi, tra un vitello che muggisce, uccellini che canticchiano, galli e galline che errano nel cortile vuoto, pieno di fango e escrementi di animali. In un angolo, un pozzo per l’acqua e il tandoor, il forno. La casa ha le finestre di plastica. Le scatto una foto.

Ci spingiamo più a nord nella valle, fra coltivazioni infinite. È qui che incontriamo la famiglia di cui parlavo prima. A pochi metri di distanza, decine di casi di bombardamenti su civili innocenti. Molti hanno perso una, due, tre, cinque o otto persone nelle proprie famiglie. Senza contare i feriti. Sembra essere, ironicamente, un segno di riconoscimento in tutto il paese.

Ma il caso più impressionante è l’ultimo della giornata. Dopo aver parlato per ore, è quasi il tramonto. Per gli afghani, oltre ad essere il segnale del maghrib, la preghiera serale, significa anche la fine della giornata lavorativa. Un po’ perché non c’è elettricità, un po’ perché vige ancora il regime di guerra. Con la notte, si scappa in casa perché è pericoloso. Ma io li tengo tutti fuori. Siamo una squadrona. Mi porto appresso una corte di 6 persone. Troppi imbucati e curiosi. Ma sempre molto gentili.

Arriviamo in un villaggio sull’altra sponda del fiume, di fronte a Tarin Kot. Camminiamo nei campi per arrivare alle case e passiamo nel cortile di una moschea stupenda. Le finestre dipinte di giallo, con di fronte una specie di pozza artificiale attorniata da pezzi di razzi pitturati a mo’ di opere d’arte. Lo trovo bellissimo. Di fianco, la casa della famiglia di Hamidullah. Nel 2013, 50 soldati australiani hanno fatto irruzione in casa sua, nel cuore della notte. Lui aveva solo 14 anni. Hanno buttato giù  dal letto di peso suo padre, l’hanno portato fuori nel cortile e gli hanno sparato alla testa. Due dei suoi fratelli, di 4 e 6 anni, sono corsi verso il padre. Gli australiani però hanno giudicato che fossero troppo minacciosi, freddando anche loro con un colpo in testa. Tutti sono stati picchiati. Lo zio, nella casa a fianco, è stato torturato nella vicina base con l’elettroshock. Lo hanno rilasciato dopo 6 ore solo perché la famiglia è parte dei popalzai, la tribù alla quale appartiene anche Hamid Karzai. Dopo due giorni, gli australiani hanno comunicato alle forze afghane che avevano commesso un errore: “Oops scusate, abbiamo sbagliato, qui nessun talebano. Ciao”. Giocare a fare “Rambo” può finire male.

La giornata, lunga ma interessante, termina con questa storia. Dormiremo nella stazione radio di Janisar, in una saletta dove alcuni colleghi guardano i video musicali sudamericani in tv con le ragazze che sculettano. “Ooooo” faccio partire la Ola. Ridono. La stufa riscalda. Si gioca a carte, si chiacchiera, poi, verso le 10, si spengono le luci e si dorme.

approfondimento

“Diari afghani”, la quarta puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese

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Giorni 14 e 15 - Provincia di Ghazni

“Questioni di ospitalità”

Dopo Uruzgan faccio rotta verso la capitale, a nord, passando per Kandahar e fermandomi a Ghazni, a soli 200 km da Kabul. Sulla strada mi fermo a Qalat, provincia di Zabul, dove mi congedo da Razmal per raggiungere a bordo di un taxi i colleghi con i quali terminerò il viaggio: Andalib, Zahid e Luca Steinmann, arrivato a Kabul qualche giorno prima.

 

Taqlif, taqlif, taqlif. Sento questa parola troppe volte. Non mi rendo conto di cosa significhi e così chiedo ad Andalib: “Ma perché continui a dire taqlif?”. Andalib risponde: “È un modo per scusarci della fatica che infliggiamo a chi ci ospita. È come dire che dispiace molto per la sofferenza arrecata dalla nostra presenza”. In effetti è proprio così: visto che in Afghanistan l’ospite è sacro, le famiglie che accolgono gli si dedicano al 100% per rendere il massimo in tutti i servizi. Quasi troppo, visto che ignorano o trascurano la propria famiglie e i propri bisogni. Appena la tazza di tè è mezza vuota, qualcuno la riempie immediatamente. Se vuoi andare in bagno, ti accompagnano e ti aspettano. Ti danno il posto più vicino alla stufa. Preparano da mangiare, offrendoti il meglio e dormono insieme a te in segno di rispetto. Ogni casa ha la propria stanza adibita agli ospiti. In effetti sembra essere più un peso che un piacere e si fa lavorare una famiglia intera anche perché tutti gli uomini siedono nella stanza insieme a te chiacchierando, apparecchiando, sparecchiando, mentre le donne cucinano e preparano. Solitamente i più giovani portano le coperte, il cibo, la bacinella e il vasetto per lavarsi le mani.  

Durante questo viaggio ho sperimentato più volte questo lato umano, ma anche esagerato, degli afghani. Non mi va di abusarne, ma posso dire che è un vantaggio, soprattutto per non dormire in hotel fatiscenti e per imparare qualcosa di nuovo.

La prima notte a Ghazni dormiamo a casa della famiglia di un conoscente di Zaheed. Ci trattano come dei re. Nella stanza, riscaldata da una stufetta, la notte fa molto freddo. Ghazni è a 2200 metri di altitudine. La notte gela e le case non sono riscaldate.

La seconda notte invece cambiamo casa. Scroccare va bene, ma senza esagerare e senza rimanere più di una notte. Quindi cambiamo casa, andiamo da un altro amico di un amico di Zaheed, sempre a Ghazni. Ma ci sono difficoltà per lavorare. Hanno i pannelli solari e non si possono ricaricare le batterie. Internet invece è inesistente. Lavorare è difficile in questi contesti. Mi sento maleducato perché non passo del tempo con la gente, ma a volte bisogna fare eccezioni.

La giornata è produttiva. Usciti di casa incontriamo una famiglia che ha perso 16 membri per un bombardamento Nato, proprio alla periferia della città. Facciamo tutte le domande che dobbiamo fare, cercando di ricostruire gli avvenimenti. È sempre difficile perché le persone dicono una cosa, poi si contraddicono. Bisogna fare molta attenzione e cercare di corroborare con domande incrociate. E così spuntano elementi interessanti. Con il collega Steinmann come spalla, è più facile perché le domande sono differenti e si completano a vicenda.

Dopo l’intervista vengo a sapere che Razmal, sulla via del rientro a Kandahar, ha fatto un’incidente con Aryan. Per fortuna niente di grave ma la macchina è tutta rotta. Che beffa. Gli mando gli ultimi 100 euro che gli devo, andando al mercato e cambiando del denaro che poi un’agenzia gli invierà a Kandahar. La moneta locale, l’afghani, è crollato. Qualche mese fa oscillava fra i 75 e gli 80 per un dollaro. Oggi è a 110. Un disastro per l’economia del paese.

Ma la parte più interessante della giornata è la corte d’appello cittadina sotto il controllo talebano. Prendiamo i permessi per entrare e intervistare i giudici talebani. Il tribunale penale ha riaperto a Ghazni e in altre provincie afghane, con nuovi schemi e nuove regole. Intervistiamo il supervisore, uno dei giudici. Ci racconta di come la legge islamica sia applicata, di come le vecchie leggi consone con l’Islam saranno mantenute e le altre eliminate. Il tutto in uno scenario particolare: un talebano mi filma con il suo smartphone mentre tiene il dito puntato sul grilletto del suo AK47 con l’altra mano. Come se fossimo pericolosi. Ma quando lo guardo, sorride. Che sensazione strana. Si vede che hanno ancora la mentalità di guerra. Entrano ovunque con i fucili. Nei ristoranti, dai parrucchieri, nei negozi. Per loro è normale. È chiaro che un fucile può essere pericoloso in mani sbagliate, ma loro sono sicuramente capaci. Non lo fanno perché sono aggressivi. È un’abitudine. Nell’esercito ci dicevano sempre che il nostro fucile era come la nostra donna. Per fortuna ne sono uscito in fretta.

Il responsabile della corte ci interrompe per la preghiera. “Posso farle una foto mentre prega?” gli chiedo. Mi sorride. È no. Peccato, sarebbe stata una bella foto. Mi accontenterò dell’intervista.

Torneremo domani per finire il lavoro. Accetta, felice di sbarazzarsi di noi. Per ora.

Cerchiamo un luogo dove mangiare. Tutto chiude in fretta e alle 6 Ghazni è una città fantasma. Poi entriamo nell’unico hotel decente della città. Hanno solo 3 piatti di palaw e un po’ di kebab. Mangiamo quel che c’è poi andiamo nella casa dell’amico di Zaheed. Devo andare in bagno. Lo stomaco grida vendetta. Ma anche qui, niente toilette. All’aperto, in strada. Che freddo. Il figlio del padrone mi da un vasetto con dell’acqua calda e mi indica dove andare. Un’altra latrina a cielo aperto. Questa volta con il percorso a ostacoli. Ma mi sono abituato anche a stare seduto come fanno loro. Rientro tutto infreddolito nella stanza riscaldata da una stufetta. Bisogna lavorare. Panico. Non c’è internet. Non riesco a comunicare con la redazione televisiva. Mi innervosisco perché avevo una connessione ottima in città e in casa è un disastro. Pazienza, non posso farci nulla. Faranno a meno di me.

Sorseggio il tè e mi preparo a domani. Sono sporco e stanco morto. Ma almeno il mio collega Luca mi sostiene e mi fa divertire.

approfondimento

“Diari afghani”, la terza puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese

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