Durante gli ultimi mesi, il reporter e collaboratore di Sky TG24 Filippo Rossi ha percorso più di 4mila chilometri in macchina attraverso l’Afghanistan per raccontarne le diverse sfaccettature. Un racconto in sette puntate, tra aneddoti, fotografie e mappe. Ecco la quarta parte
A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (QUI LA PRIMA PUNTATA - SECONDA PUNTATA - TERZA PUNTATA).
Puntata 4, giorno 7 - Città di Herat
“La doccia”
Problemi, scuse, e rinvii ad Herat. La vita di città, più confortevole, mi aiuta a ritrovare energia – anche grazie a una doccia rigenerante.
Mi sveglio mezzo malato. La stanza sul tetto è gelida. Ho dormito su un toshak (un cuscino allungato), con due coperte pesanti. Kakar si è svegliato alle 5 per la preghiera, l’ho sentito bisbigliare, ma poi è tornato a letto. Esco al freddo, mezzo addormentato, per lavarmi i denti e la faccia. Il cielo è limpido ma rende la temperatura ancora più bassa.
Non importa. Pensavo che, arrivato ad Herat, le cose sarebbero cambiate in meglio con l’organizzazione. Invece mi sono trovato a risolvere problemi logistici ancora più fastidiosi (oltre a un mal di schiena che comincia ad essere veramente fastidioso e continua a peggiorare). Kakar è una brava persona ma ambigua. Non parla chiaro e quindi mi fa perdere tempo: ho dei lavori da fare, ho delle cose da sbrigare. Questi sono gli imprevisti più irritanti di questo lavoro: le cose cambiano all’improvviso perché la gente fa di testa sua. Dovevamo partire la mattina, ovvero domenica, per Shindand, il distretto a sud di Herat nel quale, durante l’occupazione Nato, decine di civili sono stati macellati. Dice di aspettare lunedì. Non capisco perché. Ok, va bene, lavoriamo su altre storie nel frattempo. Non c’entrano con i bombardamenti Nato ma sono altrettanto terrificanti. Andiamo alla periferia di Herat: gente che per ripagare debiti ha venduto il rene oppure una famiglia che ha venduto la propria figlia o che è pronta a farlo. Storie disperate.
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Intere famiglie in tende da campeggio su uno sterrato adiacente alla strada principale, fra escrementi umani, cani randagi, e passanti. Non c’è privacy, non c’è nessun tipo di servizio igienico. Sono migranti arrivati da Badghis, Ghor, province talmente povere che non hanno nemmeno l’accesso all’acqua. Mi si spezza il cuore, ma devo filmare. Tutti mi seguono, pensando che sia venuto per aiutare: “Doktur sahib”, “signor dottore”, “ho male qui”, “ho male là”, “ho mia figlia ustionata da mesi e nessuno la cura”, e mi mostra i segni sulla pelle della bambina, realmente ustionata in modo grave e mai curata per mancanza di denaro. Un altro padre prende la figlia di peso: “Eccola. La vendo al miglior offerente così possiamo sfamarci”. La moglie annuisce. Altri lo hanno già fatto. E da tempo. La bambina mi guarda ignara, sorridente, innocente. Fa le smorfie al suo fratellino. Da lì ci spostiamo in un altro villaggio, dove giovani di intere famiglie hanno venduto i propri reni. Si presentano in uno spiazzo, mostrando le cicatrici e dicendo che hanno subito l’operazione in un ospedale di Herat, ricevendo in cambio 300 mila afghania, circa 3 mila euro. La cosa ancora più folle è che li hanno usati tutti solo per pagare dei debiti, non per costruire o migliorare la propria vita.
Ci indicano dove hanno fatto l’operazione. “In città” dicono. In uno dei due ospedali dove fanno queste operazioni illegali, il direttore è furioso con noi. Ci accusa di voler dire falsità, e di riferirci a eventi accaduti anni fa. Ma in realtà un’inchiesta giornalistica del New York Times lo ha colpito direttamente. Nell’altro ospedale, poco distante, i toni sono diversi. Dicono che, sebbene i talebani abbiano ufficialmente messo un freno a qualsiasi trapianto “fino a nuovo avviso”, i casi di vendita di organi sono aumentati. Il traffico illegale è pazzesco.
Nel pomeriggio, dopo quattro giorni, finalmente vado in un hammam per farmi una doccia. Non in tutte le case afghane ci sono le docce. La gente non è abituata. Perciò pago 50 afghani, circa 50 centesimi di euro. All’entrata compro un po’ di shampoo e mi danno un asciugamano. Entro in uno sgabuzzino. L’acqua è calda, una libidine. Soprattutto perché mi sono svegliato con un po’ di mal di gola e non vorrei ammalarmi sul serio perché devo continuare a lavorare. Dopo essermi sciacquato e lavato i capelli, increspati dalla polvere e dallo smog, mi sento più fresco.
Quando tutto sembra prendere la piega giusta, Kakar comincia ad esitare sulla partenza dell’indomani, facendomi innervosire sul serio: la macchina ha un problema (ci credo, è una baracca cinese). Allora lo obbligo ad andare dal meccanico insieme a me. “Andiamo domani” dice. “No, ora” insisto. Due ragazzini smontano le ruote in men che non si dica. Sistemano le pastiglie dei freni. Tutto sembra pronto. “Ah, ma forse domani sono occupato” mi dice poi ancora Kakar. Mi arrabbio sul serio. Sono le 7 di sera. “Mi prendi in giro?” gli chiedo. “Io domani devo andare a sud, cascasse il mondo, e tu hai preso un impegno con me”. Non dice la verità. “Ti ho detto che oggi ero impegnato e quindi ho spostato a domani” continua. I fixer sono una categoria a parte, vanno studiati bene. “Va bene, scrivo al mio amico S., mi aiuterà a trovare qualcun altro a Herat”. Si preoccupa immediatamente: “No no va bene, vengo con te”. Non ha molto senso il suo ragionamento visto che lo pago bene e che guadagna in 4 giorni quello che guadagnerebbe in un mese con il suo contratto per la TV nella quale lavora. Ma è un problema culturale. Alla fine scopro che un’altra giornalista danese è in città. Forse gli offriva di più e così lui voleva andare con lei. Non mi piace l’etica, ma ora sono in ballo e devo ballare. Non ho più tempo e devo tenermelo per alcuni giorni ancora.
Queste sono le sfide che bisogna sempre essere pronti a risolvere: telefonino in mano e scrivere a tutti. La sera trovo un fixer di riserva. Vuole 400 dollari al giorno. Una follia. Lo mando a… con educazione. Kakar, nel frattempo, dice di essere pronto, dopo che l’ho messo con le spalle al muro. Vedremo. So già che questo viaggio nelle province di Farah e Nimruz- sarà un casino, e che per prima cosa dovrò tenere a bada un indolente. L’importante però, sarà trovare le storie. Ce la faremo e Kakar, nella sua noncuranza, mi sembra bravo a trovare quello che voglio. Bisogna solo scuoterlo.
Giorno 8, Distretto di Shindand – provincia di Herat
“Nel cuore della resistenza: non sparare, sono innocente”
Il distretto di Shindand è stato per anni una “no-go zone” ma oggi si apre a tutti. Bellissimo, mostra però i segni devastanti di quelle che sono state fra le battaglie più dure di tutta la guerra.
È sera. Mentre inizio a scrivere, un bambino si avvicina curioso chiedendosi: cos’è questo affare? Guarda il pc portatile con aria esterrefatta. Una cosa troppo tecnologica per questo villaggio del distretto di Shindand, dove non c’è elettricità se non pannelli solari e batterie per illuminare qualche lampadina. Batto sulla tastiera e loro ascoltano, ridono. Sono assorti. Io sorrido e loro ridono di più. Mi diverto a farli ridere, sono innocenti, si divertono, increduli ed emozionati nel vedere uno straniero usare un marchingegno ancora mai visto. È una costante anche di giorno: ogni volta che inizio un’intervista i bambini si ammassano per vedere cosa faccio, osservano la macchina fotografica, spintonano e sgomitano per farsi posto e capire cosa succede. E spesso bisogna mandarli via, spaventarli, perché altrimenti non si riesce a lavorare. Con gentilezza chiaramente. Ma essendoci una forte impronta culturale del rispetto del più anziano, i bambini sono abituati sin da piccoli ad aiutare in casa, servire gli ospiti e i genitori e fare lavoretti di ogni genere. Sono educati e servizievoli.
Bambini a parte, oggi è una giornata strana. A tratti incredibile, a tratti frustrante. Frustrante perché la guida, Kakar, non mi ispira. Non è male, ma traduce male e in maniera approssimativa (io sto preparando un libro, perciò devo avere i dettagli e se ogni volta bisogna strapparli dalla bocca del traduttore perché lui pensa non sia importante, è stancante). Incredibile perché, anche se inizialmente comincia tutto in maniera storta, sto comunque vivendo una nuova esperienza.
Mi sveglio ancora mezzo influenzato, con il mal di gola, nel freddo delle 6 del mattino di dicembre nella stessa gelida stanza. Accuso la stanchezza e il mal di schiena in particolare. Sono un po’ nervoso. Lo sento. Sveglio Kakar, che dorme di fianco a me e gli dico di muoversi. Dobbiamo partire alle 7 per andare dal meccanico a finire una modifica dell’auto. Chiaramente, il meccanico non è ancora al lavoro. Quindi passiamo a prendere Haji Ikhbal e partiamo alla volta del sud, verso Shindand, uno dei luoghi più pericolosi durante la guerra d’occupazione Nato, finita lo scorso agosto. Haji Ikhbal dovrebbe conoscere bene il territorio venendo da quelle parti. Anche se gentile, non sembra fare molto. E lui si aspetta un compenso. Anche senza di lui ce l’avremmo fatta.
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La strada per il sud è bellissima, le alte montagne con picchi appuntiti spuntano dal terreno piano e desertico della regione. Nel mezzo qualche villaggio sperduto, con casette in fango. Quando entriamo a Shindand, a 100 chilometri da Herat, i segni della guerra sono forse i più duri e eloquenti che abbia visto finora in Afghanistan. Edifici in macerie, crivellati all’infinito di proiettili, checkpoint distrutti, ponti fatti esplodere e segni di “roadside bombs” ovunque. Un tipico scenario postbellico.
Kakar entra nel comando Talebano della cittadina. Dobbiamo presentarci prima di lavorare. Di solito non ci sono problemi con i talebani. Si può lavorare facilmente. Quando spiego il progetto al comandante, Mawlawi Niamatullah Himat, risponde: “Vi porto io con una macchina a vedere i luoghi bombardati”. Ottimo, ma il tempo stringe. La luce c’è fino alle 5 del pomeriggio ed è già mezzogiorno. Con noi salgono un mujahid e suo figlio, che ho soprannominato “Mullah khurd”, il “piccolo mullah”, per come è vestito. È molto elegante ma a soli 10 anni suo padre gli fa già portare il turbante.
Dopo mille fermate inutili per salutare, arriviamo in una grande pianura, dove i bombardamenti e le battaglie sono stati moltissimi. Nel villaggio di Bakhtabad incontriamo un signore e un bambino, testimoni di un bombardamento Nato durante un funerale che ha fatto circa 40 morti. Ci mostrano i segni delle ferite e ci raccontano nei dettagli l’accaduto. Ma non sono soddisfatto di come Kakar traduce e mi arrabbio, perché non fa pressione sul comandante per farmi vedere di più. È indolente e ne approfitta per fare il suo lavoro per la televisione per la quale lavora: “ti ho detto che potevo partire solo se lavoravo anche io”. Tutte cazzate! Ma alla fine devo cedere: “tiorniamo” dice Mawalawi Niamatullah. Eppure il tutto, fortunatamente, prende una piega interessante.
Rientriamo alla base. “Preghiamo” dicono tutti. Io aspetto seduto su una sedia al sole, riscaldandomi un po’. Alcuni Talebani si avvicinano, chiacchieriamo fino a che il comandante, alla fine della preghiera, mi chiama: “Filip, naan mikhorim”, Filippo mangiamo. Ma per entrare nella sala, passo sotto una griglia appuntita con appesi dei fiori e mi faccio un buco in testa. Sento dolore, ma sono abituato a queste cose. Chi è alto come me lo sa bene. Eppure, anche se non sembra nulla, il sangue comincia ad uscire copiosamente, coprendomi la tempia e la guancia di rosso e macchiando il mio patu (uno scialle tradizionale). Non fa male ma ho un po’ di mal di testa. Il comandante mi porta della carta da gabinetto. Che vergogna, per così poco. Con questi che sono abituati a una vita durissima. Poi arriva Kakar, allora per scherzare dico: “Mi hanno sparato”. Lo traduce al comandante, che mi guarda divertito. Mawlawi poi mi riporta al gabinetto, sciacquandomi la testa e le mani. Una scena da baraccone. Un comandante talebano che pulisce la ferita di un giornalista sopra una latrina. La ferita coagula, mi lavo le mani e andiamo a mangiare, anche se rimane il segno del sangue sulla testa. “Ti sei fatto male con il tuo stesso materiale” ride Mawlawi – “perché quella griglia l’hanno messa i tuoi fratelli occidentali”. Effettivamente, anche se l’ospite sarà sempre il benvenuto in Afghanistan, l’occidentale è visto come la rappresentazione delle molteplici porcherie che hanno fatto tutti gli eserciti e le organizzazioni per decenni.
“Conosci quel professore americano rapito a Kabul anni fa?” Si chiama Timothy Weeks. “Sì” -rispondo -“è quello che poi è andato ai negoziati di Doha in favore dei talebani giusto?” “Sì, lui si è convertito. Perché non lo fai anche tu?”. Ancora? Che noia. Me lo chiedono 10 volte al giorno. Non sanno però che io la parola magica, la famosa “kalima” che bisogna pronunciare per convertirsi (“Non esiste altro Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”), la conosco. “Mawlawi Sahib” – ribatto – “Se mi rapisci, allora mi converto anche io. Anche se sono sicuro che per come mi stai trattando, carta da gabinetto, acqua e cibo, mi tratteresti ancora come un figlio”. Mi riferisco alla sua cordialità e premura. Chiaramente in tempi di guerra, le relazioni sarebbero state diverse. Ma ora ci si può scherzare sopra. Ridono tutti, seduti davanti a un piatto di fagioli e patate. Piatto semplice, come io adoro.
Torniamo sulla strada principale che da Herat porta a Kandahar. Ci fermiamo poco più in basso di Shindand, ad Azizabad. Un villaggio adiacente alla strada, molto povero. Qui un bombardamento dell’Alleanza Atlantica ha ucciso 95 persone in una notte. Uno degli “incidenti” più famosi. E il motivo è ridicolo: una questione in sospeso fra due persone a causa di un lavoro, secondo la gente locale. Uno di loro è andato dagli americani e ha detto in quali case si nascondevano dei talebani, che chiaramente non lo erano, ma erano i suoi concorrenti. Detto, fatto. La spia in questione ha portato gli americani nel villaggio che poi hanno bombardato a tappeto per 8 ore. Incontriamo una famiglia. Una donna, Gulruah, è paralizzata su un materasso. È l’unica sopravvissuta di una casa che ha perso 20 persone, morte sotto i suoi occhi. I soldati americani volevano uccidere pure lei: “Non uccidermi. Ma se non mi aiuti, allora ammazzami” ha detto in pashtun a un soldato yankee. L’hanno portata in ospedale dopo ore di sofferenza. Sua madre è morta poggiata sopra di lei. La casa, ancora ora, è in macerie e Gulruah vive con il fratello facendo piccoli lavoretti di bricolage sdraiata su un toshak. Di fronte alla casa distrutta vive Haji Gulah Ahmad, suo parente. Era lui ad avere un contenzioso con la spia che ha portato gli americani. Haji è fuggito in tempo, altrimenti lo avrebbero ucciso. Il figlio, che al tempo aveva poco più di 15 anni, è stato minacciato di morte dagli americani. Gli hanno detto che lo avrebbero gettato in un edificio in fiamme se non avesse detto dove si nascondeva il padre. Ma poi lo hanno risparmiato.
Quando cala la notte Haji Gulah Ahmad ci offre ospitalità. Il villaggio è nel buio totale. Entriamo in casa, sedendoci nella sala degli ospiti. Restare così tanto seduto a gambe incrociate mi distrugge. L’edificio per gli ospiti è separato dalla casetta. È questo che è stato bruciato dagli americani. Ora è ricostruito: elegante e ospitale. I figli l’hanno riscaldato. Ci portano il tè e la cena. Prima fanno passare una teiera con una fondina per lavarsi le mani e un asciugamano, poi poggiano a terra un tappeto di plastica e portano le pietanze. Si mangia carne e Shorwa (una pietanza fatta con carne, pane e spezie a mollo nell’acqua e deliziosa) con naan, il pane. “Siamo gente del deserto, non cuciniamo granché” ride Haji Gulah Ahmad, il quale prima e dopo la cena si fa portare un vasetto, dove sputa regolarmente (sputano tutti ogni 5 minuti) e lo condivide con gli altri, come si fa con i bicchieri d’acqua. Quando devo andare in bagno infine, il figlio mi porta fuori casa, dietro a un angolo, in mezzo a una strada: “iie tashnab ast”, questo è il gabinetto. Al buio. Ah, la strada quindi. Nei villaggi la strada è anche questo. Torno in casa. Una batteria illumina fievolmente, mentre una stufetta riscalda per bene. Alcuni toshak (materassi) sono posti per terra. Andrà benissimo. Domani si cambia provincia, entriamo nel sud, a Farah.