“Diari afghani”, la quinta puntata del viaggio di Sky TG24 nel Paese in mano ai talebani

Mondo

Filippo Rossi

Durante gli ultimi mesi, il reporter e collaboratore di Sky TG24 Filippo Rossi ha percorso più di 4mila chilometri in macchina attraverso l’Afghanistan per raccontarne le diverse sfaccettature. Un racconto in sette puntate, tra aneddoti, fotografie e mappe. Ecco la quinta parte

A quasi sei mesi dal ritorno al potere dei Talebani, un viaggio nell’Afghanistan più profondo alla ricerca dei danni causati dai bombardamenti Nato durante vent’anni di guerra, e alla scoperta di tradizioni e culture (QUI LA PRIMA PUNTATA - SECONDA PUNTATA - TERZA PUNTATA - QUARTA PUNTATA).

Puntata 5, giorno 9 - Provincia di Farah

“Ma… io ti ho già visto in Panjshir!”

 

All’arrivo a Farah incontro nuovamente un talebano che combatteva in Panjshir. Con il fixer le cose non vanno alla grande ma non ho scelta. Alla sera, vengo ospitato da un talebano.

 

Seduto sul terrazzo soleggiato di un posto di comando talebano crivellato di colpi di mitragliatrice e fatto a pezzi, il vice-comandante Hakimullah sorseggia il tè insieme ai suoi compagni. Il sole è quasi allo zenit e la temperatura è gradevole. Quando ci vede entrare, ci offre chai e qualcosa da sgranocchiare. Ci sediamo insieme a lui. “Io ti ho già visto in Panjshir” commenta guardandomi, sorridente. Ricambio l’occhiata, incredulo. “Dove?” chiedo. “Di fronte al palazzo del governatore” mi dice. “Verissimo, ero lì”. Il giorno in cui il Panjshir è caduto nelle mani talebane, lo scorso 6 settembre, mi trovavo lì insieme al collega e amico Mattia Sorbi. Rido, quando ripenso a quella giornata pazza: il permesso speciale che ci ha fatto fare una prima mondiale riuscendo ad entrare nella valle appena conquistata per primi, le nostre apparecchiature sequestrate perché Sorbi si faceva prendere a cazzotti dai mullah, le bandiere della resistenza rubate e fatte passare attraverso i checkpoint. Indimenticabile. Ma la cosa che mi ha lasciato ancora più a bocca aperta è stato arrivare nel deserto del sud, a centinaia di chilometri di distanza dalle valli del Panjshir, e vedere un mujahid che ci ha combattuto, riconoscermi. E non è il primo a farlo: un mese fa, a Kunduz, un comandante talebano mi ha riconosciuto proprio perché mi aveva visto in Panjshir. I Talebani hanno spostato un sacco di forze nella valle da tutto il paese, per reprimere la resistenza che non si è mai veramente capito che fine abbia fatto. C’è mai stata? C’è ancora? È stata debellata? Molta propaganda, domande che ancora non hanno una risposta concreta perché una vera resistenza non esiste.

Comunque sia Hakimullah si siede di fianco a me, ci facciamo due foto. “Sei mio amico” dice in pahstun. Non parla il persiano e non riusciamo a comunicare. Accetta di accompagnarci in un villaggio dove la Nato ha bombardato una casa piena di civili, uccidendo 90 persone in un bombardamento durato una notte intera e che ha colpito una casa con all’interno civili. Solo 10 persone sono sopravvissute. 

Il villaggio è stupendo. Oltre ad essere l’unico posto nella zona in cui per miracolo funziona il 4G, e così posso rispondere a qualche messaggio e mail, è un piccolo paradiso con ruscelli che scorrono fra le case in fango e campi di oppio ancora incolti. La stagione comincerà fra 4 mesi. Attorno non c’è nulla, solo deserto. All’orizzonte le montagne. Parliamo con una donna sopravvissuta e suo figlio. Tutti ustionati, si sono salvati per miracolo. O “per volere di Allah”, come dicono qui. “Vogliamo che gli americani ci ripaghino per i danni che ci hanno causato” ripete in continuazione la donna riferendosi alle scuse mancate e alla totale assenza di qualsiasi tipo di riparazione o compensazione. Io devo incassare tutto questo, perché tutti mi vedono come parte del danno. Ma fa parte del gioco. Prima di andare via dalla casa in cui mi ospitano, un ragazzo incuriosito mi dice: “Come sei alto”. Gli mostro la mia ferita di battaglia del giorno prima, la ferita in testa che non sono riuscito a sciaquare con dell’acqua e intorno alla quale ancora si vede il sangue. Ridono tutti: “È stata una bomba?” mi chiede ridendo di gusto. “Certo” rispondo. In Afghanistan si scherza sempre, anche in queste situazioni.

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Diari afghani

Kakar traduce malissimo, troppo approssimativo. Ho bisogno dei dettagli. Lo sgrido e lo riprendo in pubblico e non me ne frega nulla. Sono una iena quando succedono queste cose. A volte i fixer, benché siano pagati profumatamente dai giornalisti per far loro da guida, si fanno gli affari loro. Lui si alza all’improvviso durante un’intervista e dice: “Devo pregare”. Mi arrabbio sempre di più. È indolente, non sembra voler lavorare, cambia programmi, cerca di sviare dalle cose importanti. In macchina, uscendo dal villaggio, mi dice che il giorno seguente non abbiamo tempo di fare quello che voglio perché non ha voglia di farlo. E devo pure pagarlo uno così. Ma non ho altra scelta. Gli rispondo: “Invece di svegliarsi alle 7 e uscire alle 9 dopo aver fatto colazione da re, dovremmo svegliarci alle 6 ed essere sul campo alle 7”. Domani sveglia alle 6 e basta. Ma non capisce proprio. Non c’è nulla da fare. È un bravo ragazzo, ma non mi piace molto. Per fortuna domani è il suo ultimo giorno e da giovedì lavorerò con Razmal, un’altra guida a Kandahar, molto affidabile e preciso. 

Usciamo dal villaggio alle 3.30. Abbiamo ancora qualche ora di luce e lavoro. Lui vuole andare da un amico a mangiare. Gli dico che voglio fare un'altra storia di bombardamento prima del tramonto. Si innervosice. Dice che una persona ci aspetta per pranzo. “No, andiamo dopo”. “No, lui dopo non vuole”. “E allora non andiamo, punto” rispondo. Così torniamo verso Farah Rud, sulla strada principale che collega Herat a Kandahar, un punto di sosta. Quando arriviamo è quasi il tramonto. Entriamo in una base talebana che apparteneva alle forze straniere e che è ancora mezza distrutta. Devastata e a pezzi. Blindati e veicoli distrutti, edifici fatti a pezzi dalle mitragliate e dai bombardamenti. Sui tetti, bandieroni bianchi talebani sventolano contrapposti a bandiere della repubblica e a qualche elmetto ancora per terra, sporchi e dimenticati. Ne approfitto per andare in bagno mentre aspetto che arrivi il comandante. All’interno dell’edificio siede il Mawlawi, il comandante senza una gamba, persa in combattimento. Come al solito, nel suo ufficio siedono decine di persone e come di consueto si salutano tutti con la mano: “Salom aleikum, juri bakhair, qarari da?”, in pashtun: “tutto bene?”. Un saluto che dura almeno dieci o quindici secondi. Tutti si salutano per consuetudine, piuttosto che per sapere davvero come stia la persona di fronte. Ci si pone una serie di domande sul proprio stato di salute simultaneamente. E può durare davvero un momento. È molto interessante. 

Alla fine di una cordiale discussione e spiegazione di ciò che vogliamo fare, il comandante ci affida a Mohammad Khan, un suo subordinato, il quale ci accompagna in un villaggio vicino per mostrarci un caso di bombardamento Nato: “solo” sei persone sono morte, più di diciotto ferite. Un caso “piccolo” rispetto a quello della mattina. La vera tragedia però, sta nel modo in cui queste persone sono state uccise: Durante una battaglia fra talebani e forze straniere e afghane vicino al villaggio, un gruppo di civili è fuggito dal villaggio formando una carovana di macchine e motociclette. Dopo alcuni chilometri sono stati bombardati dagli elicotteri americani. Una donna dice che è uscita dalla macchina velocemente, non appena ha visto gli elicotteri. Con una sciarpa ha fatto segno agli elicotteri per mostrare la presenza di civili. Hanno sparato un razzo a 10 metri da lei. È paralizzata. Suo figlio di 2 anni è morto fra le sue braccia e sua figlia di fronte a lei. La donna, di fronte a tutti gli uomini, alza la tunica e mostra la gamba ferita prima che il marito, avendo concesso troppo, dica: “ok, è sufficiente”. Bisogna considerarlo come una grande cosa, nella provincia afghana, il fatto di poter parlare a una donna senza problemi, e vederle addirittura la gamba.

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Alla fine delle interviste è notte. Tardi. In Afghanistan non si viaggia con il buio. Un po’ per il pericolo, un po’ perché le condizioni delle strade sono pessime. Perciò dobbiamo trovare un luogo dove dormire. Mohammed Khan ci invita al ristorante. Ci sediamo tutti insieme fuori. A Farah, una provincia desertica, si sta ancora bene la sera in dicembre. Non fa troppo freddo. La guardia di Mohammad Khan ride sempre quando mi guarda. Gli propongo uno scambio: “Dammi il tuo fucile e io ti do la mia penna”. Non so se sappia scrivere. Ma ancora ride. Nel ristorante si avvicinano tutti, mi guardano come se fossi un alieno. Non esagero. E non smettono di fissarmi per almeno 20 minuti. Chissà cosa provano. Con Mohammad Khan invece si può parlare, è un uomo interessante, un mujahid convinto da moltissimi anni. Alla fine della cena, a base di Qabuli Palaw, Dogh (una bevanda a base di yogurt con l’aggiunta di erbe e acqua naturale o frizzante) e pane, mi dice: “La mia macchina è a vostra disposizione quando volete. Ma voglio mostrarvi una cosa”. Ci porta a casa sua ed estrae un visore notturno. Sono i famosi visori notturni con i quali i talebani hanno avuto un vantaggio netto sull’avversario. Quando guardo attraverso il visore, è come se fosse giorno. Uguale. Sono incredulo. Mi sono sempre interessate queste cose anche se schifo le armi. “Quando abbiamo conquistato la base qui a Farah Rud, abbiamo eleminato le sentinelle così e poi siamo entrati senza che nessuno ci sentisse”. Inutile dire cosa sia successo dopo. La triste realtà della guerra. I visori notturni dei talebani hanno fatto una grande differenza.

Dopo questa gita, torniamo alla base dove abbiamo lasciato la nostra auto. Mohammad khan vuole farci dormire in una stanza dei soldati, ma sono tutte occupate. “Venite a casa mia allora” dice. Ritorniamo a casa sua, poco distante. Ci installiamo nella sala degli ospiti come al solito. Eccoci qui, a casa di un talebano. Che ospitalità. Mohammad khan mi chiede dell’Europa, dei vestiti, di cosa io pensi dell’Afghanistan. È interessato. È molto affabile e sembra felice. Quando è tardi, lui si ritira lasciandoci con il suo guardaspalle che si addormenta di fianco a me. Stanotte si dorme con i talebani. 

Farah Rud - Russian made night vision for snipers belonging to Taliban fighter.

Giorno 10 - Province di Nimruz e Helmand

“Ritorno a Lashkar Gah”

È il momento di partire. Dopo un’ultima intervista a Nimruz saluto Kakar e prendo la via di Lashkar Gah, Helmand. 

 

Ormai sono 10 giorni che attraverso i meandri dell’Afghanistan. Non sono molti, ma posso assicurare che sono stato in luoghi dove quasi nessuno è arrivato, percorrendo ad occhio e croce ben più di duemila chilometri. Ho dormito con la gente del posto, ho mangiato con loro, parlato con loro. Traspare sì il loro lato umano e gentile, ma sono anche in grado di vedere i lati negativi. 

Gli afghani hanno dei modi ben precisi di comportarsi, si offendono se rifiuti l’ospitalità, a volte non parlano chiaramente. Il loro modo di interagire gli uni con gli altri è un insieme di perbenismi superficiali che possono creare molti problemi di comunicazione. Sono cose che bisogna sperimentare e vedere in prima persona per capirle. 

Oggi non è successo granché. Mi sveglio nella casa di Khan Mohammed alle 6. Ci tira giù dal letto. Mangiamo un po’ di pane e beviamo un chai indiano prima di tornare a prendere la macchina alla base militare e proseguire verso Delaram, cittadina nella provincia di Nimruz. In queste zone desertiche dalle pianure infinite, ci sono moltissimi bazar clandestini che vendono di tutto: armi, droga, soprattutto oppio (tariaq) e chars, quello che da noi conosciamo come hashish (parola araba proveniente dal vero hasshasha, che significa “impazzire”). Ma non abbiamo tempo e soprattutto non è il giorno del bazar. Non ho fortuna ma ci tornerò. A Delaram visitiamo un ennesimo caso di bombardamento Nato: una famiglia ha perso 5 persone, un ragazzo di 18 anni e 4 donne . Altre 5 sono state ferite. Il padre dice che ha trovato brandelli di suo figlio ovunque per casa ancora dopo giorni. Un casolare povero, circondato da mura e con coltivazioni di grano al suo interno. A volte non si capisce se vogliano nascondere il fatto che coltivino oppio oppure no. Ma in queste lande desolate, l’oppio è coltivato sotto gli occhi di tutti. E i campi appaiono fra le dune di sabbia. È bellissimo da vedere. Ora però non è stagione. Hanno appena coltivato e il raccolto sarà fra 3 mesi. Il traffico non si ferma, visto che frutta a tutti. Soprattutto dalle nostre parti. 

Prima di andarmene, Kakar vuole che gli passi dei video dalla mia macchina fotografica. Lo accontento ma dobbiamo trovare un posto con dell’elettricità. Una vera sfida. Troviamo un centro sanitario mezzo scassato. Ci ospitano per qualche minuto. Scarichiamo tutto e via. Vado alla fermata dei veicoli che partono per il sud, verso Helmand, una delle provincie più tristemente famose per l’intensità della guerra. Le truppe inglesi e danesi di stanza qui ne hanno fatte letteralmente di tutti i colori, insieme agli americani.

Prima di salire in macchina, vedo un veicolo strano. Dicono che si chiami “sarda”. “Tutta made in Afghanistan” dicono. Ce ne sono in giro parecchie e a quanto pare è vero. Bellissimo perché sembra molto efficiente, senza contare il fatto che il motore non è coperto dal cofano.  Ma sugli sterrati fa il suo dovere. È rialzato, senza il tetto, con solo due posti anteriori e dello spazio dietro per portare materiale. Mi congedo da Kakar. Un’esperienza caotica, difficile, frustrante ma anche appassionante. Mi ha messo alla prova per davvero stavolta.

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Sulla Toyota Fielder che parte per Helmand compro 3 posti, ognuno a 3,5 euro, quindi circa 10,5 euro per fare 250 chilometri. Voglio partire subito e rimanere più comodo. Di solito su una Toyota Fielder siedono 7 persone più l’autista. Per inciso: la Toyota Fielder è la macchina usata dai talebani per antonomasia. Va ovunque. Non ci ero mai salito prima. Siedo sul posto davanti, di fianco all’autista. Dietro di me una famiglia. Il signore, barba e cappelli bianchi, mi guarda e mi prende il mento con le mani in segno amorevole, sorridendo. È felice di vedere uno straniero salire su un mezzo pubblico. Non succede quasi mai, come ho già detto. Anzi, è un segno di grande rispetto e umiltà che loro apprezzano molto.  E io, oltre a divertirmi, spendo pure meno. Dopo un chilometro la macchina si ferma. Il signore anziano ha lasciato sua moglie, o forse sua figlia, è impossibile dirlo, sul ciglio della strada insieme alla nipotina e ai bagagli da caricare. È andato a prendere i posti in macchina ed è tornato pronto per partire. Carichiamo tutti e la macchina sfreccia verso sud. “Di dove sei?” chiede l’autista in persiano. Non tutti parlano persiano in queste zone. Parlano solo il pashtun. Lui può comunicare e così parliamo del più e del meno. Poi mette due brani musicali occidentali. Una specie di punk-rock terribile e infine finisce su una canzone che si potrebbe considerare “tamarra”: “Cos’è sta roba?” gli chiedo. “È una canzone giapponese, capisci quello che dice?”. Che spettacolo. Rido semplicemente.

L’ultimo pezzo di strada per arrivare a Lashkar Gah, il capoluogo dell’Helmand, è uno sterrato che scorre in maniera molto piacevole. L’autista vola, slitta sullo sterrato sabbioso deformato da solchi degli pneumatici, superando motorette e altri veicoli, saltando su cunette di terra che non fanno grandi danni. A Lashkar Gah ci sono venuto già qualche anno fa. Ora è cambiato. Prima era una città pericolosa. Ora è tranquilla. Nasrat viene a prendermi. Un giovane giornalista locale. Lavorerò con lui e Razmal, che mi raggiungerà da Kandahar e tornerà insieme a me. Dormo in un hotel. Non c’è elettricità quindi pago qualcosa in più per avere il generatore fino a mezzanotte e poter ricaricare batterie e cellulari. Ma la doccia è gelida, il gabinetto è intasato e la camera è ancora più fredda. Vabbè, si resiste. Ma dormire patendo il freddo non è piacevole. Domani si lavora a oppio e bombardamenti Nato.

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