
Aldo Moro, 45 anni dall'uccisione. Dal rapimento brigatista alla morte: cosa accadde
Il presidente della Dc venne rapito il 16 marzo del 1978, in via Fani a Roma, da un commando delle Br che uccise i 5 uomini della sua scorta. Dopo 55 giorni di prigionia, durante i quali il governo Andreotti si era rifiutato di trattare con i terroristi, il 9 maggio 1978 il corpo senza vita di Moro venne trovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Caetani

Sono passati 45 anni dal ritrovamento del corpo senza vita di Aldo Moro, il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni dal rapimento da parte delle Brigate Rosse, avvenuto il 16 marzo 1978, quando l’automobile su cui viaggiava il presidente della Dc fu fermata in via Fani, a Roma, da un nucleo armato delle Br che uccise i cinque uomini della scorta e rapì il politico pugliese. Quello stesso giorno, Andreotti avrebbe dovuto ottenere la fiducia per un nuovo governo in cui, per la prima volta, sarebbero stati presenti anche i deputati del Pci di Enrico Berlinguer
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L’AGGUATO - Poco prima delle 9 del mattino del 16 marzo 1978, Moro uscì dalla sua casa e salì su una Fiat blu con due componenti della scorta. Dietro la sua auto c'era un’altra vettura, un'Alfetta bianca con a bordo gli altri uomini che facevano parte della sua protezione. L'agguato teso dalle Br scattò quando la macchina su cui viaggiava Moro entrò in via Fani
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L'auto del presidente della Dc sbatté con una Fiat 128 che gli aveva tagliato la strada. In pochi secondi il commando terrorista saltò fuori davanti al bar "Olivetti" sparando sull'auto della scorta uccidendo sul colpo gli agenti Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Il vicebrigadiere Francesco Zizzi perse la vita poco dopo, all'ospedale Gemelli. Morirono anche l'appuntato Domenico Ricci e il maresciallo Oreste Leonardi che erano nell’auto di Moro

LA RIVENDICAZIONE - Il presidente della Dc venne invece catturato dai brigatisti. La Fiat usata per l'agguato venne ritrovata più tardi ed esattamente un’ora dopo, alle 10 in punto, il gruppo terroristico rivendicò l’attentato: "Attacco al cuore dello Stato”

LA PRIGIONIA - Dopo il sequestro, Aldo Moro fu portato in quella che poi verrà definita "la prigione del popolo". Nei processi che seguirono la cattura dei brigatisti, risultò poi che questa "prigione del popolo" era l'appartamento di proprietà di Anna Laura Braghetti, in via Camillo Montalcini 8, sempre a Roma. In quei 55 giorni, il politico fu sorvegliato da diversi membri delle Br, in particolare da Prospero Gallinari che, essendo già ricercato, rimase durante tutto il rapimento insieme allo statista e venne considerato il vero carceriere di Aldo Moro

Tuttavia, secondo il magistrato Carlo Alfredo Moro, fratello dell'ex presidente Dc, l'ultimo covo in cui fu nascosto Moro non fu quello di via Montalcini, ma un altro situato nei pressi di una località marina. La deduzione deriva dalla sabbia trovata addosso al corpo e sull'auto, ma anche da alcune incongruenze durante le deposizioni dei brigatisti. Non è mai stato appurato se vennero usati altri covi (come quello in zona Balduina)

I COMUNICATI - Dal 16 marzo 1978 al 9 maggio dello stesso anno, le Brigate Rosse rilasciarono nove comunicati. Il gruppo terroristico si servì di queste lettere per spiegare le motivazioni del sequestro ma anche per provare a intavolare una trattativa con lo Stato

LE LETTERE - Nei suoi 55 giorni di prigionia, Aldo Moro scrisse 86 lettere. I destinatari furono molteplici: dagli esponenti più importanti del suo partito, la Dc, alla famiglia. Non mancarono però le missive mandate ai principali quotidiani e all’allora Papa Paolo VI. Il 22 aprile, il Santo Padre si rivolse con un appello pubblico col quale supplicava "in ginocchio" gli "uomini delle Brigate Rosse" affinché liberassero il prigioniero "senza condizioni”

LA FERMEZZA DEL GOVERNO - Delle 86 lettere inviate, solo alcune arrivarono a destinazione, altre non furono mai recapitate e vennero ritrovate successivamente nel covo di via Monte Nevoso. Fu proprio attraverso queste lettere che Moro cercò di aprire una trattativa con i colleghi di partito e con le massime cariche dello Stato. Il governo presieduto da Giulio Andreotti (in foto), sostenuto dal Pci, non volle cedere ai terroristi, né trattare. Lo statista, in una lettera indirizzata ai leader della Dc, il suo partito, scrive: "Il mio sangue ricadrà su di voi”

L’UCCISIONE - "Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della DC. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato". Con queste parole, nel nono e ultimo comunicato, le Brigate Rosse misero fine al rapimento, uccidendo Moro con una scarica di proiettili nel petto

IL RITROVAMENTO - Dopo l’omicidio, l'auto con il suo corpo fu lasciata parcheggiata in Via Caetani, a Roma, simbolicamente a metà strada tra la sede della Dc e quella del Pci. La comunicazione dell’avvenuto delitto fu data dal brigatista Valerio Morucci con una telefonata al professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro. Il terrorista chiese a Tritto, "adempiendo alle ultime volontà del presidente", di comunicare subito alla famiglia che "il corpo del presidente si trovava nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, in via Caetani”

Il rapimento di Moro fu uno dei punti più tragici degli Anni di piombo in Italia. La morte dello statista segnò la fine del cosiddetto "compromesso storico", l'avvicinamento tra Dc e Pci, di cui Moro era stato uno dei grandi fautori
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