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Alessia Piperno racconta il carcere in Iran: "Mahsa Amini potevo essere io”

Cronaca

Giulia Mengolini

La travel planner romana è stata rinchiusa per 45 giorni nella sezione 209 nel carcere di Evin, quella destinata agli oppositori politici, accusata di aver partecipato alle proteste che nel settembre 2022 hanno riempito le strade di Teheran. Lì, tra grida di disperazione e condizioni ai limiti dell'umano, ha inziato a scrivere nella sua mente un libro-testimonianza. Anche per le compagne ancora detenute. L'intervista

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"Sono sdraiata a terra, sopra una moquette. Levo di scatto la benda dagli occhi. Improvvisamente mi sento testimone di una scena che il mio cervello si rifiuta di accettare. Sette donne indossano la mia stessa uniforme. E tutte hanno negli occhi uno sguardo devastato. Sono nella cella di una prigione”.

 

Quando è stata arrestata in Iran, Alessia Piperno stava festeggiando il suo 30esimo compleanno a Teheran, dove alloggiava in un ostello con alcuni amici conosciuti in viaggio, dopo alcune settimane in Pakistan. Una giornata iniziata a Tochal, tra le montagne di Teheran, e finita in commissariato con una benda sugli occhi, poi nel carcere di Evin, noto in tutto il mondo per le condizioni disumane in cui versano i detenuti. Alessia, che lo definisce "un inferno" è stata rinchiusa nella sezione 209, quella destinata agli oppositori politici, dove è rimasta per 45 giorni, senza sapere perché. Era il 28 settembre 2022 e da poco le strade della capitale iraniana si erano infiammate per le proteste dopo la morte di Mahsa Amini, la 22enne uccisa dalla polizia morale perché indossava male lo hijab.

“Mahsa potevo essere io”, dice a Sky TG24 la travel planner romana, che un anno dopo la sua liberazione ha affidato la sua testimonianza alle pagine di Azadi! Un diario di viaggio, prigionia e libertà edito da Mondadori. "Azadi!" significa "Libertà!": era il grido che ogni giorno si levava nei corridoi della prigione spezzando per qualche istante i lamenti e le urla di disperazione in sottofondo, tra una coperta sporca come letto, luci al neon sempre accese, 'cibo per cani' e interrogatori sfinenti. "A Evin non c'era mai silenzio", racconta Piperno. Oltre alle grida di dolore dei detenuti, ogni tanto si cantavano canzoni ritenute illegali, come Bella Ciao, un canto di resistenza.
“Tuttora non so perché sono stata arrestata. Oggi mi dico: forse dovevo dare voce ad altre donne?”, si chiede Piperno. “Per me non è facile parlare tutti i giorni di quello che è successo in Iran, fino a un anno fa ero ‘Alessia la viaggiatrice’, oggi sono diventata ‘quella che è stata arrestata in Iran’ e questo mi pesa, perché sono anche altro, ho visitato tantissimi altri Paesi. Allo stesso tempo però, raccontare è una possibilità per far conoscere la storia di questo popolo”.

Alessia, come stai oggi?

Bene. Sono a Roma, sto presentando il libro in diverse città, ed è bello perché vengono a incontrarmi anche molte persone iraniane. Continuo a seguire le mie passioni, viaggio, non mi manca niente. Nei mesi scorsi sono stata in Perù e Amazzonia. E a gennaio ripartirò.
 

Quando è nata l’idea di raccontare il carcere in un libro?

Scrivere è sempre stata una mia passione. Quando ero ad Evin parlando con una mia compagna un giorno le promisi che se fossi uscita avrei scritto un libro su quello che avevamo vissuto lì dentro. Raccontando non solo la mia storia, anche quella di tutte loro.
 

In cella a Evin non ti era permesso nemmeno scrivere.

Sì, non ci davano carta e penna, quindi ho iniziato a scrivere il libro nella mia mente. Fissavo il muro e immaginavo di disegnarlo. Era un modo per tenere la mente occupata. La prima cosa che ho fatto quando sono tornata è stata imprimere i ricordi nero su bianco: appunti, disegni della mappa della prigione, della cella. Ho fissato i dettagli prima che svanissero, prima di rimuoverli.  

Ricordi la prima volta che hai sentito parlare di Mahsa Amini e delle proteste? 
Sì, era il 17 settembre, un giorno dopo la morte di Masha. Noi non sapevamo nulla, è successo tutto all'improvviso. Con i miei amici alloggiavamo in ostello, non c’era la tv. E comunque non capivamo il farsi. Pensavamo potesse finire tutto in una sola notte.
 

Come ti sei spiegata il tuo, il vostro, arresto?
Semplice casualità. In quei giorni le persone venivano arrestate anche se non partecipavano alle proteste. Era sufficiente camminare per strada, o bastava apparire nelle telecamere, che sono ovunque in Iran. Magari venivano riprese donne che attraversavano la strada per andare al supermercato, venivano inquadrate e automaticamente fermate. Per non avere fatto nulla.
 

Nel libro racconti di non aver mai smesso di chiedere il motivo del tuo arresto in carcere. Ti sono state date risposte? 
La maggior parte delle volte mi dicevano “non fare la stupida, sai benissimo quello che hai fatto”. Inizialmente l’accusa che mi muovevano era aver partecipato alle proteste, poi in un secondo momento per loro ero considerata una spia, in un terzo momento ero diventata persino quella che aveva portato esplosivi in Iran.
 

Quando hai iniziato a renderti conto che saresti rimasta lì più del tempo che serviva per dei semplici controlli?

All’inizio mi dissero che mi avrebbero fatto solo qualche domanda, poi mi avrebbero rilasciata: pensavo si trattasse di qualche ora. Ho iniziato ad avere davvero paura dopo una settimana. La mia condizione mentale invece è degenerata dopo un mese di detenzione.
 

Quante volte ti è stato permesso di parlare con la tua famiglia?
Se fosse stato per loro nessuna. Ho fatto due volte lo sciopero della fame, l'unica arma che noi detenuti europei abbiamo per far sentire la nostra voce. Dopo il primo sciopero della fame mi hanno fatto chiamare i miei per 30 secondi per comunicargli che ero in prigione. Non avevano mie notizie da quattro giorni. La volta successiva dopo un mese, al quinto giorno di digiuno.
 

A che cosa ti sei aggrappata per non crollare psicologicamente?
Al domani. Mi dicevo sempre “domani mi liberano”. Non mi sono mai arresa all’idea di restare lì dentro. Anche se un giorno una guardia mi disse che non sarei uscita per dieci anni.

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Le condizioni di Evin sono note, avevate solo due momenti di aria a settimana. Come si trascorrevano le giornate in cella?
Inizialmente sono stata messa in isolamento, poi gli arresti dovuti alle proteste crescevano ogni giorno di più, e ad Evin non sapevano più dove mettere i detenuti. Così le celle per l’isolamento si sono riempite e nella mia cella siamo diventate sei. Le ragazze tra di loro parlavano, ma io non capivo la lingua quindi non potevo partecipare alle conversazioni. Ero sola, stavo in silenzio. Fissavo il muro.
 

Un tuo amico francese si trova ancora in carcere.
Sì. Louis. Eravamo in tre quando siamo stati arrestati. I primi due sono stati rilasciati, mentre lui è ancora detenuto, e non riesco a smettere di pensarci. Sono in contatto con sua madre, so che da dicembre gli permettono di chiamare a casa. Ma è ancora lì, ed è innocente come lo ero io.

Ci sono delle storie di donne che ti sono rimaste impresse?
Tre donne in carcere sono state molto speciali per me. Una in particolare, Fahimeh, con cui ho trascorso più tempo - un mese - soffriva tantissimo. Non parlava inglese e urlava continuamente il nome delle sue figlie. Soprattutto quello della piccola, di sei anni: era stata arrestata davanti alla bambina. Era l’unica persona di cui sapevo nome e cognome. Quando sono stata liberata ho iniziato a digitare ogni giorno il suo nome su Google per sapere qualcosa di lei. A inizio dicembre ho letto in un articolo che era stata condannata a morte con una accusa che non la riguardava. Quella notizia mi ha ucciso. Poi un giorno, tempo dopo, mi squillò il telefono ed era lei che mi videochiamava insieme ai suoi figli. Non mi sono mai spiegata il motivo di quell’articolo, ma in quel momento mi è esploso il cuore. Ero felicissima, ma non sono riuscita a pronunciare neanche una parola.

E le altre due?
Sono state in cella con me per 72 ore, le uniche due amiche che ho avuto. Una si è presa cura di me nella notte dell’incendio, l'altra, che non parlava inglese, mi ha insegnato il farsi e mi chiama “my daughter” perché avevo l’età di sua figlia. Ma quando vedevano che legavo con qualcuno le guardie me le portavano via, o mi spostavano.
 

Qual è stato il momento in cui hai avuto più paura?

La notte dell’incendio ad Evin senza dubbio (dove hanno perso la vita quattro detenuti, ndr), e quella in cui ci hanno arrestato dopo averci bendato in auto.

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Alla luce di quello che ti è successo, torneresti in Iran?

Certamente. Ora non potrei, specialmente dopo aver scritto il libro. Ma se potessi tornare indietro sì, rifarei tutte le scelte che ho fatto.
 

Hai ricevuto molte critiche dopo la tua liberazione. Qualcuno ha detto che te la sei andata a cercare.

Sui social ne ho ricevute tantissime. Dal vivo invece no, purtroppo le persone non hanno il coraggio. Penso che chi mi dice che non sarei dovuta andare in Iran lo fa per ignoranza. Le proteste sono iniziate quando mi trovavo già lì, prima di partire l'Iran non era nella lista dei Paesi sconsigliati dalla Farnesina. Non c’era la guerra, non c’erano attentati terroristici né sparatorie in strada. Ti dico di più: l'Iran, prima di entrare a Evin, è stato il Paese al mondo in cui mi sono sentita più al sicuro. Più dell’Australia e della mia stessa Italia.

In che cosa ti ha cambiato un'esperienza così forte e dolorosa?
È stata la paura più grande della mia vita, un trauma a tutti gli effetti. I traumi certamente ci cambiano, ma non per forza in peggio. Io penso di essere migliore oggi, mi sento più in grado di gestire le mie emozioni. E sicuramente il carcere mi ha insegnato anche un significato nuovo, diverso, della parola libertà. Per me prima significava viaggiare, non essere legata a un lavoro d’ufficio.

 

Oggi invece che cos'è?
Adesso è tutto ciò che mi circonda. Nel nostro Paese siamo tutti liberi: di parlare, di ascoltare quello che vogliamo, leggere quello che ci piace, di seguire le nostre passioni, parlare di politica. Ne sono estremamente grata, prima lo davo per scontato.  E ci sono persone, come quelle nate in Iran dopo la Rivoluzione del 1979, che non hanno mai saputo cosa voglia dire.

C'è qualcosa che non sei ancora riuscita a superare?

Pensare a Louis ancora in cella. Non ho mai festeggiato realmente l’essere di nuovo libera, una parte di me è ancora lì, con lui.

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