Il microbiologo lo scrive nella consulenza depositata alla Procura di Bergamo. Il piano pandemico fu scartato perché “era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale”, spiega. Governo e Cts sapevano degli "scenari di previsione" e "della gravità della situazione" e decisero "di secretare il piano per non allarmare l'opinione pubblica". Sulla mancata zona rossa in Val Seriana: altre considerazioni “hanno prevalso sull’esigenza di proteggere dalla diffusione del contagio”
Il piano pandemico fu scartato perché “era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale”. Già dal 12 febbraio 2020, cioè otto giorni prima del Paziente 1, i componenti prima della task force del ministero e poi del Cts conoscevano "la situazione di vulnerabilità in cui si trovava l'Italia di fronte alla pandemia di Covid". Si decise di secretare il piano che avrebbe potuto salvare migliaia di vite per non creare allarme nell’opinione pubblica. Sono questi alcuni dei passaggi scritti dal microbiologo Andrea Crisanti nella consulenza depositata alla Procura di Bergamo. L'inchiesta sulla gestione delle prime fasi dell’emergenza coronavirus coinvolge 19 indagati, tra cui l'ex premier Giuseppe Conte, l'ex ministro Roberto Speranza e il governatore della Lombardia Attilio Fontana. "Per 16 anni", dal 2004 al 2020, non era "mai stata verificata la preparazione dell'Italia nei confronti di un rischio pandemico", si legge in un altro passaggio della relazione (COVID: GLI AGGIORNAMENTI LIVE - LO SPECIALE).
Crisanti: piano pandemico scartato perché su virus influenzale
Nella relazione agli atti dell'inchiesta di Bergamo sulla gestione del Covid in val Seriana, Crisanti spiega che l'Italia, quando scoppiò l'epidemia, “aveva un manuale di istruzione, questo era il piano pandemico. Se poi ha affrontato la pandemia senza un manuale è perché questo (...) è stato scartato a priori senza essere valutato dai principali organi tecnici del ministero", ai quali l'ex ministro Speranza "fa riferimento (...) quando afferma che il piano era datato e non costruito specificamente su un coronavirus ma su un virus influenzale".
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I dubbi sul perché è stato scartato il piano pandemico
Nel sostenere questa tesi, tra l’altro, il microbiologo fa riferimento alle dichiarazioni spontanee rese da Claudio D'Amario, ex direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero e ora indagato, "che gettano luce sul processo decisionale che ha portato a ignorare il Piano pandemico nazionale". Secondo la relazione, "era l'unico documento operativo a disposizione che, sebbene non perfettamente allineato con le più recenti indicazioni di Oms, conteneva ben dettagliate una serie di azioni (...) per contrastare la diffusione" del Covid. Crisanti, sempre proseguendo nella spiegazione del processo decisionale che ha portato a scartare il piano pandemico del 2006, ricorda che fu Silvio Brusaferro, alla guida dell’Iss e anche lui ora tra i 19 indagati, a proporre una "soluzione alternativa" e ipotizza che questa scelta sia stata fatta "dopo un'attenta valutazione tecnico scientifica". Ma lo stesso Brusaferro, quando è stato sentito come teste dai pm bergamaschi, alla domanda "Quando ha letto per la prima volta il piano pandemico del 2006?”, ha risposto: "Nessuno lo ha mai portato alla mia attenzione. Ho letto, come presidente dell'Iss, per la prima volta il piano pandemico del 2006 nel maggio 2020".
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Altre “considerazioni hanno prevalso sull'esigenza di proteggere dal contagio”
In un altro passaggio della relazione, Crisanti si sofferma sulla mancata zona rossa in Val Seriana. Si parla delle "riserve del primo ministro Conte ad adottare provvedimenti di zona rossa" in particolare ad Alzano e Nembro. Secondo Crisanti, nei primi giorni di marzo 2020 Speranza scriveva a Brusaferro: "Conte senza una relazione strutturata non chiude i due comuni. Pensa che se non c'è una differenza con altri comuni ha un costo enorme senza beneficio". Il microbiologo scrive ancora: "La ragione per la quale azioni più tempestive e più restrittive non sono state prese la fornisce il presidente Conte quando nella riunione del 2 marzo 2020 afferma che 'la zona rossa va utilizzata con parsimonia perché ha un costo sociale, politico ed economico molto elevato'. Queste considerazioni hanno prevalso sull’esigenza di proteggere gli operatori del sistema sanitario nazionale e i cittadini dalla diffusione del contagio".
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Piano secretato “per non allarmare l'opinione pubblica”
Crisanti, poi, sostiene che l'allora ministro Speranza, "il prof Brusaferro, il dott. Miozzo e il dott. D'Amario" erano "a conoscenza del Piano Covid", degli "scenari di previsione" e "della gravità della situazione" e presero "la decisione di secretare il piano per non allarmare l'opinione pubblica". Di questa circostanza, aggiunge, erano "a conoscenza" anche "i vertici di Regione Lombardia". Il microbiologo parla di "responsabilità degli organi decisionali nazionali (Cts, ministero della Sanità e Presidenza del Consiglio) e di Regione Lombardia" nella mancata zona rossa in Val Seriana. Secondo Crisanti, un’altra ombra riguarda la decisione di non effettuare subito i tamponi agli asintomatici. Il 24 febbraio 2020, scrive, "il Cts evidenziava che in assenza di sintomi il test era ingiustificato" parlando del rischio di "una 'sovrastima del fenomeno sul Paese'". Una indicazione, continua il professore, che "avrà gravi conseguenze invece per comprendere cosa stava realmente accadendo", perché il "conteggio dei casi asintomatici" avrebbe dato "informazioni cruciali sull'entità della diffusione" del Covid.
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Conte e Speranza avevano "informazioni sulla gravità della situazione"
Nella consulenza, Crisanti sostiene anche che il governo sapeva della gravità della situazione. Nei giorni 27 e 28 febbraio 2020, scrive, "il Cts e il ministro Speranza hanno tutte le informazioni sulla progressione del contagio che dimostravano come lo scenario sul campo" fosse "di gran lunga peggiore di quello ritenuto catastrofico". E le "informazioni sulla gravità della situazione" ad Alzano e Nembro, secondo Crisanti, sono state oggetto di una riunione del Cts del 2 marzo "non verbalizzata ufficialmente" alla presenza "del ministro Speranza e del presidente Conte". Speranza e Conte, però, "raccontano alla Procura di Bergamo di essere venuti a conoscenza del caso di Alzano e Nembro rispettivamente" il 4 e il 5 marzo. "La documentazione acquisita dimostra oltre ogni ragionevole dubbio di come il Cts, il ministro Speranza e il presidente Conte avessero a disposizione tutte le informazioni e gli strumenti per valutare la progressione del contagio e comprendere le conseguenze in termini di decessi", aggiunge il professore.
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Le previsioni su diffusione del virus e mortalità
Nella consulenza viene riportato anche il "modello matematico" con cui Crisanti ha stimato l'effetto che misure più restrittive e tempestive, come la zona rossa, avrebbero avuto "sulla diffusione del virus e della mortalità". La zona rossa in Val Seriana, si legge, "al giorno 27 febbraio 2020 e al giorno 3 marzo 2020 avrebbe permesso di evitare, con una probabilità del 95%, rispettivamente 4.148 e 2.659 decessi". Il 27 febbraio, secondo la consulenza, è la data in cui "il Cts e Regione Lombardia erano diventati consapevoli della gravità della situazione". Anche il governatore lombardo Attilio Fontana e l'allora assessore Giulio Gallera, dice Crisanti, erano "informati sulla previsione degli scenari e sulla decisione di secretare il piano Covid". Sapevano, stando alla relazione, così come "gli organi decisionali nazionali", che "al più tardi il 28 febbraio" l'indice di trasmissione aveva raggiunto e "superato il valore di due" e la "diffusione del contagio non lasciava dubbi che le azioni intraprese non stavano avendo effetto". "Ciononostante - scrive ancora il microbiologo - per 10 giorni non vengono prese azioni più restrittive".
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Crisanti: task force sapeva della vulnerabilità dell’Italia
Crisanti, sempre nella relazione, sostiene anche che “già dal giorno 12.02.2020", cioè otto giorni prima di Paziente 1, i componenti "prima della task force del ministero e poi del Cts” erano "consapevoli della difficoltà di reperire Dpi e materiali per la loro produzione" e quindi conoscevano "la situazione di vulnerabilità in cui si trovava l'Italia e del rischio a cui avrebbero esposto la popolazione e gli operatori sanitari non prendendo iniziative idonee". Per "sopperire" alla carenza di mascherine chirurgiche e di Ffp2, nei giorni successivi al 23 febbraio 2020, agli operatori sanitari dell'ospedale di Alzano Lombardo, secondo Crisanti, è stato suggerito e data l'autorizzazione "a utilizzare le mascherine dei kit anti-incendio presenti" nei reparti. Dalle chat, aggiunge, risulta che il personale "è stato istruito a riutilizzare" le Ffp2, "procedura contraria a ogni principio di sicurezza e prevenzione". Inoltre, Crisanti sostiene che all'ospedale di Alzano Lombardo il Covid circolava già dal 4 febbraio 2020, più di due settimane prima della data del caso di Paziente 1, con tre pazienti infetti ricoverati nel reparto di Medicina al terzo piano e uno nel reparto al secondo piano "con un quadro clinico compatibile con infezione da Sars-Cov2 poi confermata con tampone molecolare". Tornando al piano pandemico, poi, il microbiologo sottolinea come “per 16 anni”, ossia dal 2004 al 2020, non è "mai stata intrapresa una singola attività o progetto che avesse l'obiettivo di valutare lo stato di attuazione del Piano Pandemico Nazionale e/o di verificare lo stato di preparazione dell'Italia nei confronti del rischio pandemico".