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Sinisa Mihajlovic e la guerra in Jugoslavia: “Chi aveva vissuto insieme si sparava”

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©Getty

L’ex calciatore e allenatore, scomparso dopo una battaglia contro la leucemia, nel 1991 aveva lasciato la città croata di Borovo, dov’era cresciuto, a causa del conflitto nella ex Jugoslavia. "Con la guerra non esistevano più i legami familiari: mio cugino voleva buttare una bomba in casa - ha raccontato anni dopo - Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, c’era la caccia al serbo". In Italia "speravo che i miei allenamenti durassero 24 ore perché solo in quei momenti non pensavo ai bombardamenti"

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"Con la guerra non esistevano più i legami familiari: un mio cugino voleva buttare una bomba in casa, mentre mio padre stava guardando in tv la Stella Rossa di Belgrado. Si fermò solo perché in casa c'era anche suo fratello insieme a mio papà". Così l’ex calciatore e allenatore Sinisa Mihajlovic - scomparso dopo una lunga battaglia con la leucemia - un anno fa raccontava gli anni terribili della guerra nella ex Jugoslavia, ricordando la città dov’era cresciuto, Borovo in Croazia, che aveva lasciato a causa del conflitto nel 1991, e parlando di come anche il suo migliore amico dell'epoca, croato, distrusse la casa dei genitori di Siniša per dimostrare l'attaccamento alla causa. Nato a Vukovar da madre croata e papà serbo, Mihajlović se ne andò dal Paese a 22 anni, ma la lontananza non cancellò mai i segni lasciati dalla guerra: "Ricordo che quando scoppiò la guerra nel mio Paese avevo vinto la Coppa dei Campioni con la Stella Rossa, poi venni in Italia. Speravo che i miei allenamenti durassero 24 ore perché solo in quei momenti non pensavo alla guerra e ai bombardamenti - ha detto all’inizio del 2022 commentando lo scoppio della guerra in Ucraina - Quando finivano era un casino: pensieri, immagini, tutto diventava difficile da gestire, essendo coinvolto direttamente".

“Stavano per mandarmi in guerra”

Era il 1995 - dopo l’Accordo di pace di Dayton - quando Mihajlović, allora giocatore della Sampdoria, raccontò che un anno prima doveva “rinnovare il passaporto” e andò “al consolato di Milano. Mi dissero che serviva un documento che attestasse il mio status di cittadino in attesa di svolgere il servizio militare. In effetti erano due o tre anni che mi chiamavano per definire la mia posizione, ma io rimandavo sempre”. “Andai a Belgrado - spiegò Mihajlović - e mi trovai davanti un generale che mi diede una divisa e cercò di mandarmi a combattere. Non voleva sentire ragioni. Provai a dirgli che come atleta ero esonerato, almeno sino al termine della carriera, ma lui insisteva, cominciava ad urlare. Riuscii a mettermi in contatto con alcuni amici della mia ex squadra, la Stella Rossa, formazione militare, che mi aiutarono a risolvere il problema. Ma che paura...”. Poi spiegò che aveva studiato un piano di fuga. “Ero pronto a scappare, mi sarei rifugiato in Italia e non sarei più tornato, almeno sino a guerra conclusa. Adesso che è tutto finito, che a casa mia non si muore più, sono felice. Quando mi hanno detto che era stata firmata l'intesa, mi sono venute le lacrime agli occhi. Ero contento per me, per la mia gente, per tutti”. Ma i ricordi restavano: “Tutte le sere prima di addormentarmi pensavo alla guerra, per me era un tormento e ora che non c'è più vivo uno dei periodi più belli della mia vita”.

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“Gente che per anni aveva vissuto insieme si sparava addosso”

Quando nel 1999 la Nato cominciò i bombardamenti sulla Federazione Jugoslava Mihajlović, ha raccontato lui stesso nel 2009 a Il Corriere di Bologna, era “in ritiro con la nazionale slava. La notte prima ci avvisarono che la guerra sarebbe potuta cominciare. Eravamo al confine con l’Ungheria, la Federazione ci trasferì in fretta a Budapest. La mattina dopo sulla Cnn c’erano già i caccia della Nato che sventravano la Serbia”. E ha ricordato: “Ho contattato i miei genitori, stavano a Novi Sad. Li ho fatti trasferire a Budapest, ma papà non voleva. Da lì siamo partiti per Roma (ai tempi giocava nella Lazio, ndr), ma dopo due giorni mio padre Bogdan ha voluto tornare in Serbia. Mi disse: ‘Sono già scappato una volta da Vukovar a Belgrado durante la guerra civile. Non lo farò ancora, non potrei più guardare i vicini di casa quando i bombardamenti finiranno’. Prese mia madre Viktoria e se ne andarono. Ero preoccupato, ma fiero di lui”. Poi ha aggiunto: “Io sono nato a Vukovar, i croati erano maggioranza, noi serbi minoranza lì. Nel 1991 c’era la caccia al serbo: gente che per anni aveva vissuto insieme da un giorno all’altro si sparava addosso. È come se oggi i bolognesi decidessero di far piazza pulita dei pugliesi che vivono nella loro città. Mia madre Viktoria è croata, mio papà serbo. Quando da Vukovar si spostarono a Belgrado, mia mamma chiamò suo fratello, mio zio Ivo, e gli disse: ‘C’è la guerra mettiti in salvo, vieni a casa di Sinisa’. Lui rispose: ‘Perché hai portato via tuo marito? Quel porco serbo doveva restare qui così lo scannavamo’. Il clima era questo”.

“Resistere alla paura”

Mihajlović ha parlato in più occasioni della guerra che ha impresso un segno indelebile nella sua vita, lo ha fatto ad esempio nel 2015 dopo gli attentati di Parigi invitando a resistere alla paura, come i serbi che facevano da scudi umani sui ponti di Belgrado per evitare i bombardamenti. “Questa è una guerra, ma è una guerra strana se la paragono a quella della ex Jugoslavia: là sapevi almeno chi ti attaccava, da dove venivano i pericoli, c'erano bombe e coprifuoco. Qua non sai cosa aspettarti, vai al ristorante, allo stadio, e ti sparano". “Ricordo che a Belgrado, quando venivano i giornalisti stranieri, vedendo tutti i ristoranti pieni chiedevano se la gente non avesse paura - disse Mihajlović - Magari aveva paura, ma non voleva dare soddisfazione al nemico. Una volta bombardarono un ponte. Ne restava solo un altro. Senza quello, per arrivare sull'altra sponda di Belgrado bisognava viaggiare per 60 chilometri. La gente lo difese col proprio corpo: 24 ore al giorno, 10-15mila persone, facevano i concerti, ci andavano con i bambini, sperando che non lo bombardassero. E non lo bombardarono”.

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Il ritorno a Borovo dopo 24 anni

Sempre nel 2015, Mihajlović tornò a Borovo dopo 24 anni. Fu il quotidiano di Belgrado Kurir a pubblicare  le foto esclusive di Siniša di fronte alla casa lasciata nel 1991, alla sua scuola elementare, ma anche sul campo dell'FC Borovo, dove aveva mosso i primi passi nel calcio.

“Rischiai di farmi sparare da Arkan”

Un racconto di sé stesso a tutto tondo Siniša Mihajlović l’ha fatto nell’autobiografia La partita della vita, scritta nel 2020 insieme ad Andrea Di Caro. E una parte importante è quella del rapporto con Arkan, vero nome Željko Ražnatović, militare e agente segreto jugoslavo di etnia serba a capo della formazione paramilitare “le Tigri di Arkan”. "La prima volta che l'ho incontrato fu per Vojvodina Stella Rossa - raccontò Mihajlović - Era il capo degli ultras e sedeva in panchina. A fine partita lo mandai aff... senza sapere chi fosse. Mi aspettava fuori dagli spogliatoi con una pistola. I suoi crimini efferati sono orribili, li condanno. Come tutti i crimini da una parte e dall'altra. La guerra nella ex Jugoslavia ha tanti colpevoli. Non ho mai difeso la vita violenta di Arkan e tantomeno le nefandezze di cui si macchiato guidando le ‘Tigri’. Ma mi voleva bene".

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