Radiohead, Thom Yorke: "Mai più concerto in Israele finché ci sarà Netanyahu"

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In un’intervista rilasciata al Sunday Times otto anni dopo le critiche ricevute per uno show a Tel Aviv, il frontman della band ha espresso la propria prosizione sull'attuale governo del primo ministro israeliano

“Assolutamente no. Non vorrei trovarmi a meno di 8.000 chilometri dal regime di Netanyahu”. In un’intervista rilasciata al Sunday Times, Thom Yorke, il frontman dei Radiohead, ha dichiarato che non si esibirà più in Israele finché sarà in carica il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Come precisa il quotidiano britannico The Guardian, l’intervista ai membri della band è avvenuta prima dell’accordo di cessate il fuoco siglato questo mese tra Israele e Hamas.

LE VICISSITUDINI DEI MEMBRI DEI RADIOHEAD

Il prossimo mese i Radiohead inizieranno il loro primo tour in sette anni, con 20 concerti in cinque città europee (compresa Bologna il 14 novembre). Prima della conferma ufficiale delle date, la Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel aveva richiesto il boicottaggio del tour, in conseguenza dell’esibizione a Tel Aviv del chitarrista Jonny Greenwood nel 2024. Il compagno di band di Yorke è sposato con l’attrice israeliana Sharona Katan e ha affrontato continue critiche da parte dei sostenitori del boicottaggio per la sua lunga collaborazione con il musicista rock israeliano Dudu Tassa. In ogni caso, lo scorso anno Greenwood si era unito alle proteste in Israele per chiedere la rimozione del primo ministro Benjamin Netanyahu. Nell’intervista al Sunday Times, il chitarrista ha comunque dichiarato di aver trascorso con la famiglia molto tempo in Israele e di “non vergognarsi di lavorare con musicisti arabi ed ebrei”. Ha inoltre aggiunto che, secondo lui, sarebbe "più probabile che il governo usi il boicottaggio e dica: "Tutti ci odiano, dovremmo fare esattamente quello che vogliamo". Il che è molto più pericoloso". Ancora, il tour mondiale A Moon Shaped Pool dei Radiohead del 2016-2018 aveva suscitato reazioni negative per l’esibizione della band avvenuta a Tel Aviv nel 2017, nonostante gli appelli al boicottaggio e le critiche di diversi personaggi del mondo della cultura, compreso il regista britannico Ken Loach. “Suonare in un Paese non è la stessa cosa che appoggiarne il governo”, aveva replicato all'epoca Thom Yorke su X. “Abbiamo suonato in Israele per oltre 20 anni, sotto una serie di governi, alcuni più progressisti di altri. Come abbiamo fatto in America. Non appoggiamo Netanyahu più di Trump, ma continuiamo a suonare in America”. Il cantautore aveva criticato il movimento a guida palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro Israele (BDS), che aveva definito “estremamente paternalistico” e “offensivo”. Nella nuova intervista, però, il frontman ha lasciato intendere un certo rammarico per la decisione di esibirsi a Tel Aviv nel 2017. Ora, dopo l’annuncio dei prossimi concerti del gruppo, il BDS ha sostenuto che il “silenzio complice” della band e il sostegno agli artisti israeliani durante il “genocidio contro i palestinesi a Gaza” avrebbero dovuto indurre il boicottaggio degli show. “Tutto questo mi tiene sveglio la notte”, ha dichiarato Yorke. La sua posizione nei confronti di Israele era stata messa in discussione anche lo scorso anno durante un suo concerto solista a Melbourne, in Australia. Il cantante aveva abbandonato brevemente il palco dopo essere stato apostrofato da un contestatore filo-palestinese: “Quanti bambini morti ci vorranno per condannare il genocidio a Gaza?”. In seguito, l’artista aveva dichiarato che l’incidente l’aveva lasciato “sotto shock, perché il mio presunto silenzio era stato in qualche modo preso come complicità”. Aveva poi definito Netanyahu e la sua amministrazione “estremisti” che “devono essere fermati”. Nella recente intervista al Sunday Times ha raccontato che ultimamente "mi è capitato di sentirmi gridare “Free Palestine!” per strada. Ho parlato con un tizio. Diceva: “Hai un programma, un dovere e devi prendere le distanze da Jonny”. Ma io ho risposto: “Io e te, in piedi per strada a Londra, a urlarci addosso? Be’, i veri criminali, che dovrebbero comparire davanti alla Corte Penale Internazionale, ridono di noi che litighiamo così e sui social media, mentre loro continuano impunemente a uccidere persone”. È un’espressione di impotenza. È un test di purezza, una caccia alle streghe di basso livello alla Arthur Miller. Rispetto profondamente lo sgomento, ma è molto strano essere la vittima”.

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