Il libro che racconta la storia dei Radiohead oltre il loro mito

Pop is dead. La storia dei Radiohead è un libro che entra nella stanza dove la musica prende forma e la leggenda si costruisce. Fernando Rennis, giornalista musicale, lo ha scritto come un cronista: ascoltando decine di voci, incrociando versioni, inseguendo indizi minimi fino a farne prove. Il risultato è un racconto che smonta gli stereotipi e ricompone il quadro con rigore: i Radiohead come un paradosso vivo del pop—capaci di spingersi fuori asse senza perdere la centralità della canzone. Metodo d’indagine e fonti Nel libro si percepisce un lavoro da inchiesta. Come ha costruito la sua rete di fonti? Ho parlato con un numero enorme di persone: tecnici, musicisti, registi, giornalisti, compagni di scuola. Alcune hanno chiesto più volte di non essere citate. Con quelle fonti, per verificare, proponevo tre ricostruzioni che ritenevo vere e una falsa: spesso abboccavano. Poi però arrivava il caps lock: PLEASE DO NOT MENTION ME. È stato un puzzle, ma sempre con un principio: niente gossip, solo rigore e double check. Qual è stato l’accesso più delicato? Le ultime interviste sono state con la responsabile della galleria Tin Man Art: mi hanno fatto avere materiale prima che uscisse — script con commenti, premix, persino appunti di Thom Yorke. Ho mantenuto la privacy della band: l’obiettivo non era la curiosità morbosa, ma il giornalismo. Come si riaccende la memoria di chi ha vissuto le session? Ricostruendo la scena. A volte partiva da un dettaglio minuscolo e poi riaffiorava tutto: “Quella sera Thom si è seduto, ha fatto Everything in Its Right Place e l’abbiamo registrata”. In Rainbows: oltre la leggenda La pubblicazione “pay-what-you-want” del 2007 è entrata nel mito. Che cosa ha scoperto? Che non fu un colpo di teatro nato in due giorni. È stata un’operazione andata avanti per mesi, con un livello di segretezza incredibile: nemmeno alle famiglie avevano rivelato l’esistenza del disco e la data di uscita. Da dove è partito per ricostruire quel periodo? Da un indizio marginale: un’intervista in cui si citava Primrose Hill. Lì vicino c’era uno studio. Ho contattato chi lo frequentava: la prima risposta è arrivata da un tirocinante . Da lì, tassello dopo tassello, tutto è andato al suo posto — everything in its right place. In che modo quell’episodio ha cambiato anche la comunicazione della band? Dopo Kid A molte sorprese si sono spostate sul lato della promozione. Nel libro ricostruisco la giornata di The King of Limbs: il livello di attenzione fu tale che qualcuno fece un live blog per un’uscita discografica. Sono maestri nel ribaltare i rituali dell’hype. Dov’è il bivio che trasforma i Radiohead in una band “mitologica”? Tra il 1997 e il 2000. OK Computer suona da subito come un classico: chitarre, ambizione, forma-canzone che si allarga. Con Kid A fanno un disco anticapitalista anche nel modo di promuoverlo. Poi In Rainbows allunga quella traiettoria: per molti è stato “il loro OK Computer”, un nuovo punto d’ingresso generazionale. Pop vs sperimentazione: smontare gli stereotipi Quali stereotipi ha voluto mettere in discussione? Che siano solo cupi o esclusivamente politicizzati. In realtà sono meno tristi e meno ‘militanti’ di quanto sembri. E meno “sperimentali” di quanto li raccontiamo: sotto c’è sempre una base molto pop, ed è anche così che si vendono 30 milioni di dischi. Idioteque, alla fine, è strofa-ritornello. “Pop is dead” è una condanna o una chiave di lettura? È una chiave. Dicono: “facciamo pop”, e insieme lo uccidono — nel senso che allungano i margini del pop e poi lo fanno rinascere. Li penso come una “bara trasparente”: puoi vedere se c’è ancora uno spasmo, un ritorno alla vita. Accanto a un brano più spigoloso ne mettono uno struggente, e i due convivono nella stessa identità. Li vede più vicini ai Pink Floyd o ai Beatles? Molti citano i Floyd, ma loro non hanno mai fatto un lato occupato interamente da un brano di 23 minuti. Direi: più vicini ai Beatles per l’attitudine — prendere il pop e spingerlo il più lontano possibile restando canzone. Nuove generazioni, social e “caccia al tesoro” Che cosa rappresentano oggi per chi li scopre nello streaming? Una doppia via: attrazione e respingimento. Se entri nel loro mondo, trovi umanità. Curano ancora i dischi — l’ordine dei brani — e i video provano sempre a stuzzicare. Quando un trend come TikTok rilancia Let Down succede a molti; con loro funziona perché l’esperienza è progettata. Perché la band continua a usare strumenti analogici dentro il digitale ? Perché così riportano il gioco nel mondo reale. La gente scriveva su Reddit, ma poi doveva andare nei posti. I segnali erano nascosti in teatri o store inattesi. L’effetto sorpresa è la loro firma. C’è un rischio nel raccontarli? Idealizzarli. È giusto criticarli quando serve, ma ricordiamo anche che hanno insegnato molto: non solo canzoni, spesso sul loro blog condividevano link, idee, proteste. Hanno educato a guardare oltre. Due brani per capirli Il “classico totale” e la sua scelta personale? Paranoid Android: sei minuti e mezzo come primo singolo radio e funziona. Body Snatchers, invece, il mio: loro in una stanza, prima take, energia pura… Li ho odiati perché le volte che li ho visti live non l’hanno fatta. Un paradosso che funziona Il merito di Pop is dead è riportare i Radiohead alla loro scala reale: non un santino, ma un organismo vivo fatto di metodo, scelte rischiose e controllo del racconto. È così che una band rimane centrale per decenni: spostando i confini del pop senza smarrire la canzone, tenendo insieme accessibilità e inquietudine, sorpresa e progetto. Se i Radiohead sono un paradosso, questo libro spiega perché quel paradosso funziona.

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Il libro che racconta la storia dei Radiohead oltre il loro mito

Giuditta Avellina