Robbie Williams in concerto a Trieste: perché il suo mito resiste
Musica ©GettyIl concerto di Trieste è l’unica tappa italiana del tour 2025, ma la forza di Robbie Williams va oltre la musica. Tra leggenda pop, culto da fan e revival anni ’90, il suo carisma tiene in piedi una carriera che vive più sul palco che in classifica
Non è un disco nuovo a riportarlo in Italia. Non c’è un singolo in classifica, nessuna challenge virale su TikTok. Eppure, il 17 luglio, a Trieste, accade qualcosa che somiglia a un rito: Robbie Williams torna sul palco per l’unica data italiana del suo tour 2025, e lo fa come solo lui sa fare — con una fanbase devota, una scenografia da musical rock e quel carisma tutto britannico che oggi, nell’era degli algoritmi, ha il sapore di un’arte perduta. Robbie non è solo un artista: è un fenomeno culturale. L’ultimo grande showman in un mondo che non sa più bene cosa farsene degli showman. Ma lui resiste. E questo, in fondo, è già uno spettacolo. Robbie Williams, a Trieste, allo stadio Nereo Rocco mette in scena un piccolo rito collettivo per chi ha attraversato gli anni ’90 e 2000 con un poster in camera o una storia da raccontare su “Angels”, “Feel”, o anche solo sul video iconico di “Rock DJ”. E allora la vera domanda è: perché Robbie resiste?
Il carisma come opera d’arte
Nel 2023 Netflix gli ha dedicato una docuserie personale e malinconica che più che celebrare, mostrava le crepe, i traumi, l’abisso e il ritorno. Come se a differenza di tante popstar, Robbie avesse capito che la sua forza non è l’infallibilità, ma la vulnerabilità mostrata con ironia, la fragilità come un tratto distintivo. “Sono diventato una rockstar perché avevo bisogno di essere amato”, ha detto più volte. E questa onestà emotiva, unita a un’innata presenza scenica, lo ha reso unico: né eroe né anti-eroe, ma uno con cui ci si può identificare. A quasi 51 anni, Robbie non è in cima alle classifiche, ma lo è nel cuore di chi cerca uno show pieno, teatrale, coinvolgente. E in questo senso, è rimasto uno dei pochi artisti a poter reggere da solo un’arena. Non serve un nuovo tormentone: bastano lui, il pubblico e un microfono. È showbusiness allo stato puro, ma con uno spessore emotivo che sorprende: non è nostalgia, è teatro pop.
Robbie e la sindrome da Take That: chi ha davvero vinto?
Un paradosso interessante: tra tutti i Take That, lui è stato quello più fuori controllo, ma anche il più memorabile. Mentre gli altri hanno cercato coerenza e rispettabilità, Robbie ha scelto la strada della frizione: l’enfant terrible, il disertore, quello che esce e rientra nei giochi. E anche questo è parte del fascino: Robbie non è mai stato perfetto, ma sempre riconoscibile.
Cinque momenti cult della carriera di Robbie Williams
1. 1995 – L’addio turbolento ai Take That
Esce dalla boy band più famosa d’Europa sbattendo la porta, in piena crisi personale e professionale: è la sua prima vera dichiarazione d’indipendenza: caos, ma anche carisma.
2. 1997 – L’esplosione solista con “Angels”
Quando tutto sembrava finito, arriva Angels. Una ballata epica che diventa un inno generazionale e da lì in poi, Robbie è leggenda pop.
3. 2000 – Il video censurato di “Rock DJ”
Si spoglia letteralmente della pelle. Un videoclip che fece il giro del mondo, tra censura e culto e ancora oggi uno dei suoi momenti più iconici.
4. 2003 – L’esibizione storica a Knebworth davanti a 375.000 persone
Tre notti da headliner, da solo, nel tempio dei grandi concerti britannici. Una consacrazione che nessun altro ex boybander ha mai raggiunto.
5. 2023 – La docuserie Netflix
Robbie mostra le fragilità, la depressione, il disturbo da ansia sociale. Il pubblico lo scopre (o riscopre) più umano che mai, in un racconto intimo che diventa virale.
Cinque canzoni memorabili per riscoprire Robbie Williams
1. “Feel” (2002) – Il lato adulto di Robbie
Con Feel, Robbie Williams si scrolla di dosso definitivamente l’etichetta del popstar post-boyband per raccontare qualcosa di più profondo. È un brano che parla di vuoto interiore, di desiderio di connessione, di vulnerabilità autentica. Il video, ambientato in un paesaggio rurale americano, con la guest star Daryl Hannah, accompagna una delle sue performance più intense e sincere. Feel è il momento in cui Robbie si mostra davvero per quello che è – non solo l'intrattenitore brillante, ma anche l'uomo dietro il riflettore.
2. “Let Me Entertain You” (1998, live at Glastonbury) - Il mattatore
Il live a Glastonbury nel 1998 rappresenta uno spartiacque: Robbie Williams si prende la scena con una sicurezza animalesca, scatenato e irresistibile. Let Me Entertain You non è solo un inno pop-rock, è una dichiarazione di intenti. In quella performance c’è tutta la sua natura camaleontica: irriverente, carismatica, larger-than-life. Guardarlo oggi è come osservare il passaggio di testimone tra due decenni – l’innocenza degli anni ’90 che sfuma nell’edonismo del nuovo millennio.
3. “No Regrets” (1998) – La confessione post-Take That
Più che una semplice canzone, No Regrets è una resa dei conti. Con gli ex compagni dei Take That, ma anche con se stesso. Il testo è uno dei più taglienti e personali della sua carriera, un vero sfogo emotivo che, tra rancore e rimpianto, racconta il lato oscuro del successo. Il video, cupo e introspettivo, accompagna perfettamente questa confessione amara. Per chi vuole capire quanto costi davvero diventare solista dopo essere stato parte di un fenomeno pop.
4. “Come Undone” (2003) – Il caos sotto la superficie
Provocatorio, disturbante, quasi grottesco: il video di Come Undone fu censurato da diverse emittenti televisive all’epoca, ma oggi sembra anticipare temi che la Gen Z esplora con grande consapevolezza. Identità, eccessi, autodistruzione, la difficoltà di trovare equilibrio nel caos mediatico e personale. Un Robbie Williams esausto, quasi alienato, canta la sua disfatta con lucida ironia.
5. “Angels” (live at Knebworth, 2003) – Il momento immortale
Davanti a 125.000 persone, Robbie Williams intona Angels in uno dei concerti più leggendari della sua carriera. È l'apice emotivo del suo rapporto con il pubblico, il momento in cui la canzone – già iconica – diventa qualcosa di collettivo, quasi spirituale, una catarsi condivisa.