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Civil War, guerra follia e fotografia. La recensione del film di Alex Garland

Cinema

Paolo Nizza

Arriva al cinema dal 18 aprile, un viaggio nel cuore di tenebra di un’America dilaniata dal conflitto. L’istantanea dolente e feroce di un futuro prossimo venturo, tra presidenti autoritari, militari violenti e fotoreporter cinici e disperati

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Bye Bye Land of Freedoom. La terra della libertà e delle opportunità si è trasfigurata in un deserto di dolore e violenza. Gli Stati uniti di Civil War (nelle sale cinematografiche italiane a partire da giovedì 18 aprile”, sono un Paese diviso in due. Una nazione al collasso. E forse solo un regista inglese come Alex Garland poteva raccontare con efficacia sul grande schermo il crudele declino americano. Dopo l'Apocalisse da camera vista in Men (per chi scrive un horror molto  potente e molto sottovalutato) il cineasta britannico alza il tiro e ci mostra una catastrofe collettiva. D’altronde cosa c’è di più incivile di una guerra civile? Al netto dell’epifania di riferimenti alla recente storia a stelle e strisce (il campo base dei secessionisti si trova a Charlottesville, dove nel 2017 nel corso di una manifestazione neofascisti, nazionalisti bianchi, neonazisti, membri del Ku Klux Klan uccisero una donna dii 32 anni, Heather Heyer, ferendo altre 35 persone), il lungometraggio riguarda l’intero globo terracqueo. E ancora una volta torna purtroppo di stretta attualità la frase di George Santayana incisa in trenta lingue, sul monumento all'ingresso del campo di concentramento di Dachau. "Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”. Non a caso il personaggio della fotoreporter interpretato da Kristen Dunst si chiama Lee Miller, come la prima donna che entrò e fotografò il campo di concentramento aperto il 22 marzo 1933 su iniziativa di Heinrich Himmler.

Tra Orizzonti di GloriaI guerrieri della notte e Gangs of New York

Gli eroi non abitano qui. Come in Orizzonti di Gloria di Kubrick, Non c’è nessun’idea romantica del conflitto in Civil War, Il celeberrimo scatto Raising the Flag on Iwo Jima datato 1945 si è trasfigurata in una fotocopia sbiadita e stropicciata. In un futuro non troppo lontano. Le forze occidentali del Texas e della California e il popolo dell’Alleanza della Florida si sono ribellate a Washington. Il presidente degli Stati Uniti (i suoi modi dittatoriali e presuntuosi non sono troppo distanti da Donad Trump) lancia appelli perché i secessionisti si arrendano. Ma sono solo parole spazzate via dai venti di guerra. Se come recitava il claim di Gangs of New York d Martin Scorsese “L’America è nata nelle strade, secondo il film di Garland sarà sempre nelle strade che morirà” Sicchè il film si trasforma in un road-movie. Come l’armata protagonista dell’Anabasi di Senofonte, la fotoreporter di guerra Lee (Kirsten Dunst) insieme alla giovane aspirante fotografa Jesse (Cailee Spaeny), al giornalista Joel (Wagner Moura) e all’anziano reporter Sammy (Stephen McKinley Henderson), partono alla volta della Casa Bianca con la speranza di strappare un’intervista al capo del governo. Tuttavia, il loro viaggio sarà più tortuoso e pericoloso di quello compiuto dai Warriors per tornare a Coney Island in I Guerrieri della notte di Walter Hill.

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Che tipo di americano sei?

Militari, appostati come cecchini, che uccidono, esclusivamente per non essere uccisi e non hanno la minima idea dei nemici a cui stanno sparando. Il folle soldato (interpretato un Jesse Plemons da paura) che chiede “Che tipo di americano sei? ) e se dai la risposta sbagliata finisci orizzontale in una fossa comune. Bastano queste due scene epocali per comprendere che in Civil War non esiste un senso per la guerra che viene combattuta. Le stesse ragioni del conflitto non vengono esplicate. A Garland interessa mostrare la follia e l’orrore della guerra. Lo stesso orrore profetizzato dal colonello Kurtz in Apocalypse Now, sono “uomini vuoti che appoggiano l’un l’altro la testa di paglia. Solo che a differenza della poesia di Eliot, in questo film il mondo non finisce con un lamento, ma con uno schianto. Il regista ha scelto che venissero usate pallottole a salve. Voleva che gli attori percepissero il rumore spaventoso degli spari. 

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Una danza macabra sulle note di America The Beautiful

Gli scontri in Civil War sono brutali, realistici e mai compiaciuti, Il terrore corre sul filo dei parcheggi abbandonati, il sangue non sprizza come una fontanella, ma scorre sull’asfalto quando un cadavere è rimasto steso a lungo. Immagino durante la pandemia e sceneggiato prima degli eventi di Capitol City e dell’assalto al Campidoglio, la pellicola è la spaventosa radiografia di un mondo fratturato. Caos, brutalità, disintegrazione e divisione si agitano in questa danza macabra cadenzata dalle note di Sweet Little Sister degli Skid Row e di Say No Go di De La Soul. Ma la musica più inquietante è America The Beautiful. Quell’inno patriottico solo fischiettato è il preludio al trionfo della morte. E il film di Garland ci obbliga a guardare negli occhi quella che potrebbe essere la nostra fine, il nostro ultimo sguardo se non decideremo di cambiare e di tornare a comunicare.