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Cancel culture, da Harvey Weinstein a Eminem: cos'è e cosa significa

Spettacolo

Camilla Sernagiotto

Unsplash

La cultura della cancellazione è una forma moderna di ostracismo con cui si estromette qualcuno da cerchie sociali o professionali. Colpisce figure pubbliche, brand, prodotti di consumo e dell’entertainment a seguito di dichiarazioni o fatti considerati offensivi. Da Via col vento (eliminato dal catalogo HBO prima di essere riammesso con un'introduzione ad hoc) a Pepé Le Pew che non comparirà nel sequel di Space Jam presumibilmente perché maschilista e molesto, oggi la cancel culture è all'ordine del giorno

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Cancel culture è una delle espressioni ultimamente più usate e il perché risiede nel suo successo odierno: oggigiorno, infatti, ce ne viene offerto quasi un caso al dì.
Ma cosa significa esattamente “cancel culture”? Letteralmente si può tradurre con “cultura dell'annullamento” o “cultura della cancellazione” (in inglese ci si riferisce a essa non solo con l’espressione di cancel culture ma anche con quella di call-out culture).

 

Andando oltre alla traduzione letterale, si tratta di una forma moderna e attualissima di ostracismo con cui una tal persona così come un brand o un gruppo commerciale vengono messi al bando, con un’estromissione totale dalle cerchie sociali, social e/o professionali.
In pratica si smette immediatamente di supportare il nome in questione, reo solitamente di aver detto oppure fatto qualcosa di molto offensivo, altamente discutibile e per molti inammissibile.

 

A esserne colpiti sono figure pubbliche, star, marche e gruppi commerciali, chiunque faccia parte di quell’Olimpo di celebrità insomma. E con la cancel culture è proprio da quell’Olimpo di Vip che si viene cacciati.  

Cancel culture: un’espressione con connotazione negativa

L’espressione “cancel culture” ha una connotazione abbastanza negativa poiché cancellare non è mai la soluzione vincente: la millenaria pratica del nascondere la polvere sotto al tappeto non ha dato buoni frutti, anzi.

Nascondere sotto il tappeto gli scheletri nell’armadio, per esempio, è solamente un trasferire qualcosa di cui ci si vergogna. Ma "l’archeologia sociale" ci insegna che tutto prima o poi riemerge, qualsiasi cosa torna a galla. E gli effetti di quel riemergere pare possano essere ancora più devastanti.


Quindi la cultura della cancellazione, oltre a ledere in qualche modo i diritti della libertà d'espressione e a estremizzare il vecchio caro (in cui "vecchio caro" è a volte inteso come trito e ritrito) politically correct, è da molti osteggiata. Della serie: occhio non vede, cuore non duole anche no.

Nei casi gravi - come quelli che portano a soluzioni estreme quali la cancel culture - non basta accantonare il problema per risolverlo. E non basta non pensarci più, anzi: così facendo, secondo i moltissimi detrattori della call-out culture, si rischia di scivolare in un eterno ripetersi del tal problema, auto-condannandoci a un perpetuo “giorno della marmotta” (citazione al film Ricomincio da capo con Bill Murray, titolo originale Groundhog Day appunto) in cui ci risveglieremo sempre con quella cosa sul groppone.

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La cancel culture contro il razzismo

Dopo la morte di George Floyd (avvenuta il 25 maggio 2020), si sono registrati molti episodi che si possono ascrivere alla cancel culture. Dall’iconoclastia per rimuovere monumenti e statue legati alla storia del razzismo e dello schiavismo fino all’eliminazione dal catalogo HBO Max del film Via col vento (riammesso dopo pochi giorni con un’introduzione che spiega che quella rappresentazione del Sud degli States di allora è inammissibile in quanto nega gli orrori della schiavitù, quindi in questo caso la cancel culture è stata poi corretta, riproponendo il contenuto con una spiegazione introduttiva. Lo stesso dicasi per il cartello disclaimer aggiunto ad alcuni film di animazione della Disney), parecchi episodi di cancel culture si stanno susseguendo dopo la morte di George Floyd e le conseguenti proteste del movimento attivista internazionale Black Lives Matter.

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La cancel culture contro maschilismo, misoginia, omofobia e molestie sessuali

Oltre a cancellare opere d’ingegno, statue e qualsiasi cosa possa simboleggiare un passato razzista e schiavista, la cancel culture va a colpire anche persone, brand, aziende e celebrità in generale che si rivelano portatori di idee e considerazioni di tipo maschilista, misogino e/o omofobo. Gli ultimi casi di una lunghissima lista sono quelli di poche ore fa che hanno coinvolto da un lato Eminem e dall’altro Pepé Le Pew (la puzzola dei Looney Tunes).

 

Il rapper è al centro di un dibattito social per cui la Gen Z sta chiedendo a gran voce che le canzoni del musicista vengano rimosse da TikTok in quanto portatrici di idee misogine. La puzzola cartoon, invece, si è vista negare la scena che la vedeva protagonista in Space Jam: a New Legacy, non si sa ufficialmente per quale motivo ma sappiamo che il personaggio è stato recentemente accusato di maschilismo e di molestie sessuali da Charles M. Blow, editorialista del New York Times (che ha affermato che Pepé promuoverebbe la “cultura dello stupro”).

 

Secondo alcune fonti del magazine Deadline, già in un primo montaggio risalente a tre mesi fa non ci sarebbero state più tracce di Pepé (quindi ben prima del recente j'accuse dell'editorialista del NYT) tuttavia le ragioni della sua eliminazione potrebbero essere le stesse di cui ha parlato Charles M. Blow.

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Un capitolo a parte riguarda le molestie sessuali commesse

C’è poi la cancel culture intesa come ostracismo verso coloro che hanno commesso molestie sessuali (nella realtà, non come nel caso di Pepé La Puzzola che è un cartoon, portatore di valori sbagliati ma comunque non reo di aver commesso realmente molestie e violenze sessuali, ecco).


Il nome numero uno a cui il nostro pensiero va oggi quando si sente la parola molestie è Harvey Weinstein, colui contro il quale è nato il movimento #MeToo grazie anche al lavoro di Ronan Farrow, giornalista figlio di Mia Farrow e Woody Allen a cui va il merito (e il Pulitzer) di aver scoperchiato il vaso di Pandora. Anzi: "il vaso di Weinstein" dato che le tantissime attrici e celeb che si sono unite al coro del #MeToo denunciando le molestie subite dal produttore cinematografico statunitense rivelano quanto il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura (quello di Pandora, nella mitologia greca) sia quello di Weinstein, nella mitologia hollywoodiana.

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Tanti intellettuali contro la cancel culture

Il 7 luglio 2020 circa 150 intellettuali (tra cui Noam Chomsky, J.K. Rowling, Salman Rushdie, Margaret Atwood e Francis Fukuyama) hanno pubblicato su Harper's Magazine una lettera aperta intitolata A Letter On Justice And Open Debate in cui si sono espressi a sfavore della cancel culture.

 

Secondo questi intellettuali, a essere indissolubilmente legati alla cultura dell’annullamento ci sarebbero parecchi pericoli relativi a "una nuova serie di standard morali e schieramenti politici che tendono a indebolire il dibattito aperto in favore del conformismo ideologico", citando alcuni passaggi della lettera.

Pochi mesi più tardi, il 31 dicembre 2020, il musicista australiano Nick Cave ha identificato la cancel culture come "opposto della pietà" e come degenerazione ed estremizzazione del politicamente corretto, divenuto a suo avviso "la più infelice religione del mondo”.

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