Referendum, il rapporto Luiss: "Il giudizio sulla riforma dipenderà dalla sua attuazione"

Politica

Il policy brief della School of Government della Luiss. Nicola Lupo, Professore ordinario di Diritto pubblico e direttore del Master in Parlamento e Politiche Pubbliche Luiss

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Parlamento in seduta comune nell'Aula di Montecitorio per l'elezione di un giudice della Corte Costituzionale, Roma, 11 gennaio 2017.
ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Il 20 e il 21 settembre gli italiani sono chiamati a votare sulla legge di revisione costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari. Ecco le osservazioni del direttore del Master in Parlamento e politiche pubbliche della Luiss School of Government

I prossimi 20 e 21 settembre gli Italiani sono chiamati a votare per un referendum sulla legge di revisione costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari, legge approvata in meno di un anno e con un elevato consenso parlamentare (ma inferiore, nella seconda deliberazione del Senato, alla soglia dei due terzi dei componenti, e tale quindi da consentire la richiesta di un referendum da parte di 71 senatori). Tale legge, attraverso un micro-emendamento alla Costituzione, prevede la riduzione rispettivamente a 400 e a 200 dei deputati e dei senatori – una riduzione di poco più di un terzo rispetto a oggi – e compie due operazioni a ciò strettamente consequenziali: riduce (sempre di un terzo) i parlamentari eletti all’estero e codifica l’interpretazione secondo cui i senatori a vita di nomina presidenziale non possono in ogni caso superare il numero di cinque (REFERENDUM: TUTTO QUELLO CHE C'È DA SAPERE). 

Il giudizio sulla riforma dipenderà per larghissima parte dalla sua attuazione

L’esposizione e il confronto delle ragioni del “Sì” e del “No” a questa riforma costituzionale, anche per il carattere binario della decisione che naturalmente la consultazione referendaria impone a ogni singolo elettore, sono stati finora predominanti nel dibattito pubblico. Tuttavia una scelta di voto davvero informata e una analisi effettivamente ponderata degli esiti effettivi della consultazione consiglierebbero di dedicare maggiore spazio d’approfondimento alle dinamiche di attuazione della riforma costituzionale. Il processo di attuazione delle riforme della Carta riveste infatti un ruolo cruciale sia quando si tratti di revisioni costituzionali organiche, sia nel caso di interventi “a grappolo”, sia nel caso di specie caratterizzato emendamenti costituzionali specifici e puntuali. A maggior ragione perché quella in discussione è una riforma puntuale e chiara nei suoi contenuti, ma non altrettanto chiara nei suoi effetti sistemici. Così, per parafrasare un noto slogan pubblicitario degli scorsi anni, in particolare questa volta “la riforma è nulla, senza l’attuazione”. Detto altrimenti, il giudizio sulla riforma dipenderà per larghissima parte dalla sua attuazione. Vediamo perché, proponendo alcuni esempi.

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Il "non problema" dei quorum parlamentari

La Costituzione italiana non stabiliva all’origine il numero fisso di deputati e senatori, ma prevedeva numeri variabili legati alla popolazione. Coerenti con questa scelta sono le previsioni contenute in Costituzione relative alle funzioni e alle procedure parlamentari. Diritti e facoltà sono infatti affidati dalla Costituzione al parlamentare singolo ovvero a frazioni. L’articolo 62, secondo comma, della Costituzione, per esempio, attribuisce a “un terzo” dei componenti di ciascuna Camera il diritto di chiederne convocazione straordinaria. Disposizioni costituzionali di questo tipo sono riprodotte in corrispondenti previsioni dei Regolamenti parlamentari. Tutti i numeri espressi in termini di frazione sono sostanzialmente indifferenti rispetto alla revisione costituzionale di cui si discute: indifferenti, cioè, rispetto alla composizione delle Camere, perché in un modo o nell’altro tutte queste frazioni sono già previste nel testo costituzionale ed erano state pensate in relazione ad organi la cui composizione numerica non era stata, dalla stessa Costituzione, determinata in maniera fissa. 

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Montecitorio
Montecitorio, sede della Camera - ©Ansa

I diritti dei parlamentari da ampliare

Un diverso ragionamento si deve fare invece in riferimento alle previsioni dei due Regolamenti di Camera e Senato che affidano a un numero fisso di parlamentari diritti e facoltà (in genere si tratta dell’attivazione di procedure). Alla Camera, per esempio, l’opzione dominante è quella di attribuire dei poteri o a un numero fisso di deputati – pari a venti o, nei casi più significativi, a trenta – o, in alternativa, a “uno o più presidenti di Gruppi che, separatamente o congiuntamente, risultino di almeno pari consistenza numerica”. Una volta ridotto complessivamente il numero di parlamentari, tali soglie diventerebbero molto più difficili da raggiungere. Mantenerle così come sono farebbe sì che diventerebbe, ad esempio, più difficile inserire nuovi argomenti all’ordine del giorno o riaprire la discussione generale. Ciò renderebbe forse più spediti i dibattiti parlamentari, ma a discapito del pluralismo. Dunque una riflessione è urgente in materia, per esempio ipotizzando di ampliare i diritti del parlamentare singolo (lungo una via che sembra suggerita dalla Corte costituzionale, a partire dall’ordinanza n. 17 del 2019).

Il numero di Commissioni parlamentari da rivedere

Altro snodo chiave posto dalla riduzione dei parlamentari è quello delle commissioni parlamentari. La regola tradizionale per cui ciascun parlamentare può, e al tempo stesso deve, appartenere a una sola Commissione permanente, alla quale è designato da parte del gruppo di appartenenza, non potrà per esempio non essere ripensata. In un Senato composto da duecento senatori elettivi, il numero medio di senatori per ogni Commissione permanente oscillerebbe tra quattordici e quindici, a fronte dei ventidue-venticinque di oggi. Non sarebbe allora irragionevole che venisse ridotto (in particolare al Senato) il numero delle Commissioni permanenti per garantire la presenza in ciascuna di un numero adeguato di componenti, sia per tenere conto dell’effetto della riduzione del numero complessivo dei parlamentari, sia sulla base di una valutazione dell’attività svolta da ciascuna Commissione che, specie negli ultimi anni, presenta evidenti disparità (anche a seguito del mancato adeguamento del sistema delle Commissioni permanenti alla riforma dei ministeri e alla revisione del Titolo V della Costituzione).

Il ruolo degli organi e delle sedi bicamerali da valorizzare

La riduzione del numero dei parlamentari, comunque la si consideri, inciderebbe come visto sulla rappresentanza del Parlamento e più in generale sul suo tasso di pluralismo. Per compensare questo effetto, si potrebbe pensare pure a come valorizzare, specialmente nell’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo, il ruolo degli organi e delle sedi bicamerali. La Commissione per le Questioni regionali, l’unica Commissione bicamerale prevista dalla Costituzione, potrebbe essere finalmente integrata con rappresentanti delle regioni, delle province autonome e degli enti locali come previsto dalla legge costituzionale n.3/2001 ancora inattuata. Sviluppando tale modello, inoltre, si potrebbe costruire una Commissione bicamerale per gli Affari europei, formata da componenti delle Commissioni di Camera e Senato, magari, sul modello tedesco, prevedendo una partecipazione attiva di parlamentari europei eletti in Italia (e sostituendo le Commissioni per le Politiche dell’Ue delle due Camere, anche coerentemente all’obiettivo di ridurre il numero delle Commissioni permanenti). In questo modo la funzione di controllo del Parlamento sull’attività del Governo (oggi dispersa tra due Camere e condivisa dalle due Commissioni per le Politiche dell’Ue con tutte le Commissioni di settore che possono votare atti di indirizzo sugli affari europei) e di partecipazione alla fase ascendente di formazione del diritto e delle politiche dell’Unione verrebbe concentrata in un unico autorevole organismo, favorendo così la formazione di una posizione nazionale unitaria (processo oggi reso più difficile dal bicameralismo paritario italiano).

Palazzo Madama
Palazzo Madama, sede del Senato - ©Ansa

Il metodo necessariamente bicamerale delle future riforme

Se l’obiettivo è quello di una riforma nel senso di un bicameralismo sì paritario, ma più efficiente e coordinato, le necessarie modifiche da introdurre ai Regolamenti dovrebbero seguire un’istruttoria sostanzialmente bicamerale (come già avvenne, quarantanove anni or sono, per la predisposizione dei Regolamenti del 1971). Riforme regolamentari ben coordinate potrebbero inoltre aiutare il Senato e la Camera a superare l’isolamento che troppo spesso affiora tra le tante attività che sono chiamati a svolgere. In questo senso le procedure bicamerali andrebbero sistematizzate e disciplinate sul modello della procedura di esame del Documento di Economia e Finanza (DEF), il procedimento parlamentare attualmente forse più partecipato e non a caso disciplinato con norme sostanzialmente identiche nei Regolamenti delle due Camere.

Il dibattito aperto sulla legge elettorale da adeguare

Anche se non fossero toccati i Regolamenti parlamentari, la riforma costituzionale produrrebbe effetti importanti, in particolare sull’organizzazione delle Camere, a partire dalla loro composizione politica. Sotto questo profilo, la riduzione del numero dei parlamentari rende, se possibile, ancora più cruciale la definizione del sistema elettorale. Ad esempio la scelta di lasciare immutata la disciplina regolamentare sulla composizione dei gruppi potrebbe condurre a esiti molto diversi a seconda della formula elettorale con cui saranno elette le nuove Camere. Rendendo assai più “sintetica” la rappresentanza politica in Senato rispetto a quella comunque maggiormente analitica della Camera. Fino al punto di entrare potenzialmente in collisione col monito della Corte Costituzionale (sentenza n. 35 del 2017) secondo la quale i sistemi elettorali, pur se differenti per i due rami del Parlamento, non devono ostacolare la formazione di maggioranze parlamentari omogenee. E’ evidente che le caratteristiche del rapporto di rappresentanza politica e il livello dei parlamentari dipendono molto più dal tipo di legge elettorale di quanto non siano legate al numero dei componenti di Camera e Senato. 

Il crinale tra un pericoloso minimalismo e una riforma di successo

In caso di vittoria del “sì” al referendum, se ci si limiterà a dare attuazione alla riforma soltanto adeguando i quorum – e dunque, in particolare, esclusivamente riducendo i requisiti per la formazione dei gruppi, ma lasciando immutati numero e composizione delle commissioni, senza incidere in alcun modo sui rapporti tra le due Camere – il ritorno, in termini di maggiore efficienza e di recupero del ruolo del Parlamento, appare davvero arduo da dimostrare. A quel punto gli argomenti a favore dell’antiparlamentarismo troverebbero di sicuro nuova e ulteriore linfa. Se al contrario si avrà la forza di cogliere questa occasione per ripensare in profondità, esattamente 50 anni dopo i regolamenti del 1971, le caratteristiche dei soggetti e dei procedimenti parlamentari, una revisione costituzionale apparentemente minimale potrebbe segnare un significativo cambio di passo negli assetti del parlamentarismo in Italia. Qualora invece al referendum prevalessero i “no”, i nodi relativi alla legge elettorale e alla riforma dei regolamenti parlamentari resterebbero comunque sul tappeto. Ed è facile pronosticare che, in assenza di ogni indirizzo in positivo da parte del corpo elettorale, su di essi si riaprirebbe pressoché da zero il confronto politico: senza grandi chances di giungere, a breve, ad esiti condivisi, ma anzi aprendo un ulteriore terreno di scontro in mesi che saranno cruciali per la ricostruzione del Paese.

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