World Hijab Day, uno strumento di repressione può diventare simbolo di orgoglio?

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Giulia Mengolini

Giulia Mengolini

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Il primo febbraio si celebra la Giornata Mondiale del Velo: mentre molte donne sui social promuovono uno degli emblemi della cultura islamica per combattere discriminazioni e stereotipi, in Paesi del mondo come l'Iran lo hijab rappresenta uno strumento di controllo dei corpi, e violarne l'obbligo può portare al carcere e persino alla morte. Abbiamo intervistato l'influencer musulmana Tasnim Ali, che lo indossa per scelta, e l'attivista Maryam Namazie che lo condanna: "Normalizza la misoginia"

Una giornata simbolica, nata per diffondere consapevolezza sul velo e combattere discriminazioni e islamofobia. Il World Hijab Day si celebra ogni 1 febbraio dal 2013, quando a lanciarlo fu Nazma Khan, statunitense originaria del Bangladesh, founder della World Hijab Day Organization: “All’indomani dell’11 settembre 2001, le donne musulmane che indossavano l’hijab, me compresa, hanno subito discriminazioni e molestie”, ha raccontato, spiegando l’esigenza che l’ha spinta a dare vita al movimento che rivendica l’”orgoglio” di indossare il velo. Ogni 1 febbraio TikTok e Instagram si riempiono di contenuti con l’hashtag #WorldHijabDay. Tra loro c’è Tasnim Ali, che ogni giorno ironizza su stereotipi e falsi miti attorno al velo.

Tasnim Ali.
Tasnim Ali. - ©Getty

Tasnim Ali: "Mio padre non me lo impose: lo hijab fu una scelta"

Romana, 25 anni, content creator (su TikTok ha oltre 750 mila follower), nata e cresciuta in Italia in una famiglia musulmana – suo padre è un Imam – in quinta elementare Tasnim disse a sua madre: “Voglio mettere lo hijab”. E così fece. “Per me il velo è libertà, perché nel mio caso si tratta di una scelta”, dice a Sky TG24: "La maggior parte delle persone lo vede come un’imposizione maschilista, ma non è così: a imporlo è Dio”. “Molte persone mi scrivono che lo indossiamo per proteggerci dagli uomini, ma è una teoria senza senso: anche donne che mettono il burqa vengono molestate”.


Riflettendo sul significato del World Hijab Day, è impossibile non chiedersi: può un simbolo di oppressione in Paesi come l’Iran – dove da settembre 2022, dopo l’uccisione di Mahsa Amini le donne scendono in strada a bruciarli, quei pezzi di stoffa – essere un simbolo di empowerment? “La scelta di indossare il velo e il femminismo non sono necessariamente in contrasto", sostiene Tasnim. "Anzi, fare questa scelta in un Paese in cui non è culturalmente accettato è un atto femminista”. Il contesto è lo spartiacque: “Sono fortunata perché vivo in Italia, ma non è così facile. Conosco ragazze che non hanno il coraggio di indossarlo per paura di essere discriminate. Il contrario di quello che succede in Iran”.

"Una Giornata per capire come veniamo guardate"

Una scelta che non le ha creato problemi a scuola. “Ricordo che i miei compagni si riunirono attorno a me e mi chiesero una spiegazione, io dissi solo ‘è per la mia religione’ e le domande finirono. Discriminazioni e commenti avvengono invece spesso per strada: "Mi dicono: ‘ma togli quel fazzoletto’,  o ‘mettilo al tuo Paese’ pensando che non capisca l'italiano". Dopo alcuni attentati in Europa, racconta, la pressione è aumentata: “Sui mezzi pubblici ho visto sguardi pesanti, di paura. A volte mi hanno detto ‘Allah Akbar’”. Oggi, assicura, “riesco a decifrare tutti i tipi di sguardi". Il World Hijab Day, sostiene, serve a questo: “A contrastare l’islamofobia. Sarebbe bello che le donne di ogni cultura e nazionalità lo indossassero per un giorno per mettersi nei nostri panni e capire come veniamo guardate”.

Da Mahsa Amini ad Armita Geravand: quando toglierlo costa la vita

La possibilità di scelta è il fulcro del dibattito sullo hijab. In Iran, se non vigesse l’obbligo, Mahsa Amini e Armita Geravand sarebbero vive. E nonostante la rivoluzione delle donne che ha invaso le strade, a settembre il parlamento di Teheran ha inasprito le sanzioni contro chi non lo indossa, con un disegno di legge che vuole punirle fino a 10 anni di carcere. In occasione del primo anniversario della morte di Amini, la giornalista Masih Alinejad ha parlato a Sky TG24 del velo come il simbolo di un “apartheid di genere”, sottolineando che “non è un pezzo di stoffa, ma il pilastro di una dittatura religiosa”. Dello stesso parere l’attivista iraniana e conduttrice televisiva Maryam Namazie, contraria al World Hijab Day. “Lì dov'è obbligatorio, scopriamo il suo vero scopo: controllare il corpo e la sessualità delle donne”. Di recente, una bambina di 11 anni a cui era caduto in classe è stata picchiata da un funzionario scolastico”, racconta. Secondo l’attuale legge, le bambine tra i 9 e i 15 anni che si tolgono il velo rischiano una multa e gli può essere vietato di lasciare il Paese fino a due anni. “Per le adulte, la pena può includere il carcere o portare alla morte, come nel caso di Mahsa”.

Proteste contro la morte di Mahsa Amini in Iran.
©Ansa

Maryam Namazie: "Nessun orgoglio, lo hijab controlla i nostri corpi"

Namazie, nata a Teheran e fuggita dal Paese con la sua famiglia nel 1980 dopo la Rivoluzione iraniana, ricorda che il tema di quest'anno è “il velo è forza”, “ma non ci vuole forza per fare quello che ci viene detto. Il velo è un'imposizione religiosa, e spesso passa attraverso la forza e la costrizione. Come può essere la 'scelta' di una donna, quando nella maggior parte dei casi è invece del marito, del padre, del fratello, dei mullah, degli Stati e delle organizzazioni religiose? Non esiste una scelta nella costrizione”. Per l’attivista lo slogan del World Hijab Day 2024 è solo “un gioco di parole per renderlo appetibile e nascondere il suo ruolo di controllo delle donne”. Uno degli scopi della Giornata è combattere l’intolleranza religiosa, “ma non la si può contrastare normalizzando la misoginia”, commenta Namazie. E, tantomeno, promuovendo il concetto di “orgoglio”: “Chi è orgogliosa di indossare questo capo in realtà sta eseguendo gli ordini del fondamentalismo religioso”.

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L'attivista iraniana Maryam Namazie.
L'attivista iraniana Maryam Namazie.

"La cultura del pudore, estensione della cultura dello stupro"

La cultura del pudore promossa dal velo è “fondamentalmente un’estensione della cultura dello stupro”, sottolinea Namazie, che da anni critica il significato dietro alla ricorrenza. “Se una donna non si copre, allora gli uomini non possono essere incolpati di fare ciò che vogliono. Lo ha voluto lei, è il mantra di questa visione”. Un concetto, quello di scelta raccontato da Tasmin Ali, che per l’attivista è sintomo di un privilegio che non può permettersi di snaturare il significato di quel pezzo di stoffa. “Le attiviste in questa giornata possono promuoverlo quanto vogliono, soprattutto quando vivono in sicurezza in società laiche, ma la realtà dell'hijab è fatta di terrore, trauma e violenza da un lato, e di resistenza delle donne dall'altro. La rivoluzione 'Donna, Vita e Libertà' in Iran ha toccato le donne di tutto il mondo proprio per questo motivo”.

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