Francia, crepe nel campo dei vincitori: si cerca premier. Guai anche per Marine Le Pen

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Il caos regna a Parigi dopo le elezioni. Prime crepe nel Fronte Popolare. Sotto accusa il silenzio di Macron dopo aver prorogato il premier Attal temporaneamente alla guida del governo. Si cerca un nuovo premier e un altro candidato si dice "pronto" ad assumere la carica: Olivier Faure, segretario dei socialisti. Intanto, la leader del Rassemblement National è di nuovo sotto inchiesta per le spese sostenute nella campagna elettorale delle presidenziali del 2022. E continua nel partito la resa dei conti per il flop

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In Francia la situazione continua a essere tesa e in evoluzione dopo le elezioni legislative. A due giorni dall'annuncio dei risultati del ballottaggio, è ancora il caos a regnare a Parigi. Nel campo dei vincitori si aprono crepe e si alza il tiro contro Emmanuel Macron: sotto accusa il suo prolungato, insolito, silenzio dopo aver prorogato il premier Gabriel Attal temporaneamente alla guida del governo. Intanto, si cerca un nuovo possibile premier e un altro candidato si dice "pronto" ad assumere l'ambita carica: Olivier Faure, segretario dei socialisti.  Dopo la delusione di domenica scorsa al ballottaggio, con il Rassemblement National che è arrivato terzo quando sembrava avere in tasca almeno la maggioranza relativa, i guai non finiscono neppure per Marine Le Pen: la leader del partito è finita di nuovo sotto inchiesta per le spese sostenute in una campagna elettorale, stavolta le presidenziali del 2022. L’ipotesi di reato è finanziamento illecito. E continua nel partito la resa dei conti per il flop.

Il silenzio di Macron e le prime crepe

Tensione in crescita, insomma, in tutto il panorama politico in Francia, con i macronisti che temono la partenza del loro leader per il vertice della Nato a Washington: "La sinistra potrebbe approfittare della sua assenza", dicono. Il silenzio del presidente della Repubblica è un atteggiamento non abituale per Macron, ma molti ritengono sia una strategia precisa: innervosire gli avversari della gauche e farli "cuocere nel loro brodo". "Non ci ha fatto neppure una telefonata", si è lamentata Marine Tondelier, la leader dei Verdi. Nelle scorse ore le prime crepe nel Fronte Popolare si sono aperte platealmente con un gruppo di dissidenti de La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon che hanno annunciato di non voler più sedere sui banchi del loro partito e hanno proposto a ecologisti e comunisti di creare un nuovo gruppo parlamentare. Fra i dissidenti ci sono dirigenti di primo piano di Lfi come Clémentine Autain, François Ruffin e Alexis Corbière. 

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In cerca del prossimo premier

Le distanze che i dissidenti hanno preso dal partito e dall'ipotesi di Mélenchon premier è stato interpretato da alcuni come il primo spiraglio verso una possibile soluzione dell'impasse. Quasi in reazione a questo segnale di timido cedimento, l'atteggiamento dei duri del Fronte Popolare si è inasprito: Olivier Faure, segretario dei socialisti, fedele all'unità del Fronte e al programma elettorale firmato anche da Lfi, si è detto "pronto a ricoprire la funzione di premier". Ma è soltanto uno dei nomi che di ora in ora si aggiungono ai pretendenti, dopo che in mattinata i fedelissimi di Mélenchon, Manuel Bompard e Mathilde Panot, hanno ribadito che il tribuno di Lfi è quanto mai in corsa per l'incarico. Oltre a Faure, la lista di pretendenti al posto di premier ha continuato ad allungarsi: si sono aggiunti, fra gli altri, l'ecologista Clemence Guetté e il socialista Boris Vallaud. Ma nulla, ricordano i costituzionalisti, obbliga il presidente a dare l'incarico di formare il governo a un premier della coalizione di maggioranza relativa. E, al di là dei nomi, le distanze si misurano sul muro che continua più che mai a separare i macroniani e i repubblicani dai componenti dell'alleanza di sinistra.

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Il Fronte popolare

Nel Fronte popolare dei vincitori, Mélenchon continua a essere lo spauracchio che fa dissolvere all'istante ogni speranza di conciliazione. Ma lo stesso Faure o la leader dei Verdi Tondelier continuano a patrocinare il programma del Fronte Popolare, che vede fra i principali provvedimenti iniziative che non raccoglierebbero mai la maggioranza dei voti, dall'abrogazione della riforma delle pensioni con il ritorno ai 60 anni all'aumento del salario minimo a 1.600 euro. Ci sono socialisti, ecologisti, moderati, per i quali "si tratta di proposte da discutere, non urgenti da approvare". Altri, come Raphael Glucksmann, non hanno neppure partecipato alle riunioni del Fronte Popolare di questi giorni per evidente incompatibilità. Ma, al momento, la loro voce non risuona alta come quella dei proclami dei melenchoniani.

French flags fly in front of the Assemblee Nationale, a legislative building of the French government, Paris, France.

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Marine Le Pen sotto inchiesta

Anche sul fronte opposto, a destra, la situazione non è tranquilla. Marine Le Pen è finita di nuovo sotto inchiesta per le spese sostenute nella campagna elettorale per le presidenziali del 2022. L'inchiesta contro Le Pen è stata aperta il 2 luglio dopo una segnalazione dell'Authority investita del controllo delle spese di campagna elettorale dei candidati, che devono rimanere al di sotto di un tetto prestabilito e che, in parte, vengono rimborsate dallo Stato. Erano state segnalate delle irregolarità, sulle quali sta ora lavorando un giudice istruttore. Fra le ipotesi di reato, appropriazione indebita nell'esercizio di funzioni pubbliche, truffa e falso, secondo la procura. Nel dicembre 2022 lo stesso organismo aveva rettificato la spesa per i lavori di verniciatura di 12 pullman affittati con il simbolo della candidata e del partito, per un ammontare di 316.182 euro. La spesa era stata considerata come "irregolare". Marine Le Pen aveva fatto ricorso davanti al Consiglio costituzionale, poi aveva rinunciato all'iniziativa. L'ex candidata, sconfitta da Emmanuel Macron al ballottaggio, ha investito circa 11,5 milioni di euro nella campagna elettorale, la terza in cui è uscita sconfitta dalla corsa all'Eliseo. Già in quella del 2017, le sue spese erano risultate in alcune voci irregolari. Lo scorso giugno la Cassazione ha definitivamente convalidato la condanna del Rassemblement National per le fatture gonfiate per i kit della campagna elettorale utilizzati dai candidati dell'estrema destra nelle elezioni legislative del 2012 e rimborsate dallo Stato. Sempre Le Pen è in attesa di giudizio, con altre 24 persone e il Rn, nel processo che la vedrà accusata dal 30 settembre per appropriazione indebita di fondi europei, nel caso della remunerazione di assistenti di eurodeputati fra il 2004 e il 2016. 

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La resa dei conti a destra

E nel partito Rassemblement National continua la resa dei conti per il flop ai ballottaggi di domenica scorsa: Gilles Pennelle, lo stratega che aveva curato il piano per arrivare al governo, è stato silurato. Il suo casting di candidati - fra i quali sono emersi in campagna elettorale casi piuttosto eclatanti di razzismo, complottismo o antisemitismo - è stato giudicato fallimentare e da molti indicato come il punto debole del Rn. Decine di candidati si sono quindi rivelati non all'altezza, in qualche caso impresentabili per le opinioni espresse. Jordan Bardella, che sognava di andare a dirigere Matignon, ha ammesso nei giorni scorsi che "in alcune circoscrizioni, le scelte che abbiamo fatto erano sbagliate": ricevuto il messaggio, Pennelle non ci ha pensato su due volte e ha presentato le dimissioni. Nessuno lo ha trattenuto, dimissioni accolte.

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