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Lo scrittore Kalfus: "Negli Usa la politica è diventata tribale"

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Federico Leoni

Federico Leoni

Americano della East Coast, Kalfus ha scritto un libro in cui immagina che gli Stati Uniti siano implosi a causa di un sanguinoso conflitto civile e che gli americani siano costretti a migrare in un mondo in cui nessuno li accoglie con favore

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Cappello di paglia e sandali di cuoio, Ken Kalfus sembra uscito da un film di Woody Allen. Americano della East Coast (nato a New York, vive a Philadelphia), ha un passato da giornalista e un presente da apprezzato romanziere. David Foster Wallace una volta scrisse: «Ci sono scrittori alla moda e divertenti, ci sono scrittori intelligenti e tecnicamente innovativi, e poi ci sono gli scrittori saggi, commoventi e profondi. Kalfus è tutto questo in una volta».

Il libro di Kalfus

Con l'intelligenza che anche Foster Wallace gli riconosce, Kalfus ha scritto un libro in cui immagina che gli Stati Uniti siano implosi a causa di un sanguinoso conflitto civile e che gli americani siano costretti a migrare in un mondo in cui nessuno li accoglie con favore. Il romanzo - "Le due del mattino a Little America" (Fandango Editore) - è una distopia che porta alle estreme conseguenze la dilaniante polarizzazione di questi anni. Un'intuizione inquietante, quella dell'autore, considerando che l'idea per la trama risale a ben prima dell'assalto a Capitol Hill del 2021.

 

Ironico e disponibile, Kalfus si ferma a chiacchierare con Sky TG24 a Mantova, mentre prepara il suo intervento al Festival della Letteratura.

Siamo sicuri che il suo libro sia solo fiction?

 

Lo scopo del romanzo non è tanto prevedere il futuro, quanto immaginare quali potrebbero essere, per gli americani, le conseguenze di un collasso civile negli Stati Uniti. Come si sentirebbero gli americani – come mi sentirei io – se fossimo noi i migranti in un mondo che non ci accoglie più? Oggi queste riflessioni suonano diverse rispetto al momento in cui ho iniziato a scrivere il libro. Il dubbio su cosa possa succedere in America ci tormenta, e chiaramente le prossime elezioni saranno un momento critico nella storia americana.

 

Cosa si aspetta?

 

È probabile che Trump ottenga la nomination repubblicana. E se questo non dovesse accadere, la pretenderà comunque. Se poi vincesse le elezioni, penso che metterebbe fine ai gruppi di potere che gli hanno impedito di rimanere al comando nel 2020: metterà fine all'indipendenza della magistratura, a quella dell’esercito, e così via. Se non vincerà le elezioni è abbastanza ovvio che non ammetterà la sconfitta. Quando quel momento arriverà, ci sarà una nutrita minoranza di americani convinti che Trump abbia vinto: molti di loro saranno armati, molti fanno già parte di milizie, quindi si tratterebbe di uno scenario perfetto per la violenza. Anche prima delle elezioni, in realtà, c'è il rischio di scontri: possono scatenarsi durante manifestazioni di carattere politico, in concomitanza delle udienze dei processi a Trump e così via. Non dobbiamo immaginare questa guerra civile come qualcosa di specifico e "istituzionale", con tanto di eserciti in marcia. Penso più che altro a disordini diffusi, a qualcosa del genere.

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La copertina del libro di Kalfus
La copertina del libro di Kalfus

Trump finisce sotto accusa e i sondaggi lo premiano. Non è strano?

 

È decisamente bizzarro. Per quanto mi riguarda, spesso ho la sensazione di vivere in un mondo sottosopra. E vivere in un mondo sottosopra è positivo per un romanziere. Perché allora puoi capire cosa significa veramente vivere in un mondo così: cosa c'è di più esasperante che credere che qualcosa sia vero, che sia un fatto oggettivo, mentre chi hai davanti nega tutto? Ti chiedi: cosa c'è che non va nella mia testa? Vedo le cose come sono. Cosa c'è che gli altri vedono e io no? È una situazione molto, molto paradossale.

 

Qual è la caratteristica principale della polarizzazione che agita gli Stati Uniti, secondo lei?

 

In America la politica è in gran parte tribale. Ci identifichiamo con quelli della nostra fazione, con le persone che pensiamo ci assomiglino, che vivono come noi, eccetera. È molto difficile vedere oltre la nostra identità tribale. Non è così solo in America, ma in tutto il mondo. Io ho trascorso un anno in Jugoslavia all'inizio della guerra civile. La Jugoslavia è un grande paese con un grande popolo, molto intelligente. Eppure alla fine gli jugoslavi si sono ritrovati intrappolati nelle loro narrazioni contrapposte, nelle loro realtà alternative. È per questo che sono finiti in guerra e hanno distrutto il loro paese. Se è successo in Jugoslavia, mi sono detto, non c'è motivo per cui non possa accadere negli altri paesi, compresi gli Stati Uniti.

 

Se la divisione è una questione di narrazioni contrapposte, non può essere proprio una nuova narrazione la soluzione al problema?

 

Certo, immagino sarebbe una soluzione. Prendiamo il periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale: gli americani guardavano a quel conflitto quasi con affetto, come a una guerra giusta su cui erano tutti d'accordo. C'era solidarietà, c'era una narrazione comune. Non mi auguro che scoppi un'altra guerra come quella, ovviamente, ma penso che sarebbe utile avere una comune visione delle cose, proprio come accadde in quel periodo. Penso che in questo momento siamo in una situazione diametralmente opposta.

 

Che ruolo hanno i social media in tutto ciò?

 

I social media hanno avuto un ruolo da protagonisti nell'alimentare la rabbia e l'estremismo, perché hanno creato una sorta di morbosa intimità reciproca. Prima certe informazioni arrivavano soprattutto dalla tv, ed erano certamente in grado di suscitare emozioni forti. Il telespettatore, però, è un osservatore passivo, esterno. Ora invece abbiamo la sensazione di essere personalmente coinvolti in tutto ciò che ci viene comunicato. Anche una palese verità finisce per essere messa in dubbio, perché tutto è oggetto di discussione.

 

Per descrivere i migranti americani protagonisti del suo libro si è ispirato alla realtà dei flussi migratori?

 

Il mio romanzo, che per certi versi è anche un romanzo comico, contiene diversi elementi fantastici: immagino per esempio che, tramontata l'influenza statunitense, il mondo abbia perso familiarità con la cultura americana. Nessuno ascolta più la nostra musica, nessuno parla inglese, e così via. Gli americani, costretti a emigrare, si ritrovano soli. La realtà probabilmente sarebbe diversa, ma nel mio romanzo il mondo si dimentica dell'America ed è restio ad accogliere gli americani, che in questa diaspora si riconoscono gli uni con gli altri e tendono a vivere insieme nei paesi in cui arrivano. Questo mi fa pensare che forse, mentre scrivevo, avevo in mente i migranti che tutti conosciamo: quelli che arrivano dall'Iraq, per esempio, o dalla Somalia. Si tratta di persone che poi si ritrovano in Europa, si riuniscono ai loro connazionali e cercano di ricreare nei paesi d'arrivo la loro vita precedente. È successa la stessa cosa negli Stati Uniti, quando sono arrivati gli italiani, gli irlandesi, gli ebrei e così via. Ognuno ha fondato la propria comunità, esattamente come fanno i migranti americani nel mio libro.

 

Wokeness, cancel culture, correttezza politica. Si tratta di temi molto discussi e che coinvolgono soprattutto le professioni intellettuali. Lei come li vive?

 

Come singolo scrittore, non penso rappresentino un problema per me. Penso che ci sia molta intolleranza nella nostra società su molti argomenti, e che cancel culture sia un termine comune soprattutto negli ambienti della destra. È uno spauracchio, qualcosa di cui si vorrebbe parlare a tutti costi. Tuttavia, c'è anche qualcosa di vero. È vero che le persone vengono ghettizzate per aver espresso opinioni impopolari. Non penso sia un problema in generale, ma nei campus e nell'ambiente accademico è una questione abbastanza seria. Questo tipo di intolleranza fa male a tutti.

 

Soluzioni?

 

Dovremmo ascoltarci di più l'un l'altro. Ora l'intolleranza è diffusa e vengono fatte continue insinuazioni. Anche in questo caso si tratta probabilmente di tribalismo. Guardi qualcuno e ti metti lì a spuntare caselle: il suo genere è questo, la razza questa, questa l'età, ha gli occhiali, e così esprimi un giudizio, qualunque sia. Capisci a quale tribù appartiene, appunto. È così che si alimenta un'intolleranza decisamente negativa.

 

Un tempo gli Stati Uniti amavano definirsi la "Città sulla collina", il faro per le democrazie di tutto il mondo. Cos'è cambiato?

 

Abbiamo sempre saputo che l’America ha dei difetti. Ma ha anche una forma di governo e una serie di leggi che consentono di risolvere i problemi. Sono fiducioso? Non lo so. Siamo arrivati molto in basso ma penso che l'America sia sempre stata un work in progress, un paese che non è una città su una collina ma cerca di esserlo. Abbiamo sempre avuto il razzismo, abbiamo sempre avuto la disuguaglianza di genere, abbiamo sempre avuto le disuguaglianze economiche. Ma abbiamo anche tante persone che cercano di rendere l'America un paese migliore, esattamente come accade altrove. Penso che la speranza inizi da noi.

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