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Caso Eni-Nigeria, giudici: “Pm nascosero video favorevole a imputati”

Lombardia
©Ansa

Nelle motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Milano ha assolto tutti gli imputati si legge che “risulta incomprensibile la scelta del Pubblico Ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che reca straordinari elementi a favore degli imputati"

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"Risulta incomprensibile la scelta del Pubblico Ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l'uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e della auspicata conseguente attivazione dell'autorità inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati". Lo scrive la settima sezione penale del tribunale di Milano nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 17 marzo, ha assolto tutti gli imputati "perché il fatto non sussiste" per il caso della presunta corruzione in Nigeria, tra cui Eni, Shell, l'ad della compagnia petrolifera italiana Claudio Descalzi, il suo predecessore - e attuale presidente del Milan - Paolo Scaroni e Armanna, ex manager licenziato dalla compagnia petrolifera italiana, poi diventato grande accusatore e valorizzato per le sue dichiarazioni dai pm.

Il video

Nel video, che risale al luglio 2014 e di cui parlano i giudici, è registrato un incontro tra l'ex manager Eni Vincenzo Armanna, 'grande accusatore' valorizzato dai pm, e l'ex legale esterno di Eni Piero Amara. Il tribunale, come si legge nelle motivazioni, "non condivide l'interpretazione banalizzante del documento" da parte della Procura, perché quel video, invece, "consente di apprezzare la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro riferimento a Descalzi e, più in generale" ad altri dirigenti. Gli stessi giudici non condividono nemmeno l'impostazione dei pm milanesi che hanno visto nella successiva ritrattazione di Armanna un "elemento a carico di Descalzi, il quale", secondo questa tesi dei pm, "avrebbe tentato di condizionare le dichiarazioni accusatorie di Armanna tramite Piero Amara e Claudio Granata", capo del personale Eni.

I giudici: "Mancano prove certe ed affidabili su corruzione"

I giudici scrivono che mancano "prove certe ed affidabili dell'esistenza dell'accordo corruttivo contestato". E aggiungono: "All'esito dell'istruttoria non è stato possibile ricostruire con certezza tutti i fatti oggetto dell'imputazione nonostante l'acquisizione di migliaia di documenti e l'esame incrociato di decine di testimoni e consulenti di parte. Alcuni profili della vicenda restano in parte oscuri e possono essere oggetto di ricostruzioni probabilistiche e ipotetiche". Per il collegio Tremolada-Gallina-Carboni non è "condivisibile" la "certezza accusatoria" dell'aggiunto Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro che "gli attuali imputati si fossero rappresentati e abbiano contribuito" agli "illeciti pagamenti", di cui c'è una prova solo "indiziaria". Nel capo di imputazione "il Pubblico Ministero ha scelto una tecnica descrittiva che soffre contraddizioni intrinseche e, soprattutto, parifica elementi di prova del fatto rispetto alle condotte tipiche, creando ambigue sovrapposizioni e ulteriori contraddizioni con conseguenti difficoltà interpretative".

"Nessuna prova tangenti a funzionari nigeriani"

Sebbene i giudici concordino "con l'accusa" sul fatto che "l'ammontare di denaro non tracciabile, movimentato" sia "una prova indiziaria del carattere genericamente illecito dei pagamenti derivati dai proventi" del blocco petrolifero Opl245, per il tribunale "non è invece condivisibile l'assunto conclusivo che gran parte di tale somma in contanti, se non tutta, sia finita nella disponibilità dei pubblici ufficiali nigeriani che hanno reso possibile gli accordi illeciti". E gli imputati, per i giudici, non hanno "contribuito a tali illeciti pagamenti".

"Teste chiave imbarazzante"

Il caso del cosiddetto 'falso Victor', presunto 'teste chiave' che fu chiamato dai pm dalla Nigeria a confermare le accuse di Vincenzo Armanna contro i manager Eni, è un altro emblema, secondo i giudici di Milano, della "incredibile spregiudicatezza" con la quale l'ex manager Armanna, anche lui imputato, ha usato "gli strumenti processuali per finalità personali, arrivando ad orchestrare un impressionante vortice di falsità" di cui poi lui stesso ha "perso il controllo". Nel gennaio 2020, infatti, Isaac Eke, superpoliziotto nigeriano che in una lettera del novembre 2019 si era accreditato come il 'vero Victor' (in quanto il primo, un anno prima, davanti ai giudici aveva negato di aver conosciuto Armanna), in aula ha smentito l'ex manager e 'grande accusatore' Armanna. Quest'ultimo nel 2016 aveva raccontato ai pm milanesi che tale Victor Nawfar, nel 2011 capo della sicurezza dell'ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan, gli "disse che 50 milioni in contanti, in banconote da l00 dollari, erano stati portati al 'chairman' di Eni", ossia Scaroni (assolto), in due trolley nella villa ad Abuja dell'ex capo della divisione Esplorazioni Eni, Roberto Casula (assolto). L'esito "del supplemento istruttorio" chiesto dalla Procura, scrivono i giudici, "è stata l'imbarazzante audizione di un uomo giunto dalla Nigeria per smentire il contenuto di una missiva che lui stesso aveva sottoscritto solo alcuni giorni prima". 

La posizione di Descalzi

Il tribunale scrive che "dalla lettura delle condotte specifiche, contestate a Descalzi, manca il riferimento, anche solo nella forma attenuata della consapevolezza, alla condotta tipica della partecipazione agli accordi corruttivi che avrebbero determinato i pubblici ufficiali" della Nigeria come l'ex presidente Goodluck Jonathan e l'ex guardasigilli Adoke Bello, "ad adottare gli accordi transattivi del 29 aprile 2011 in contrasto con la legge nigeriana per favorire le compagnie petrolifere". Per i giudici è emersa la "volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni, lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro riferimento a Descalzi".

La vicenda

I 15 imputati erano stati portati a processo per corruzione internazionale per quella che la Procura aveva definito la più grande tangente mai pagata da una società italiana, ossia 1,092 miliardi di euro, ma il 17 marzo sono stati tutti assolti in primo grado. Una presunta corruzione nel 2011 legata, per l'accusa, all'acquisizione da parte di Eni e Shell dei diritti di esplorazione del giacimento petrolifero Opl245. Mazzette che, per i pm, erano finite ai politici di Abuja con retrocessioni anche a dirigenti Eni e a coloro che erano ritenuti i mediatori. Sono stati assolti, oltre ai due colossi dell'energia, l'ad della compagnia petrolifera Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, gli ex manager operativi nel Paese africano Roberto Casula, Ciro Antonio Pagano e Vincenzo Armanna, i presunti intermediari Ednan Agaev, Gianfranco Falcioni e Luigi Bisignani, e l'ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete, titolare, con la Malabu, della licenza sul blocco petrolifero. E ancora la multinazionale olandese, l'allora presedente di Shell Foundation Malcom Brinded e gli ex manager Guy Jonathan Colegate, John Copleston e Peter Robinson. Il verdetto era arrivato dopo tre anni di un dibattimento che si è svolto tra tensioni e colpi di scena, testimoni convocati e mai arrivati in aula o coimputati, in particolare Armanna, che hanno lanciato pesanti accuse e poi ritrattato la loro versione. Una sentenza di assoluzione che ha lasciato strascichi negli uffici giudiziari milanesi. I pm avevano valorizzato pure alcune dichiarazioni rese dall'ex legale esterno della compagnia petrolifera, Piero Amara (arrestato di nuovo ieri), su presunte "interferenze delle difese Eni", non provate, sul giudice Tremolada. Dichiarazioni che avevano portato ad aprire un fascicolo a Brescia, poi archiviato. Tanto che lo stesso presidente del tribunale milanese Roberto Bichi si era schierato, a fine marzo, con una lettera a difesa dei suoi giudici. Poi, in una nota congiunta i vertici degli uffici giudiziari di Milano avevano scritto che il "pubblico ministero come organo di giustizia (...) non vince e non perde i processi".

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