Eternity, Alessandro Bilotta: "Siamo tutti sullo stesso palcoscenico"

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Gabriele Lippi

Gabriele Lippi

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Il fumettista, autore di una delle serie più interessanti degli ultimi anni, ne racconta i significati e la realizzazione in una lunga intervista realizzata a Lucca Comics & Games

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I fumetti non sono mai solo fumetti. Sono strumenti per raccontare storie, sviscerare concetti, esprimere idee. Così Eternity, serie di Sergio Bonelli Editore, è un'opera complessa e composita, il ritratto di un uomo cinico e apparentemente portatore di una atarassia pressoché totale ma anche l'occasione per parlare dei mali della società e dell'ossessione dell'essere umano per l'immortalità. Scritta da Alessandro Bilotta e disegnata da alcuni dei migliori fumettisti italiani (Sergio Gerasi, Matteo Mosca e Francesco Ripoli), coi colori di una straordinaria Adele Matera, Eternity è tra le migliori serie a fumetti uscite in Italia negli ultimi anni. Ne abbiamo parlato a Lucca Comics & Games con il suo sceneggiatore.

Una tavola di Eternity

Eternity è una serie molto concettuale. Come nasce l’idea ed è stato difficile portare avanti il progetto con Bonelli o ti hanno detto da subito sì?

Mi hanno detto sì da subito perché cercavano cose nuove, fuori dalle loro storie classiche, per questa nuova linea che è Audace. Io ho proposto la mia idea e già solo parlandone ci siamo appassionati. Come nasce, è difficile dirlo. Alcune idee vengono da riflessioni molto astratte e concettuali presenti all’interno della serie: la voglia di parlare di ossessione per l’eternità, per il non morire mai, e poi un certo fascino che ho per le figure del mondo dello spettacolo, e per mondo dello spettacolo intendo cinema, tv, arte ma anche politica e religione, che soprattutto a Roma rappresentano due palcoscenici al pari dei precedenti. E in realtà oggi siamo tutti su questo palcoscenico e sembra che tutti viviamo – come dico in una storia – non credendo più che ci sia un Paradiso, così cerchiamo di guadagnarcelo in terra. Viviamo senza più preoccuparci, cercando di allontanare il pensiero della morte e di cosa c’è dopo, e tutti vorremmo essere considerati immortali da viventi.

 

Che sia una serie molto concettuale, attraverso la quale ti concedi di dar sfogo ad alcuni tuoi pensieri, è evidente anche dalle prefazioni dei volumi, che sono molto personali.

Sì, è una scelta avvenuta in maniera quasi poco pensata. L’idea di partenza è quella di fare un romanzo autobiografico a capitoli. Se pensi alla prefazione del primo numero sembra proprio l’incipit di un romanzo autobiografico, come se fosse una biografia sentimentale.

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Una tavola di Eternity

I personaggi principali non sono particolarmente positivi e il mondo in cui si muovono è un mondo cinico. Si ritrova un po’ di ingenuità e umanità nelle figure meno centrali, come Lucrezia nel primo volume. Essendo Eternity ambientata in un’ucronia che però è tanto simile al nostro presente, esprime un po’ la visione che hai tu del mondo di oggi?

Sono tutte cose che faccio in maniera un po’ inconscia ed è difficile metterle a fuoco, però io non voglio avere una visione pessimistica dell’umanità e non ce l’ho. D’altronde quella che vediamo qui non è che si possa dire rappresentativa dell’umanità reale. Però questa ossessione per l’eternità e per lasciare un segno nella vita penso che possa nascere solo in contesti malati e portare solo a qualcosa di negativo. E forse anche le figure più positive di cui parli sono figure che anche solo sfiorando questi mondi non possono che esserne travolte.

 

Personalmente provo una fascinazione impressionante per Alceste, un personaggio che ha tutte le caratteristiche per diventare iconico, con la sua sigaretta sempre accesa, persino sotto la doccia. Un personaggio che non è nemmeno un antieroe ma un eroe, con l’alfa privativa, senza nessuna qualità positiva. Eppure è un personaggio con cui mi risulta impossibile non empatizzare. Come mai, secondo te?

Da un lato, ragionando da lettore, il suo fascino risiede in una cosa che un po’ vorremmo tutti e che ci colpisce sempre: il saper essere sopra le cose, non farsi toccare, restare impassibili. Sai che nulla potrà scalfirlo, in senso positivo ma anche in senso negativo. Un’altra cosa interessante per spiegare questa specie di empatia è che il personaggio che ci attira ci fa avvicinare a lui e poi per forza di cose cominciamo a scavarlo, lui comincia a raccontarsi, emerge una tridimensionalità dietro quella bidimensionalità apparente, e questa cosa non può che farci far tifare un po’ per lui, che emerge in qualcosa di terrificante e il modo in cui forse è anche un po’ uno scudo.

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Dietro questa capacità di non lasciarsi scalfire, ogni tanto poi si intravedono delle crepe. Succede nella relazione con Lucrezia e poi in quest’ultimo volume, quando incontra una ragazza che è la sosia di Lucrezia e a cui sente il bisogno di avvicinarsi. Non per semplice attrazione fisica, direi, ma per provare a recuperare qualcosa che ha perduto, un po’ come scrivi nella prefazione del volume.

È vero, c’è questa cosa qui e viene detto ogni tanto nella storia: tutti vorremmo rivivere un momento di qualcosa che sappiamo di aver perduto per sempre. C’è un sensitivo che promette alle persone di potersi mettere in contatto con i cari scomparsi e a lui capita questa occasione molto simile di rivivere una seconda volta qualche cosa. Il sentimento che lui sembra provare nasce e lo voglio rappresentare come l’idea che amiamo sempre la stessa donna: può cambiare d’aspetto, di nome, ma il nostro amore è sempre quello ed è sempre la stessa donna che amiamo.

 

Quattro volumi finora, tre disegnatori diversi: Sergio Gerasi due volte, Matteo Mosca e Francesco Ripoli. Come mai?

A me piace sempre mantenere questa idea della tradizione italiana, in cui una serie ha più voci diverse, più disegnatori diversi che la visualizzano. Perché penso che ogni disegnatore, chiaramente scelto apposta, sappia o voglia più o meno consapevolmente concentrarsi su una sfumatura diversa. Già guardando a questi tre disegnatori di cui parli, ognuno di loro rappresenta quel mondo con delle caratteristiche diverse rispetto all’altro, e questa cosa qui dà più colore e raffigura bene quello che raccontiamo. Gerasi sarà il disegnatore che farà da scheletro al racconto, ogni due numeri ci sarà sempre una storia sua, poi ci saranno gli altri che già avete visto oltre a Sergio Ponchione che disegnerà il numero 5, il prossimo.

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Disegnatori diversi ma sempre la stessa colorista: Adele Matera. Mi piace parlare di lei perché per il suo lavoro su questa serie ha vinto il Premio Coco di Etna Comics e perché penso che Eternity non sarebbe Eternity senza la tua scrittura o i disegni dei disegnatori di cui abbiamo parlato ma non lo sarebbe nemmeno senza i colori acidi e fluo di Adele Matera.

Sono contento di quello che dici perché io ho sempre pensato che abbiamo tanti strumenti per raccontare una storia e la cosa diventa efficace se ognuno di questi diventa indispensabile, non come quando una storia che viene colorata solo per non essere in bianco e nero. Il colore è un altro elemento narrativo che, a saperlo sfruttare bene, è uno strumento in più per raccontare la storia e sono contento che Adele sia diventata un elemento imprescindibile.

 

Come vi siete orientati per la scelta di questa palette così particolare?

Il colore per me è una metafora perfetta per raccontare la scenografia di Eternity, qualcosa che sia moderno quindi con queste luci al neon e sguardo contemporaneo, ma di un mondo che è decadente e che quindi guarda continuamente al passato. Per me è una realtà assolutamente contemporanea e presente, un presente un po’ alternativo, magari qualche anno avanti rispetto a noi perché volevo mettere politici, attori e religiosi senza dover citare personaggi realmente esistenti. La mia idea era quella di realizzare un colore che raccontasse questo presente che guarda al passato come in un revival infinito: abbiamo usato un colore che ha delle tinte estremamente moderne, in alcuni casi con degenerazioni quasi acide, che però è messo sulla pagina come se fosse una vecchia rivista rétro, come un cartone animato degli anni Cinquanta, coi margini che escono di fuori, con una certa geometricità, con i volumi dati da una certa piattezza che però dà profondità. Tutto questo, secondo me, porta a una suggestione nel lettore.

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Andando un po’ oltre Eternity, tu hai scritto e scrivi per Dylan Dog, in particolar modo per la serie del Pianeta dei Morti, e hai a che fare coi mostri della tradizione horror. Su Eternity il mostro è l’essere umano stesso quando cade vittima di sé stesso, delle sue ambizioni.

Non sta a me azzardare paralleli, ma in qualche modo l’orrore che ho raccontato su Dylan, sul Pianeta dei Morti, è un orrore che nasce dall’ossessione del non morire. Xabaras fin dalla sua prima apparizione crea l’inferno che crea perché vuole la vita eterna, dando origine a quelli che possiamo chiamare zombi o ritornanti. Su Eternity sostanzialmente si parla della stessa cosa. I due percorsi prendono delle degenerazioni diverse: su Dylan Dog raccontiamo l’orrore e prendiamo una strada fantastica o dell’assurdo, perché secondo me Dylan Dog è l’indagatore dell’assurdo più che dell’incubo; su Eternity tutto questo prende una degenerazione iper-realista, sembra la realtà ma è un arci-realtà, è più della realtà, tanto che da un lato ne rimaniamo incuriositi perché ci assomiglia, poi subito dopo inquietati perché è una nostra immagine allo specchio molto deformata.

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Alessandro Bilotta, Sergio Gerasi, Adele Matera, Eternity 4: L'impazienza dei suicidi anticipa l'inevitabile, Sergio Bonelli Editore, 72 pagine a colori, 18 euro

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