
Sessantuno anni fa, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, un'enorme frana di roccia di circa due chilometri quadrati di superficie, si staccò dalle pendici del Monte Toc, dietro la diga, tra il Friuli e il Veneto, e provocò la distruzione di una decina di paesi
Una decina di paesi distrutti, 1.917 vittime stimate, ma molti dei corpi dei dispersi mai ritrovati. Il disastro della diga del Vajont è una delle pagine più drammatiche della storia italiana del ventesimo secolo. L'enorme frana di roccia venne giù alle 22.39 del 9 ottobre 1963
GUARDA IL VIDEO: Il disastro del VajontDue chilometri quadrati di superficie e 260 milioni di metri cubi di volume, si staccarono dalle pendici del Monte Toc, tra il Friuli Venzia Giulia e il Veneto. L'enorme massa, un corpo unico, piombò nel sottostante lago artificiale nel quale l'11 aprile, con la terza ed ultima prova di invaso, l'acqua aveva raggiunto quota 700 metri sul livello del mare. Lo schianto sollevò un'onda di 230 metri d'altezza
La metà della massa d'acqua scavalcò la diga, abbattendosi nella sottostante valle del Piave, provocando la distruzione di diversi paesi (Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago, Castellavazzo). L'altra parte dell'onda salì la valle e andò a colpire i paesini friulani di Erto e Casso e diversi altri borghi

Che stesse per succedere qualche cosa alla vigilia del disastro se ne accorse Alberico Biadene, direttore costruzioni della Sade, che l'8 ottobre (a neppure 24 ore dal disastro) chiese ai vertici della società costruttrice della diga di far scattare l'allarme e provvedere con un piano di evacuazione di Erto e Casso. Alle 22 il geometra Giancarlo Rittmeyer telefonò a Biadene, a Venezia, per comunicare la sua preoccupazione, visto che la montagna aveva cominciato a cedere visibilmente. 39 minuti dopo la telefonata il disastro
La geografia dei luoghi, già sconvolta dalla realizzazione della diga, cambiò per sempre. L'ondata rase al suolo i paesi e scheggiò le montagne mentre sul Monte Toc si formò una gigantesca cicatrice a forma di 'M'

Case, chiese, alberghi, osterie, piazze, strade e monumenti furono sommersi dall'acqua e dai detriti trascinati dalla forza dell'acqua

Della stazione ferroviaria non rimansero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli
Solo il campanile di Pirago, frazione di Longarone, venne graziato dall'acqua

Il 10 ottobre, il Corriere della Sera, apre il giornale con il titolo "L'onda della morte" e invia sul posto Giorgio Bocca e il bellunese Dino Buzzati

La commissione d'inchiesta ministeriale scattò subito. Il presidente della Repubblica Antonio Segni accorse nella valle del Piave e, vedendo il disastro dall'alto di un elicottero, pianse

L'iter processuale fu lunghissimo. Nel 1968, il giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, depositò la sentenza contro il direttore costruzioni della SADE Biadene, l'unico che farà un periodo in carcere, ed altre 10 persone di cui due nel frattempo decedute

Il processo di primo grado si tenne nel tribunale dell'Aquila con le prime tre condanne, nel 1969, a sei anni di reclusione di cui due condonati. Nel 1970, sempre all'Aquila, si tenne l'Appello e ad essere condannati, qui, furono sempre Biadene e una seconda persona

La sentenza venne confermata in Cassazione nel 1971 ma l'unico a scontare una pena fu Biadene (cinque anni di reclusione di cui tre condonati)

Negli anni Settanta iniziò invece la battaglia per i danni, in sede civile, con un travagliato percorso: la sentenza di primo grado del Tribunale di Belluno arrivò nel febbraio del 1997. La Corte d'Appello di Venezia confermò la condanna per la Montedison (società all'interno della quale era entrata nel frattempo SADE) a risarcire il Comune di Longarone per i danni materiali e morali

L'ultimo atto del percorso si chiuse con l'Enel, attuale roprietaria della diga, che pagò penali ai comuni di Erto e Casso. Le polemiche sulla prevedibilità del disastro e sull'iter processuale però non si sono mai placate

Senza soccorritori, oggi Longarone (nella foto il campanile del paese dopo la frana) probabilmente non esisterebbe. E proprio a loro - a chi si è adoperato per estrarre le salme dal fango e ha prestato il proprio aiuto per far ripartire la vita - è stato intitolato un viale. Si tratta della strada su cui si affaccia Longarone Fiere, a testimonianza del legame stretto e inscindibile tra l'opera solidale dei soccorritori del 1963 e la nuova Longarone nata dalla ricostruzione


