Sharon Verzeni e le altre vittime di omicidi in strada senza un perché: le storie

Cronaca
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Introduzione

L'assassinio senza movente della barista 33enne a Terno d'Isola, colpita a coltellate mentre passeggiava, ha fatto tornare alla mente episodi simili. Come quando nel 2010, a Milano, il pugile ucraino Oleg Fedchenko era uscito di casa con l'intenzione di uccidere la prima donna che avesse incontrato: sferrò una serie di pugni al volto di una colf che andava a lavoro, Emolou Arvesu, fino a toglierle la vita. Tra i casi più recenti, Torino ricorda ancora la morte di Stefano Leo, ucciso da Said Mechaquat perché "sembrava felice" mentre passeggiava sul lungo Po. Nel 2020 toccò al "prete degli ultimi", don Roberto Malgesini. Era nel piazzale davanti alla chiesa di San Rocco e stava per distribuire vivande ai senzatetto quando Ridha Mahmoudi, una delle molte persone che aveva aiuto in passato, gli tolse la vita con 25 coltellate.

Quello che devi sapere

Sharon Verzeni e le altre vittime di omicidi in strada senza movente

  • A Terno d’Isola, piccolo comune in provincia di Bergamo, è ancora sgomento per l’omicidio di Sharon Verzeni, barista 33enne uccisa a coltellate nella notte tra il 29 e il 30 luglio mentre faceva una passeggiata. Dopo un mese di ricerche, il 30 agosto è arrivata la svolta: l’uomo fermato per il delitto, Moussa Sangare, ha confessato agli inquirenti di essere il responsabile. Gli si contesta la premeditazione: quella sera era uscito di casa con quattro coltelli. Non conosceva Verzeni e non c’è alcun movente specifico per quello che ha fatto. "Avevo l’impulso di colpire qualcuno", ha raccontato. Quanto successo ha fatto tornare alla mente una scia di casi simili: gli omicidi consumati in strada, senza un apparente perché, non sono nuovi alle cronache italiane

Per approfondire:

Omicidio Sharon Verzeni, la storia del delitto a Terno d’Isola

2010 – L’omicidio di Emolou Arvesu

  • Era il 6 agosto 2010, in una Milano calda e semi-deserta, quando un pugile dilettante ucraino, Oleg Fedchenko, ai tempi 27enne, uscì di casa con l’intento di uccidere la prima donna che avrebbe incontrato. La sua strada incrociò quella di Emolou Arvesu, 41 anni, arrivata dalle Filippine. Stava andando a lavoro: si divideva tra l’attività di colf e quella di babysitter. Era madre di due figli. Fatale la raffica di colpi violentissimi sferrati da Fedchenko al suo volto. Poco meno di un anno dopo, nel maggio 2011, venne depositata la relazione medica sul pugile. I dottori ne parlavano come di un soggetto affetto da una grave forma di ''schizofrenia paranoide''. Nel 2012 il verdetto dei giudici: Fedchenko fu assolto per incapacità di intendere e di volere al momento del fatto. Agli inquirenti disse di aver visto il ''diavolo''. Per lui niente carcere quindi, ma cinque anni in un ospedale psichiatrico giudiziario. Con l'assoluzione e senza un processo d'appello - anche la stessa Procura aveva chiesto l'assoluzione per infermità mentale - nessun risarcimento ai familiari di Arvesu

2010 – L’omicidio di Emolou Arvesu

2013 - La follia omicida di Adam Kabobo

  • A Milano è ancora viva anche la memoria di Adam Kabobo, uomo di origini ghanesi che una domenica come tante - era l’alba dell’11 maggio 2013 – scese in strada, per le vie del quartiere Niguarda, e armato di piccone seminò il panico. Anche lui selezionò le sue vittime per caso. Uccise tre persone: Alessandro Carolè, Ermanno Masini e Daniele Carella. Con una spranga di ferro ne ferì altre quattro. "Sono state le voci a dirmi di prendere quella sbarra e di usarla per colpire qualcuno", disse ai giudici. È ancora nel carcere di Opera, dove sta scontando una condanna a 20 anni. Gli è stato riconosciuto il vizio parziale di mente: la sua capacità d'intendere e di volere era "grandemente scemata al momento dei fatti, ma non assente" stabilirono i giudici. Kabobo "uccise per rancore verso la società perché si sentiva escluso", ipotizzò in aula l'accusa

2013 - La follia omicida di Adam Kabobo

2019 - Stefano Leo ucciso sul lungo Po a Torino

  • Nessuno ha mai dimenticato nemmeno quello che è successo a Torino, sulla passeggiata del lungo Po Macchiavelli, zona Murazzi, il 23 febbraio 2019. Stefano Leo, commesso in un negozio di abbigliamento di 33 anni, stava percorrendo quella strada per andare verso il lavoro. Stava progettando di tornare a Biella, sua città natale, di lì a breve. Quel giorno, fu ucciso con unico colpo di coltello alla gola. Le telecamere di videosorveglianza non riuscirono a immortalare l’aggressione e per settimane le indagini non portarono ad alcun risultato. Poi, all’improvviso, ai carabinieri si presentò Said Mechaquat, confessando l’omicidio. Si era seduto su una panchina ad aspettare che passasse qualcuno da uccidere. La sua vita stava andando a rotoli e cercava qualcuno con la faccia felice, disse agli inquirenti. Apparse Leo. Mechaquat gli piombò alle spalle e lo accoltellò con un’arma che si era procurato poco prima. Poi lasciò la scena del crimine. Fu condannato a 30 anni di carcere in primo grado. La pena venne confermata sia in appello che in Cassazione, senza alcuno sconto

2019 - Stefano Leo ucciso sul lungo Po a Torino

2020 - l'omicidio di don Roberto Malgesini, il "prete degli ultimi"/1

  • La mattina del 15 settembre 2020 don Roberto Malgesini - "il prete degli ultimi" - si apprestava a iniziare il suo solito giro di consegna di cibo e bevande per i senzatetto di Como. Si trovava nel piazzale davanti alla Chiesa di San Rocco quando fu ucciso. Ad accoltellarlo, 25 colpi in meno di 4 minuti, fu Ridha Mahmoudi, una delle molte delle persone che Malgesini in passato aveva aiutato 

2020 - l'omicidio di don Roberto Malgesini, il "prete degli ultimi"/2

  • Mahmoudi, tunisino, era rimasto senza permesso di soggiorno dal 2014, dopo il divorzio dalla moglie italiana e per vari precedenti penali (maltrattamenti, estorsione, stalking). In realtà in questo omicidio una sorta di movente c’era: era convinto che contro di lui fosse stato ordito un complotto per costringerlo al rimpatrio in Tunisia. Complotto – pensava - a cui partecipavano autorità, giudici, avvocati, medici, e anche il prete che molte volte gli era stato accanto. Mahmoudi aveva inviato lettere e documenti alle autorità e all'ambasciata, dopo essere stato colpito da due decreti di espulsione, contro i quali aveva fatto ricorso, ma che prima o poi sarebbero stati eseguiti. Si diceva anche convinto di essere seguito, e per questo motivo, da qualche mese portava con sé il coltello che poi uccise don Malgesini. Era stato condannato all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Como, poi la Corte d'assise d'appello di Milano gli riconobbe le attenuanti generiche, abbassando la pena a 25 anni di reclusione

Per approfondire:

Legale famiglia di Verzeni: "Non si parli di raptus"

2020 - l'omicidio di don Roberto Malgesini, il "prete degli ultimi"/2