Il direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova: "Anche durante la prima ondata penso ci sia stato un ritardo per capire la gravità della situazione, passato troppo tempo tra i primi casi e le prime decisioni"
"Con questo tipo di virus avremmo dovuto, e forse siamo ancora in tempo, cambiare strategia e andare verso una strategia che ha l'obiettivo di ridurre al minimo i contatti". Queste le parole del professor Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, a Sky TG24 a un anno dal primo caso di Covid-19 in Italia. "Anche durante la prima ondata - aggiunge - penso ci sia stato un ritardo per capire la gravità della situazione, sono passati quasi 16 giorni da quando sono stati diagnosticati i primi contagi e si sono verificati i primi decessi al momento in cui sono state prese delle decisioni di carattere strategico per limitare il contagio. Ci siamo illusi per due settimane che potessimo tornare rapidamente alla vita normale" (GLI AGGIORNAMENTI LIVE SUL CORONAVIRUS - LE REGIONI CHE CAMBIANO COLORE - LO SPECIALE).
"Dovremmo fare come in Australia"
Il professor Crisanti poi ricorda i primi casi a Vo Euganeo: "Il 28 febbraio noi sapevamo che c’era il 3% della popolazione a Vo infettata, sapevamo qual era la capacità di riproduzione del virus ma nessuno, obiettivamente, ha saputo leggere questi dati". Poi aggiunge: "A Vo s’è dimostrato che testando tutte quante le persone rapidamente e circoscrivendo il focolaio era possibile abbattere la trasmissione completamente, ricordiamoci che a Vo dal 28 non c’è stato nessun caso. Dopodiché abbiamo scoperto che c’erano gli asintomatici e ci abbiamo messo mesi per capire qual era il meccanismo, ma mentre noi facevamo fatica a capirlo altri Stati hanno appreso la lezione e ci hanno dimostrato come si fa". Crisanti cita poi un esempio attuale da seguire: "Guardi quello che è successo due settimane fa in Australia: cinque casi, un milione e mezzo di persone in lockdown senza protestare e 150mila tamponi fatti per chiudere la partita. Si fa così. Dopo un anno ancora non abbiamo imparato".
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"Quel 20 febbraio 2020 ero in volo per l'Australia"
"Quel 20 febbraio ero su un volo verso l’Australia per un meeting. Fortunatamente c’era il wi-fi quindi ho vissuto attraverso tutti i messaggi dei collaboratori quello che stava succedendo. Una serie incalzante di messaggi che testimoniavano come gli eventi stessero precipitando da un momento all’altro e quindi, una volta arrivato in Australia, ho ripreso l’aero la sera dopo proprio perché mi ero reso conto che la situazione stava sfuggendo di mano", ha raccontato Crisanti.
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"Sistema zone a colori non ottimale"
"Non riusciamo a contenere il virus perché le mascherine non bastano", aggiunge Crisanti. Che poi parla del sistema dei colori a zone: "Per quanto riguarda il sistema delle zone gialle e rosse, non è ottimale. Non dico che non funzioni ma non è ottimale perché purtroppo ha il difetto di non essere tempestivo. Cioè si basa su parametri che sono abbastanza complessi da reperire, di fatto uno dei dati base è quello dell’Rt ma per calcolarlo ci si basa su dati della settimana precedente, invece per combattere il virus c’è bisogno di parametri puntuali affinché diano una risposta tempestiva. Questo sistema s’è dimostrato probabilmente un po’ troppo macchinoso e lento". Poi aggiunge: "L’agenda non la detta il politico o l’esperto: l’agenda la detta il virus. Se c’è trasmissione c’è una sola cosa da fare, non possiamo di volta in volta dare retta ai vari portatori d’interesse, perché è questo che abbiamo fatto. Bisogna fare come in Nuova Zelanda, Australia, Giappone e anche Vietnam".