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M – Il figlio del secolo, Make Italy Great Again. La recensione dell’episodio 4

Serie TV
Paolo Nizza

Paolo Nizza

Tra Madama Butterfly di Puccini e La Traviata di Verdi, Mussolini organizza la Marcia su Roma. Il re deve scegliere se proclamare lo stato d’assedio, mentre il generale Emilio De Bono interpretato da Maurizio Lombardi sogna, insieme agli altri quadrumviri fascisti, di diventare ministro. Benito viene nominato capo del governo. La democrazia sopravvive, per ora. Per gentile concessione del Duce

“Marciare, non marcire”, si era soliti dire in quel tempo cadenzato da perpetui eja eja alalà e spedizioni punitive eseguite da bellicosi arditi. E il quarto episodio di M – Il figlio del secolo (disponibile in esclusiva su Sky e in streaming su NOW) è incentrato proprio sulla Marcia su Roma. Evento storico, già narrato da una sulfurea commedia firmata da Dino Risi e interpretata dalla formidabile coppia composta da Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. E pure nella serie Sky Original  (Scopri lo speciale) l’ironia non latita certo e manco l’umorismo, spesso nero (d’altronde il colore della camicia è quello). Tuttavia, Mussolini raccontato da Antonio Scurati e trasportato sul piccolo schermo da Joe Wrigth non è certo un pagliaccio da operetta, un algido clown bianco, tanto meno un Augusto pasticcione. Grazie a una superba performance attoriale, Luca Marinelli, in virtù di una maschera  frutto dello straordinario lavoro di make up e acconciatura coordinato dal Maestro Aldo Signoretti, trasfigura la finzione in spaventosa realtà. In questa fiction Benito è un killing joke, uno scherzo che uccide. E la costante rottura della quarta parete, gli infiniti sguardi in macchina, i continui dialoghi con lo spettatore ci costringono a guardarci dentro, a riflettere su cosa avremmo fatto noi se fossimo vissuti in quel periodo.

Una spallata vi sepellirà

Inizia con un gesto niente affatto elegante la quarta puntata di M – Il figlio del secolo. Tronfio parimenti a un gangster della Chicago dei tempi del Proibizionismo, o a un crudele bullo da liceo, Italo Balbo (un Lorenzo Zurzolo davvero disturbante e feroce nella parte del sadico camerata) si aggiusta i gioielli di famiglia ed è pronto a incontrare il suo Duce. Dopo la sanguinosa rappresaglia per vendicare il camerata Florio, la camicia nera viene redarguita da Benito. Ma, al solito, Mussolini ruba la scena ai suoi gregari e fa proprie le parole di Balbo: “Bene i socialisti sono annientati. Con questa storia dello sciopero si sono annientati, con questa storia dello sciopero si sono scavati la fossa da soli. Ora diamo una spallata e buttiamo giù questo stato moribondo. Come fai a non capirlo. Dammi retta: lascia perdere la politica, uno o due ministeri. Noi qua ci possiamo prendere tutto. Raduna quanti più camerati puoi, voglio 20 mila camicie nere. Diamo la spallata, ora". Insomma, il padrone sa come trattare i propri "cani" perché li ama e li conosce più di quanto loro conoscano se stessi.

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O Roma, o morte!

Giusto il tempo per liquidare la partecipazione al  genetliaco del ministro Facta (e all’imbarazzato Cesarino Rossi, acchittato in papillon e smoking, tocca farsene una ragione) e Mussolini è pronto per l’impresa. Il governo presume di liquidare i fasciti con uno strapuntino. Ma il dado ormai è tratto. E ancora una volta si manifesto il genio di Joe Wright. Una carrellata ci mostra gli uomini eleganti e le donne pittate al party di governo. In un florilegio di calici, lampadari e candele, restano immobili come manichini. Muti, indifferenti testimoni della catastrofe che li aspetta. Un funereo presagio di quell’immobilismo, di quella superficialità, di quella miopia politica, che risulterà determinante per l’avvento della dittatura. Non a caso, la scena successiva ci offre una soprano in kimono, con il volto ricoperto di biacca, intenta a gorgheggiare Un bel dì, vedremo, la celebre aria tratta da Madama Butterfly di Giacomo Pucci. Benito, si gode lo spettacolo in un teatro San Carlo vuoto. Siamo a Napoli, è il 24 ottobre del 1922. Mancano solo 4 giorni alla marcia trionfale. L’opera cede il posto alle camicie nere. Addio “piccina mogliettina olezzo di verbena”. Nell’aria riecheggia il coro “Duce, duce!” Insomma, “O Roma o Morte”. Si tratta solo di scegliere la modalità per raggiungere il fine: conquiste elettorali o insurrezione?

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IL grande bluff

M – Il figlio del secolo riesce sempre a sorprenderti. Credi che i giochi siano fatti, ma bastano le parole di Torna a Surriento cantatate da Beniamino Gigli e una parolaccia in napoletano rivolta al Duce per comprendere quanto la situazione, per citare Flaiano, sia grave ma non seria. Persino tra i quadrumviri, ovvero i gerarchi Italo Balbo, Michele Bianchi, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono (il talentuoso Maurizio Lombardi), serpeggiano dubbi, perplessità e incertezze sulla riuscita della marcia. Mussolini ci svela quanto sia velleitario e ridicolo il piano. Eppure sprona il suo popolo con il supponente slogan: “ A chi la vittoria? A noi!”. L’importante è fare finta di insorgere. Se non puoi convincere, confondi. Il tronfio dell’ammuina. Tant’è che Guglielmo Pecori Giraldi, il Generale interpretato da Claudio Bigagli, dice a Facta: “Gli italiani sono 40 milioni, Signore. E loro al confronto sono una piccola, sgangherata marmaglia. È l’impunita che li fa sembrare forti. Se ci lascerete fare il nostro dovere, non c’è niente di cui preoccuparsi. Io credo che al primo fuoco, tutto il fascismo crollerà“.

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"la democrazia per ora sopravvive. Fate i bravi"

Mussolini ha sempre un piano B. Alla peggio si fugge in Svizzera, nonostante Margherita Sarfatti la trovi crepuscolare, malinconica e niente affatto futurista. Come si legge sui libri di Storia, il Duce non finirà i suoi giorni nel Paese di Guglielmo Tell. Il preludio a La traviata di Giuseppe Verdi accompagna il finale dell’episodio. C’è tempo per l’abusatissimo “farò in modo che i treni arrivino sempre in orario”. E un improperio contro l’ombrello “cimelio borghese, l’arma dei soldati del Papa, un popolo che usa l’ombrello non può fare la rivoluzione” Eppure il grande bluff riesce. Vittorio Emanuele III, non firma lo stato d’assedio e nomina Benito primo ministro. Mussolini pronuncia il celebre discorso: "Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con 300 mila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto". E il Duce gongola: la democrazia per ora sopravvive. E il personaggio interpretato da Marinelli, con il pollice alzato, guarda in macchina e sornione esclama: “Make Italy Great Again". Battuta epocale per una serie impossibile da dimenticare.

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