Presentato alla Festa del Cinema di Roma, il film di Gabriel Range, interpretato da Johnny Flynn, ci racconta gli eventi che hanno dato vita al più iconico alter ego del grande artista inglese
Si sa: se osserviamo il cielo in realtà vediamo il passato. Sulla Terra arriva la luce di stelle morte anche da migliaia di anni. Eppure, per noi che le guardiamo l’incanto resta lo stesso. E ci basta la cenere di ciò che illuminava l’universo, il pulviscolo cosmico di un corpo celeste per continuare a guardare in alto, e sognare.
D’altronde, in inglese Stardust significa polvere di stelle, ma è anche la metafora di qualcosa di magico, di onirico. E in fondo Ziggy Stardust, è un sogno in lamé. Un dandy glam, un leggendario cowboy psychobilly. Un astro luminoso, circondato da “ragni che vengono da Marte”. Così, con una buona dose di intrepida incoscienza, il regista gallese Gabriel Range ha scelto di ricostruire la nascita di una star, di documentare il momento preciso in cui un essere umano si trasfigura in un artista (LO SPECIALE SULLA FESTA DEL CINEMA DI ROMA).
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Stardust, un film tra fiction e realtà
Stardust gioca d’anticipo. Sin dai titoli di testa ci avvisa che quello che stiamo per vedere è per la maggior parte una finzione. E a volte è un bene alterare la realtà. Soprattutto se ti ritrovi catapultato nel 1971 e ti chiami David Robert Jones, noto ai più come David Bowie. Arrivi negli Stati Uniti e pensi di sfondare. E invece ti fermano all’aeroporto, ti sbertucciano, ti chiedono se sei omosessuale e tu cerchi di nascondere la scarpa femminile con il mezzo tacco e il collant colorato. Non sempre l’America è la terra delle opportunità. Scopri che non potrai cantare, ti ritrovi a pietire per rimediare qualche intervista per qualche network minore. Però solo chi cade può risorgere, soprattutto se sei un’aspirante rock star.
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The Man Who sold The World
Non puoi che simpatizzare con questo musicista smarrito, dall’arco dentario sgangherato, con il capello lungo femmineo, un cappello fedora dalle falde assai importanti e lungo abito beige “no gender” che avrebbe mandato in sollucchero un Liberace in fissa per il medioevo. Curvo, ripiegato su se stesso, ma allo stesso tempo ambizioso, Bowie gira gli States, insieme a un adorante addetto stampa. Ma il mondo che avevi venduto con “The Man Who Sold The World” non pare ripagare i tuoi sforzi. Un alieno perduto in sordidi motel da quattro soldi, Quasi un presagio di quell'uomo che cadrà sulla Terra nel 1976, grazie al meraviglioso film di Nicolas Roeg.
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La musica è la maschera
“Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. Così scriveva Samuel Beckett. E in qualche modo Stardust sposa l’aforisma del grande drammaturgo. Vediamo David Bowie a un party di Andy Warhol, ma ignorato dal padre della pop art che manco si palesa. Dall’Ohio alla California, impera la plastica, il falso si trasfigura nel vero. E quando infine, il giovane artista finalmente rimedia un’intervista con il giornalista della rivista “Rolling Stone” le sue parole sono queste:
“Voglio catturare l’attenzione del pubblico con una serie di movimenti molto stilizzati, molto giapponese…
Quello che la musica dice può anche essere serio, ma come strumento di espressione artistica non dovrebbe essere analizzato o preso così seriamente come va di moda adesso. Dovrebbe essere oltraggiato, prostituito, trasformato in una parodia di se stesso. Dovrebbe diventare un clown, un Pierrot. La musica è la maschera, il Pierrot, e io sono il messaggio”.
Purtroppo, dichiarazioni troppo in anticipo sui tempi.
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Schegge di Follia
Al netto del gioco sterile di distinguere la realtà dall’immaginazione, Stardust ci offre un onesto ritratto dell’artista da giovane. Risultano sinceri gli squarci, sulla vita familiare, il rapporto con il fratello Terry, il suo mentore che lo introdusse nel mondo della musica, portandolo per la prima volta a un concerto e comprandogli il primo disco, risultano dolenti schegge di memoria. Ma Terry finirà in un manicomio. E sia la zia materna sia la nonna di Bowie avevano tutte sofferto di malattie mentali. Sicché la paura di essere schizofrenico sarà determinante per la genesi di tanti alter ego in grado di stemperare angosce, nevrosi e psicosi. “L’io è un altro”, diceva Rimbaud, specie se ti guardi in uno specchio dopo un tiro di cocaina in bagno.
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La musica è finita
Certo, Stardust soffre della mancanza delle musiche di Bowie. Bisogna accontentarsi di Amsterdam e di My Death, le celebri cover dei capolavori di Jacques Brel. Ma tra uno sguardo in sottecchi di Marc Bolan, un'aderente camicia fantasia e una giacca di pelle, in fondo il fascino della nascita di un mito come Ziggy Stardust fa capolino. E come recita l’incipit di Velvet Goldmine, in cui aleggia lo spirito del Duca Bianco:
“Le storie sono quel che resta degli imperi, come le antiche rovine. Tutto ciò che si è dimenticato rimane, negli oscuri sogni del passato, e minaccia costantemente di riemergere".