Cari Compagni, la recensione: un'altra strage nascosta, un'altra donna forte

Cinema

Giuseppe Pastore

Come in "Quo vadis, Aida?", il film di Konchalovsky affronta una tragedia "di Stato" dal punto di vista di una donna di partito in cerca di sua figlia. Elegante ed emozionante, con una grande interprete

Ai primi di giugno del 1962 le forze speciali del KGB reprimono nel sangue la protesta degli operai di una fabbrica di locomotive elettriche di Novočerkassk, scoppiata in seguito all'aumento del prezzo della carne e del burro decisa dal governo centrale. Alle proteste partecipa anche la figlia di un membro del comitato del KGB locale che si addentra in tortuose e solitarie ricerche, straziata tra il dovere di madre e la fedeltà al partito.

83 anni lo scorso agosto, Andrej Konchalovsky dà vita e rappresentazione a una delle pagine più oscure della storia dell'URSS, tanto che ancora oggi non è ancora stata fatta luce sui precisi responsabili della strage di Novočerkassk, sul numero esatto di morti e feriti, sul destino dei sopravvissuti e degli arrestati e delle rispettive famiglie. Non osa tanto nemmeno Konchalovsky, che preferisce percorrere la classica strada dell'innesto su un crimine di Stato di un dramma privato di un originale personaggio femminile: meccanismo già visto e apprezzato in questo Festival nell'eccellente Quo vadis, Aida? di Jasmila Zbanic. Qui la faccenda è ancora più crudele, come se Lyudmila (l'eccellente Julia Vysotskaya) avesse mani e piedi legati da due mute di cavalli dirette in direzioni opposte. Il dibattito che la dilania, tutto interno a sé stessa, è reso attraverso i dialoghi secchi e centrati con le sfingi di partito che la accompagnano nella sua penosa ricerca: pur gentili e premurosi, devono obbedire a interessi superiori. 

 

Il lato più affascinante e misterioso, forse indecifrabile, di questo Cari Compagni è la fede nel Partito e nell'ideale che tuttavia resiste, ammaccata ma non vinta, per esempio quando Lyudmila e Viktor intonano in macchina il tema principale del film Primavera (1947) composto da Isaak Dunaevskij con lo stesso sgomento con cui De Niro, Meryl Streep e tutti gli altri cantavano "God Bless America" alla fine del Cacciatore. Il sontuoso bianco e nero di Andrey Naidenov riscalda l'URSS grigiamente burocrate degli anni di Kruscev, e così Konchalovsky può spargere gocce di grande cinema a cominciare dalla scena iniziale, che ci mostra per l'unica volta nel film Lyudmila, mentre si riveste e si prepara in fretta e furia per andare al lavoro, come una donna: smetterà di esserlo già nella scena successiva, abbandonandosi al proprio doppio dovere di madre e funzionaria di partito. Oppure in quel dettaglio di meno di un secondo, quasi subliminale, che ci sembra di aver intuito nel buio della sala. Una stilla di astuzia, intelligenza, sfida allo spettatore, che fa venire voglia di rivedere il film: la calza bucata della giovane e ribelle Svetka le lasciava scoperto solo l'alluce del piede o tutte e cinque le dita? 

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