Il cortometraggio del regista spagnolo è un esercizio di stile in cui si diverte a giocare con la diva inglese e mostra, una volta di più, la splendida finzione del cinema
Dopo quattro anni di relazione, una donna sospetta di essere stata abbandonata dall'uomo che non si fa più vivo da tre giorni. Ma sull'orlo di una disperazione, nel cuore della notte, un telefono squilla...
Mezz'ora di puro Almodovar si accetta sempre volentieri: The Human Voice (dall'omonima opera teatrale del 1930 di Jean Cocteau, che almeno un paio di volte aveva fatto capolino nella filmografia del regista spagnolo) è più un divertissement che un'opera compiuta, un alibi per disporre a piacimento della diva e divina Tilda Swinton, dirigerla in inglese come mai è capitato ad Almodovar, farle abitare questo cortometraggio in cui si veste, si spoglia, medita il suicidio, si fa leccare da un cane, acquista un'ascia per 50 euro, la usa per infierire almodovaristicamente su un completo da uomo e recita a modo suo - ovvero, meravigliosamente - un monologo indossando un paio di AirPods.
Se Tilda Swinton, freschissima di Leone d'Oro alla Carriera, è ormai al di sopra di qualunque aggettivo, il valore aggiunto di questo cortometraggio è perdersi negli elementi d'arredo, negli abiti, nei colori, insomma in tutti quei dettagli in cui è bello perdersi - per esempio nelle copertine dei DVD tra cui spunta persino Kill Bill, a proposito delle grandi donne che contraddistinguono questa tormentata edizione veneziana. Tanto è tutta finzione, un eterno chroma key, un teatro di posa a 360 gradi che Almodovar non si trattiene dal mostrare: la sua Dogville rossa fiammante che l'algida Swinton - all'altezza delle dive anni Cinquanta che Almodovar venera da sempre - abbandona con quadrupede al seguito. La ritroveremo in un prossimo film?