L'opera della tunisina Kaouther Ben Hania affronta i problemi del presente e i temi dell'immigrazione e della mercificazione con ironia e gusto del paradosso
Fuggito da Raqqa per evitare il carcere, un immigrato siriano a Beirut finisce nelle grinfie di un artista contemporaneo che gli propone di diventare il soggetto di un'opera visionaria: un enorme visto Schengen tatuato sulla schiena e riprodotto nei minimi dettagli.
Questo film che sta strappando convinti applausi a ogni proiezione, sia quelle del pubblico sia quelle per la stampa più esigente, è arrivato a Venezia in sordina, senza nemmeno un pressbook a introdurlo e con una sola immagine di scena a disposizione dei media: un fuorviante primo piano di Monica Bellucci con parrucca bionda che serve soprattutto a stimolare l'orgoglio patrio. I protagonisti, infatti, sono altri: il magnifico Yahya Mahayni, volto e dorso dell'opera; la sua misteriosa compagna Dea Liane, due occhi da fantascienza, di cui non si trova traccia da nessuna parte prima due giorni fa; e naturalmente la regista tunisina Kaouther Ben Hania, in concorso a Cannes nel 2017 con La Belle et la Meute e agganciata quest'anno dalla pregevolissima Sezione Orizzonti di Venezia 2020. Ambientato in tre Paesi diversi (Siria, Libano, Belgio) con un ritmo e un'inventiva alla Danny Boyle, The Wan Who Sold His Skin - semi-citazione dei Nirvana - è un apologo moderno e intelligente sull'immigrazione e sulla mercificazione galoppante delle idee, dell'arte e del corpo, che sostituisce la retorica con il paradosso (è l'opera a disturbare i visitatori, e non viceversa) e la metafora di una "persona non grata" che supera anche le dogane più tenaci grazie alla schiena e non alla faccia. C'è anche molta tecnologia, invasiva e invadente, che deraglia improvvisamente con suggestioni alla Black Mirror e collega all'istante i quattro angoli del globo, affermando l'assurdità di questo mondo comunque dominato dal cinismo e dalla disuguaglianza.
Se la presenza di Monica Bellucci attirerà qualche curioso in più, segnaliamo invece (nel ruolo del cinico assicuratore) l'artista belga Wim Delwoye, noto per una lunga serie di provocazioni da Cloaca, un macchinario esposto ad Anversa che riempito di cibo produce feci, a Tim 2006-2008, un uomo che ha accettato di farsi tatuare da Delwoye, diventare tela umana e restare in esposizione permanente al Louvre, a Basilea o in Tasmania. Un film brillantissimo, che non si crogiola nel racconto del passato ma finalmente affronta di petto i problemi del presente e fa uscire lo spettatore sazio e soddisfatto.
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